martedì 31 dicembre 2024

Guccini



Aldo Cazzullo, La Locomotiva? Non era violenta. Incredibile, ho un amico cardinale
Corriere della Sera, 31 dicembre 2024


 È vero che negli anni più bui del terrorismo lei evitava di cantare la Locomotiva nei concerti? «No. Perché avrei dovuto?».
Non ha mai avuto timore che qualcuno ne fosse suggestionato?

«E prendesse una locomotiva per gettarsi contro un treno?».

No. Che prendesse le armi.

«Certo che no. È una canzone politica, ma è prima di tutto una suggestione letteraria. È ispirata al fascino del movimento anarchico di fine 800 e inizio 900. Figure come Gaetano Bresci e Carlo Cafiero, pronte a morire per il loro ideale, l’uguaglianza tra gli uomini, e certo anche a dare alla morte; come Luigi Licheni, che uccide l’imperatrice Sissi con una lima».

Come ha scritto la Locomotiva?

«In venti minuti. Eppure è lunghissima: tredici strofe. Ma ogni volta che ne finivo una, mi venivano in mente le rime di quella successiva. All’ultima ero stremato. Una canzone nata fortunata».

Successo immenso.

«L’hanno pure tradotta in catalano: La locomotora. Nel 1977, poco dopo la morte di Franco, mi capitò di cantarla a Barcellona, in un bar sulle Ramblas. Si fermò ad ascoltarmi un gruppo di giovani baschi. Quando citai “la fiaccola dell’anarchia”, impazzirono».

Succedeva anche in Italia, nei concerti: tutti

in piedi a salutare a pugno chiuso.

«Ma io non pensavo al comunismo, pensavo ad “Addio Lugano bella” di Pietro Gori, a “Nel fosco fin del secolo morente” di Luigi Molinari, che per quella canzone finì in carcere, con l’accusa di aver acceso i moti in Lunigiana del 1893… Anni in cui i poveri facevano letteralmente la fame, anche sulle mie montagne».

... L’altra strofa della Locomotiva che infiammava il pubblico era: «E sembra dire ai contadini curvi quel fischio che si spande in aria, “fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria!”». Negli anni 70 molti giovani pensarono che la rivoluzione, che il partito comunista non voleva più fare, l’avrebbero fatta loro.

«Togliatti per due volte aveva chiarito che in Italia, dove erano arrivati gli americani, la rivoluzione era impossibile. Lo disse quando tornò dall’Unione Sovietica: la svolta di Salerno. E lo ripeté quando gli spararono, il 14 luglio 1948: “Non perdete la testa”. Erano anni cupi, più ancora degli anni di piombo. Nel dopoguerra la polizia sparava regolarmente su operai e contadini in sciopero. Nel 1950 lo fece a Modena, Togliatti adottò la sorella di una delle vittime».

Marisa Malagoli.

«Era il 9 gennaio quando la polizia aprì il fuoco sugli operai delle Fonderie che protestavano contro i licenziamenti. Avevo nove anni; chiusero le scuole e ci rimandarono a casa. I morti di Reggio Emilia invece sono del 1960. Nel gruppo dei brigatisti di Reggio c’erano parenti di ex partigiani. Una follia, figlia dell’ideologia. Ci vuole ben altro, per sollevare un popolo... E io, come ci siamo già detti, non sono mai stato comunista».


Musiche di Luigi Molinari
1894

Nel fosco fin del secolo morente,
sull'orizzonte cupo e desolato,
già spunta l'alba minacciosamente
del dì fatato.

Urlan l'odio, la fame ed il dolore
da mille e mille facce ischeletrite
ed urla col suo schianto redentore
la dinamite.

Siam pronti e dal selciato d'ogni via,
spettri macàbri del momento estremo,
sul labbro il nome santo d'Anarchia,
insorgeremo.

Per le vittime tutte invendicate,
là nel fragor dell'epico rimbombo,
compenseremo sulle barricate
piombo con piombo.

E noi cadrem in un fulgor di gloria,
schiudendo all'avvenir novella via:
dal sangue spunterà la nuova istoria
dell'Anarchia.


Musiche di Pietro Gori

1894
Addio, Lugano bella,
o dolce terra pia,
cacciati senza colpa
gli anarchici van via

e partono cantando
con la speranza in cor.

Ed è per voi sfruttati,
per voi lavoratori,
che siamo ammanettati
al par dei malfattori;

eppur la nostra idea
non è che idea d'amor.

Anonimi compagni,
amici che restate,
le verità sociali
da forti propagate:

è questa la vendetta
che noi vi domandiam.

Ma tu che ci discacci
con una vil menzogna,
repubblica borghese,
un dì ne avrai vergogna

ed oggi t'accusiamo
di fronte all'avvenir.

Banditi senza tregua,
andrem di terra in terra
a predicar la pace
ed a bandir la guerra:

la pace tra gli oppressi,
la guerra agli oppressor.

Elvezia, il tuo governo
schiavo d'altrui si rende,
di un popolo gagliardo
le tradizioni offende

e insulta la leggenda
del tuo Guglielmo Tell.

Addio, cari compagni,
amici luganesi,
addio, bianche di neve
montagne ticinesi,

i cavalieri erranti
son trascinati al nord.

lunedì 30 dicembre 2024

La sfortuna di essere giovane


Marianna Filandri, Svantaggiati anche al lavoro. Il paradosso dei giovani italiani
La Stampa, 30 dicembre 2024

I giovani in Italia sono pochi e svantaggiati. Questo è, in estrema sintesi, il contenuto del Rapporto Cnel "Demografia e Forza Lavoro" diffuso in questi giorni. Il primo dato è ben noto: riguarda il bassissimo tasso di fecondità che da decenni è inferiore a 1,5 figli per donna e, di recente, è ulteriormente diminuito. Già dagli anni Novanta del secolo scorso in Italia c'erano più anziani che bambini: il numero di under 15 è costantemente inferiore a quello degli over 65. Oggi la popolazione anziana è arrivata a superare anche gli under 25 e le previsioni del Cnel ci dicono che in pochi anni saranno più numerosi persino dell'intera popolazione tra gli 0 e i 35 anni.

 Il secondo elemento evidenziato dal rapporto si riferisce alla condizione di svantaggio dei giovani nel mercato del lavoro. Questi ultimi hanno più probabilità di non lavorare e la loro condizione è peggiorata nel tempo. Il numero di occupati fino a 34 anni è, infatti, sceso in vent'anni di oltre due milioni. È un dato inatteso. Ci troviamo di fronte alla cifra record per l'Italia di 24 milioni di lavoratrici e lavoratori, ma l'occupazione giovanile cala. Significa quindi che ad essere migliorata è la situazione degli over 50, il cui numero tra gli occupati è praticamente raddoppiato. Nello stesso periodo sono passati da circa 4,5 milioni a poco meno di 9 milioni.

Se infatti ci sono molti interventi necessari che richiedono lo stanziamento di ingenti risorse, ci sono due misure che pur non richiedendo risorse, avrebbero un grandissimo impatto sulla vita dei giovani: l'introduzione del salario minimo legale e la limitazione del ricorso ai contratti a tempo determinato. Promuovere l'occupazione stabile e ben pagata è il primo passo per offrire condizioni migliori alle nuove generazioni, evitando di compromettere le basi stesse della sopravvivenza della società. 

domenica 29 dicembre 2024

Bianca Guidetti Serra. Un ricordo


Teresa Cioffi, «Mia madre, Bianca Guidetti Serra. L'amicizia con Primo Levi, il quadro di Pietro Cavallero e gli scioperi Fiat, una vita dedicata alla giustizia»
Corriere della Sera Torino, 29 dicembre 2024

 Tribunale di Pinerolo, 1951. «Chiedo che la signorina dimostri di possedere il titolo per difendere». La richiesta arriva dal pubblico ministero ed è rivolta a Bianca Guidetti Serra, che quel tesserino lo aveva ottenuto già quattro anni prima. È tra le prime penaliste d’Italia e sarà una figura di riferimento del Novecento. Si trova a Pinerolo per la difesa di tre operaie, imputate per violenza privata a causa di un picchetto. È il suo primo processo, l’alba di una lunga carriera consacrata alla difesa dei diritti. Molte delle sue battaglie si sono trasformate in interventi legislativi capaci di rendere un po’ più giusta quell’Italia per la quale Guidetti Serra aveva già combattuto. La chiamavano Nerina durante la Resistenza. Poi le lotte in aula a sostegno dei lavoratori, dei minori, delle donne. Ma quella data di avvio carriera, 1951, rappresenta anche un altro inizio. È l’anno di nascita di suo figlio, Fabrizio Salmoni: «E mia madre dovette battersi anche per me, per la mia adozione».

Perché?
«Mi trovavo all’istituto provinciale dell’infanzia. Un giorno entrarono all’istituto mia madre e mio padre Alberto. Mi è stato raccontato che io, in culla, sorrisi non appena li vidi. Forse sono stati loro a scegliermi, oppure chissà, può darsi che li abbia scelti io. Comunque, la domanda per l’adozione non fu una passeggiata. Ci furono “complicazioni politiche” perché mamma era comunista».

E alla fine?
«Dovettero brigare un po’ finché Ada Gobetti, che al tempo era in Consiglio Comunale a Torino, fece un’interrogazione. A quel punto le cose iniziarono a filare. Ada Gobetti aveva anche sposato i miei genitori, nel maggio del 1945. Avevano fatto la Resistenza insieme, organizzando i Gruppi di difesa della donna».

Cosa le raccontava della Resistenza?
«Sono cresciuto ascoltando le vicende vissute sia dai miei genitori che dalla famiglia Gobetti. Mia madre partiva da Torino verso la Val Chisone per portare messaggi, armi, quel che serviva. Un giorno arrivò a Fenestrelle durante un rastrellamento. Fu identificata come staffetta partigiana e messa al muro per la fucilazione, fino a quando la proprietaria di un hotel fermò tutto. Disse che quella ragazza era una sua dipendente. Non era vero, ma le salvò la vita. In montagna aveva l’occasione di incontrare anche mio padre, si erano conosciuti al liceo D’Azeglio».

Dove conobbe anche Primo Levi. A sua madre furono indirizzate le cartoline postali sulla deportazione e prigionia a Auschwitz. Come ricorda Levi?

«Sono stati grandi amici. Di Levi mi piaceva l’umorismo arguto. Le prime canzoni piemontesi, anche quelle goliardiche e divertenti, le ho ascoltate da lui. Veniva a trovarci spesso a casa, in via San Dalmazzo, dove mia madre aveva lo studio. E, tra le fotografie presenti, non poteva certo mancare quella con Primo».

Altre personalità passate in studio?
«Direi tutto il mondo della sinistra, in studio si svolgevano anche le riunioni di partito. Da bambino ero geloso del tempo che mia madre dedicava a militanti, operai e sindacalisti. Io li chiamavo “i brutti” perché erano sempre un po’ trasandati. Poi nel 1956 lasciò il Pci. Fu una scelta molto sofferta ma inevitabile per una questione di coerenza ideologica. Mia madre è sempre stata troppo indipendente, sia come testa che a livello politico. E ha sempre lottato a fianco dei lavoratori, a partire dagli scioperi in Fiat del 1943».

Il suo battesimo politico?
«Sì, e da quel momento in poi non ha mai smesso di combattere le ingiustizie. Tra le prime vittorie la causa del ’58 contro il Gruppo Finanziario Tessile per la parità retributiva. Tra i processi più importanti quello per le schedature Fiat e, successivamente, il processo Eternit. Poi come deputata fu la prima firmataria per la proposta di legge che mise al bando l’amianto. Ha lavorato molto anche per i minori e le adozioni, riformando la legge e collaborando con l’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive affidatarie».

Che madre è stata?
«Molto affettuosa. Diceva: “Quello che è giusto, è giusto. E se una cosa non è giusta bisogna raddrizzarla”. Era della scuola di Ada Gobetti: idee chiare, solidi principi, intransigenza morale, carisma e memorabili ire funeste quando si indignava».

La disturbava in studio?
«Da bambino la disturbavo ogni tanto. Io e mia nonna, a dire il vero, eravamo oggetto di distrazione. Mia nonna, che abitava con noi, rispondeva al telefono al posto suo e questo faceva molto arrabbiare mia mamma: non era professionale. Non era spesso a casa, comunque. Trascorreva più tempo in tribunale. Entrava alle 9 e poi al pomeriggio andava dai clienti alle Nuove».

In aula si trasformava?
«Io conoscevo la sua dolcezza, ma di “mite” aveva poco sia in aula che nell’impegno sociale. In tribunale diventava una grande avvocata, molto autorevole. Per lei doveva esserci sempre una distanza tra imputato e difensore ma, allo stesso tempo, era profondamente umana. E questo le veniva riconosciuto, tanto che ha continuato ad avere rapporti con chi aveva difeso».

Ad esempio con chi?
«Con alcuni membri della banda Cavallero. Era il caso di un gruppo di proletari comunisti andati fuori strada, non c’era la simpatia sui fatti ma c’era il desiderio di comprendere questi personaggi. Gli imputati percepivano questa empatia. Pietro Cavallero le dipinse un quadro che abbiamo ancora a casa. Adriano Pasqualino Rovoletto veniva a trovarla in studio con lo spumante e scherzava: “Vuole che mi dimentichi di chi mi ha fatto dare l’ergastolo?”».

Quali valori la guidavano?
«L’etica soprattutto e il coraggio. Inoltre, riteneva giusto e obbligatorio l’esercizio della difesa anche quando veniva rifiutata come nel processo alle Br. Poi c’è stato lo sconcerto per l’omicidio di Fulvio Croce, sofferto da tutto l’ambiente torinese. C’era la condanna al terrorismo ma, da parte di mia madre, c’era anche la volontà di capire perché la militanza fosse arrivata a questo punto. Questa voglia di comprendere, studiare, approfondire l’ha trasmessa anche a me».

Cosa la rendeva felice?

«Le bastava essere stimata e amata dal campo opposto, essere fermata per strada da sconosciuti che la ringraziavano per averli assistiti in tribunale, per averli fatti ri-assumere dopo un licenziamento, per avere ricordato un loro famigliare partigiano».

La cosa più bella che le ha mai detto?
«È successo durante uno dei suoi ultimi giorni. Mi ha guardato e mi ha detto: sei stato un bravo figlio».

Il rompicapo francese





Con estrema lentezza la Francia sta andando verso una ricomposizione del quadro politico. Gli osservatori più pessimisti prevedono già una vittoria di Marine Le Pen alle prossime presidenziali. La semplice lettura dei fatti accaduti finora suggerisce una maggiore prudenza in proposito. L'estrema destra aveva già riportato il 31 per cento dei voti (+ 8) alle europee e sembrava avere il vento in poppa. La coalizione macroniana si era fermata al 14,6 (- 7,82). Macron decide di giocare il tutto per tutto: scioglie l'Assemblée Nationale e indice nuove elezioni legislative per il 30 giugno e 7 luglio. Un azzardo molto criticato in patria, e che sembra inizialmente consegnare la Francia all'estrema destra: al primo turno, infatti, il Rassemblement National incassa il 33,21 per cento dei voti, davanti al Nuovo Fronte Popolare (sinistra unita: 28,06) e a Ensemble (Macron: 20,04). Sorpresa: in vista del secondo turno, nasce un blocco anti-lepenista, che si coalizza in un complesso sistema di desistenze incrociate con il risultato di relegare il partito di Marine Le Pen al terzo posto con 142 seggi contro i 178 del Nfp e i 150 dei macroniani. Ciò «salva» la repubblica dal pericolo delle estreme ma consegna il Paese all'ingovernabilità. A questo punto le sorprese si moltiplicano. Cade la Quinta Repubblica, Macron non ne prende atto, nomina un primo ministro che non gode di un sostegno parlamentare sufficiente. Al primo scoglio, dopo cento giorni, quando il nuovo governo prova ad usare l'articolo 49 terzo comma per aggirare il voto parlamentare, il Nuovo Fronte Popolare presenta una mozione di censura sulla quale converge l'estrema destra e il primo ministro Michel Barnier è costretto alle dimissioni. 
In che senso era caduta la Quinta Repubblica? Il regime semipresidenziale della Francia si era rivelato capace di tollerare l'esistenza di una maggioranza parlamentare ostile al Presidente della Repubblica. Questo dava luogo alla cosiddetta coabitazione. La novità intervenuta con le elezioni dell'estate 2024 era data dal fatto che sulla carta non c'era a quel punto nessuna possibile maggioranza parlamentare. Paradossalmente questo conferiva all'Assemblea nazionale una posizione di forza, il Presidente della Repubblica non essendo più in grado di espletare il suo mandato in mancanza di un governo capace di resistere a un voto contrario del Parlamento. 
Naturalmente era possibile immaginare una maggioranza di governo sbilanciata a destra o a sinistra. Il nuovo primo ministro designato, François Bayrou, ha cercato invece di mantenere la barra al centro, non ha stretto un patto con i socialisti a sinistra, mentre è andato incontro ad alcune richieste dell'estrema destra. Ora la Francia ha un governo la cui tenuta dipende dalla buona volontà del Rassemblement National. Quanto può durare questa situazione? Durerà abbastanza per consentire uno sblocco almeno parziale della crisi politica in atto? Una risposta certa a queste domande non può essere data. Troppe sono le variabili in gioco, prima fra tutte l'interesse di Marine Le Pen a forzare il passo per accedere alla presidenza della Repubblica prima di un pronunciamento giudiziario che potrebbe rivelarsi fatale per le sua carriera politica futura.
Una cosa è certa, Se il nuovo governo dovesse cadere in breve tempo, difficilmente Macron potrebbe far finta di nulla e nominare un altro primo ministro senza una maggioranza precostituita. In questo senso la Francia ha già cambiato regime, sta passando dal semipresidenzialismo a quello che Maurice Duverger avrebbe definito un parlamentarismo orleanista, ossia a un duopolio del potere diviso tra Presidenza della Repubblica e Parlamento. In questo tempo sospeso, Bayrou potrebbe mettere sul tappeto una riforma del sistema elettorale con l'adozione della proporzionale. Si rafforzerebbe in tal modo la tendenza al deperimento del regime semipresidenziale a vantaggio di una repubblica parlamentare. 
Ciò detto grandi manovre sono in corso con l'obiettivo di arrivare a una ricomposizione del quadro politico tanto a destra quanto a sinistra. Riuscirà Mélenchon a proporsi di nuovo come candidato unico o principale della sinistra alle prossime presidenziali? Quanto incideranno sul sostegno a Marine Le Pen o al suo vice, Jordan Bardella gli scalpitanti fautori di un rilancio centrista orientato a destra, i vari Darmanin, Retailleau, Philippe, tutti ex gollisti? Questi sviluppi hanno bisogno di tempo per maturare, mentre i tempi della crisi potrebbero rivelarsi più rapidi e cogliere tutti di sorpresa. Ecco perché una previsione ragionevolmente fondata appare al momento impossibile da tracciare. 



 È stato un anno impegnativo, il 2024 di Emmanuel Macron, di professione presidente della Repubblica francese. Un anno sempre sul filo del rasoio, tra spericolatezza e arroganza politica. La decisione clou è quella che prende all'indomani delle elezioni europee, il 9 giugno. La coalizione che lui guida si infrange contro il trionfo del gruppo di estrema destra guidato dal Rassemblement National di Jordan Bardella e Marine Le Pen, che incassa il 31,3 per cento dei voti, mentre la macroniana Ensemble naufraga.  Il risultato provoca una reazione del  Dopo molte settimane, e il time out per i Giochi Olimpici di Parigi nasce claudicante il governo guidato da Michel Barnier: durerà esattamente cento giorni. Dopo un nuovo stallo, stavolta più breve, pochi giorni fa ecco il governo François Bayrou, non saldissimo. Ma per la gran parte dei francesi il problema non abita a Matignon ma all'Eliseo. È Emmanuel Macron. Che spera in un 2025 un filo più tranquillo.

Camerata La Russa




Roberto Gressi, Battibecco Renzi - La Russa. "Camerata". "No a lezioni"
Corriere della Sera, 29 dicembre 2024

I duellanti

Renzi: «Quello che voglio dire, anche alla rumorosa componente della maggioranza, della quale il presidente del Senato evidentemente non si avvede...».

La Russa, suono di campanella: «Senatore Renzi, non c’è nessun rumore particolare. Capisco che lei voglia un silenzio assoluto, ma siamo nella regola. La prego di non darmi lezioni. Prosegua senza dare a tutti lezioni».

Renzi: «Lei non mi può interrompere in diretta televisiva! Lei deve abituarsi, camerata La Russa, a rispettare l’opposizione in quest’aula».

La Russa: «Abbia la cortesia di non fuggire dalla verità, prego».

Renzi: «Magari pensavo di farle un complimento, si figuri (riferito a camerata). Talvolta diceva che ero adulatore. E il fatto che lei non avverta i rumori è tipico di un’età incipiente, che va avanti, non è un problema».

La Russa, ancora campanella: «Vi prego di ascoltare religiosamente il senatore Renzi».

Basta? Macché. Fuori dall’aula si parla solo di questo. Il merito della manovra rotola via, e pure le critiche al suo stesso governo del leghista Massimiliano Romeo scivolano innocue. E pure Matteo Salvini, che insiste a chiedere per sé il Viminale, pare non interessare più di tanto.

Genocidio e sionismo: i fatti




Roberto Della Seta, Genocidio o no, Israele è un paese criminale
il manifesto, 29 dicembre 2024

Ho cambiato idea, credo di essermi “radicalizzato”. Circa un anno fa ho scritto su queste pagine dei miei dubbi sull’opportunità di definire come «genocidio» la guerra condotta da Israele a Gaza. Dubbi, soprattutto, sul rischio che usare estensivamente un concetto così drammaticamente estremo, applicandolo a comportamenti che certo configurano crimini di guerra ma che sul piano giuridico sfuggono almeno in parte alla categoria canonica del genocidio, finisca per annacquare il senso, la percezione, la «sacralità» di una parola coniata per dare un nome al male più «indicibile»: alla Shoah.

Capisco le ragioni di chi rimane affezionato a questa disputa terminologica – crimini di guerra sì, genocidio no – ma oggi la trovo «distraente». I nomi, le parole sono importanti, però i fatti, le cose contano di più. I fatti sono che da più di un anno Israele – chi la governa, il suo esercito, le sue forze di sicurezza, senza una significativa opposizione politica e sociale nel mondo ebraico-israeliano – procede nella distruzione sistematica e indiscriminata dei palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, tollera e spesso spalleggia le persecuzioni continue contro civili palestinesi in Cisgiordania a opera di bande di coloni ebrei israeliani, rifiuta sistematicamente ogni richiamo di organismi sovranazionali alla palese illegittimità dei suoi metodi guerra.

ECCO, io penso che oggi dividersi tra quanti giudicano inaccettabili questi fatti, su come vadano nominati – genocidio? crimini di guerra? crimini contro l’umanità? – ne metta in ombra la gravità con pochi eguali nella storia recente e oscuri un fatto ulteriore che da essi consegue: Israele è ormai a tutti gli effetti un Paese «illegale», «criminale», altrettanto sprezzante del diritto internazionale e di quello umanitario dei Paesi e gruppi suoi nemici.

Lo è non più soltanto come governo, ma come entità giuridica che rivendica, con le sue istituzioni, il diritto di massacrare decine di migliaia di civili palestinesi per neutralizzare Hamas, di occupare per un tempo indefinito territori non suoi dominandone gli abitanti come sudditi di un potere assoluto, di trattare da cittadini di serie b milioni di arabi israeliani (è apartheid? Anche in questo caso preferisco concentrarmi sulla cosa più che sul nome).

Distraente da questa evidenza, particolarmente dolorosa per chi come me sente un legame profondo con le radici ebraiche dello Stato d’Israele, considero anche il dibattito su sionismo e antisionismo. Il movimento sionista nacque alla fine dell’Ottocento per dare speranza a milioni di ebrei d’Europa perseguitati e discriminati.

Indicando l’obiettivo concreto di costruire uno Stato ebraico in Palestina, fondava la sua visione su un valore – il diritto dei popoli ad autodeterminarsi – che ha conosciuto nella storia due declinazioni tra loro opposte: patriottismo democratico e nazionalismo esclusivista. Declinazioni, per guardare all’Italia, che si combatteranno ferocemente nella guerra civile tra Resistenza e fascismo.

IL SIONISMO è sempre stato abitato da entrambe queste «anime», e in più ha recato fino dai suoi inizi i segni di un «peccato» originale: disinteresse per i diritti nazionali di quanti, non europei, vivevano da secoli nella «terra promessa». Il movimento sionista vedeva il mondo con occhi «colonialisti»: ma almeno fino a tutta la prima metà del Novecento così lo vedevano anche pensieri e movimenti squisitamente progressisti. Basti pensare a tanti socialisti rivoluzionari italiani che nel 1911 si entusiasmarono per la guerra coloniale in Libia, o alla sinistra socialista e comunista francese che alla fine degli anni ’50 sostenne con forza la repressione contro l’indipendentismo algerino.

Sarebbe bene, allora, lasciare il sionismo alle analisi e ai giudizi degli storici. Oggi Israele non è «sionista», è molto peggio: è uno Stato le cui élite politiche – fortunatamente non quelle intellettuali – condividono con rare eccezioni l’idea di un nazionalismo aggressivo ed esclusivista che, come dimostra plasticamente la figura di Netanyahu, ha bisogno di guerra per sopravvivere. È qui la prima e più micidiale minaccia esistenziale per Israele: è in quello che Anna Foa in un libro recente molto bello e molto sofferto ha chiamato il suo «suicidio».

belfagor: Crimini gravi, non un genocidio (machiave.blogspot.com)

sabato 28 dicembre 2024

Vienna rossa

 



Flavia Foradini, Una mostra al Wien Museum rilegge l'epopea dei 15 anni di socialdemocrazia con la costruzione degli Hof, i mitici insediamenti abitativi per il proletariato, il giornale dell'architettura.com, 30 luglio 1919 

VIENNA. I fatti sono noti: l’epoca passata alla storia anche dell’architettura come “Vienna Rossa” produsse oltre 64.000 appartamenti di edilizia popolare tra il 1919 e il 1934. Un piano imponente, che doveva arginare l’emergenza abitativa: all’inizio del primo dopoguerra, il 95% delle dimore non aveva acqua corrente e per il 92% i gabinetti erano condivisi sui pianerottoli.

Il progetto edilizio della “Vienna Rossa” fu tuttavia parte integrante di un movimento assai più ampio, volto a creare “l’uomo nuovo” e a promuovere la crescita sociale e culturale degli strati meno abbienti della popolazione. Il substrato fu squisitamente politico e trasse beneficio sia dalla vittoria della socialdemocrazia viennese con il 54,2% alle elezioni amministrative del 4 maggio 1919, sia dall’ascesa nel 1920 di Vienna anche a capoluogo di Land, con autonomie pure di tipo fiscale, che produssero un sistema di tassazione progressiva e una tassa sul lusso, con entrate convogliate in particolare in opere di carattere sociale: «Gli ambulatori odontoiatrici vengono finanziati con le imposte sulle 4 maggiori pasticcerie cittadine. Quelle sull’Hotel Sacher e gli altri grandi hotel coprono i costi dei medici scolastici e delle piscine pubbliche. Quelle sui bordelli coprono i costi dell’unità di ostetricia pubblica».

Esimie personalità di tutti i campi culturali, artistici e scientifici sostennero il progetto politico e fornirono impulsi importanti alla visione di una società più equa e più serena, con un’amministrazione pubblica fortemente presente nel campo dell’istruzione, della sanità, delle politiche sociali e abitative, della cultura: «L’edilizia deve offrire un tetto sicuro, ma anche promuovere la salute fisica e spirituale, e il progresso culturale della popolazione», si leggeva in un opuscolo destinato ai nuovi affittuari. Così come la Ringstrasse aveva promosso la borghesia, allo stesso modo la nuova edilizia popolare mise al centro il proletariato.

L’icona di quel periodo, e massima espressione degli ideali che permearono il primo dopoguerra, resta il Karl-Marx-Hof firmato da Karl Ehn. Il gigantesco edificio nel 19° distretto, con un fronte di 1.100 metri e 1.382 appartamenti, non fu il primo, essendo stato inaugurato nel 1933 dopo 7 anni di lavori, ma divenne il simbolo del desiderio di fornire alla classe operaia piccoli ma efficienti appartamenti ad affitto contenuto, inseriti in un complesso quasi autarchico. Il Karl-Marx-Hof era provvisto di due lavanderie, due bagni pubblici, due scuole materne, un poliambulatorio medico e uno odontoiatrico, una farmacia, un centro di consulenza per donne in gravidanza, una biblioteca, un centro giovanile, un ufficio postale, 25 negozi, ed era dotato di un’immensa corte centrale verde, pensata come luogo di aggregazione e svago, con aree giochi. Solo il 18% dell’area di 156.027 mq venne edificata: fino al periodo della Vienna Rossa, la percentuale consentita raggiungeva l’85% dei lotti a disposizione. Il nuovo motto era: “luce, aria e sole”.

Il primo Hof fu iniziato nel 1919, nel 5° distretto. Gli architetti Robert Kalesa e Hubert Gessner, posero con il Metzleinstalerhof le basi per l’idea di una sorta di fortezza con accessi ad una corte centrale, unità abitative già fornite di cucina arredata, tante finestre, ancorché piccole, servizi e spazi comuni disegnati con cura. Dopo quell’Hof ne seguirono altri 380, di cui 24 monumentali, concepiti da 199 architetti. Dietro molti di essi, gli insegnamenti del deus ex machina Otto Wagner.

Franco Cardini, Vienna. A passo leggero nella storia, Il Mulino, Bologna 2024, pp. 312-318
https://machiave.blogspot.com/2024/12/la-vienna-di-franco-cardini.html
I 100 anni della Vienna rossa - vienna.info (wien.info)

Cecilia Sala. La storia




Nel 2023 Cecilia Sala ha spiegato la differenza tra paura e panico per i reporter di guerra, in un'intervista Carlotta Vagnoli nel format Basement Café, realizzato da Lavazza.

"C'è una differenza fondamentale tra paura e panico. La paura, in certe situazioni, è utile perché ti protegge, aiuta a concentrarti, a migliorare udito e vista, riducendo il rischio di farti del male, ti evita il pericolo. Il panico, invece, ti rende più pericolosa per te stessa rispetto alla situazione in cui ti trovi".  (Il Giornale d'Italia)

Lorenzo Santucci, La colpa di dar voce alle donne iraniane. Cecilia Sala, le storie, l'arresto senza accuse, l'isolamento a Evin 
Huffington Post, 27 dicembre 2024

 Nell'ultimo post su Instagram, Cecilia Sala racconta di aver "incontrato una persona a cui ho voluto bene da lontano per anni. Si chiama Zeinab Musavi, è la stand up comedian più famosa d’Iran. È stata arrestata per le parole pronunciate da una maschera, uno dei personaggi dei suoi sketch". È datato 18 dicembre, un giorno prima che la giornalista italiana venisse arrestata e rinchiusa in una cella di isolamento nel carcere di Evin, il simbolo della repressione del regime iraniano, senza alcun capo d'accusa.

Contattato da Huffpost, il direttore di Chora Media, Mario Calabresi, premette subito che c'è un vincolo al massimo riserbo per non interferire con il lavoro delle autorità, ma ci tiene a sottolineare è che nella trasferta iraniana di Cecilia Sala “non c'è stata improvvisazione: non è una freelance, ma è regolarmente assunta da Chora, viaggia con tutte le cautele ed è entrata in Iran in accordo con le autorità, in modo regolare e trasparente”. Può sembrare una banalità, ma non lo è. Certo, in alcuni posti del mondo, di cui la Repubblica islamica fa parte, le precauzioni per la stampa non sono mai abbastanza. Malgrado la giovane età (29 anni), Sala ha già un lungo curriculum di terre di crisi e di conflitto raggiunte per raccontare le sue storie: Venezuela, Cile, Iran, Sudan, Ucraina, Israele, sono soltanto alcune delle crisi che la giornalista romana ha seguito in prima persona, sul campo.

Cecilia Sala era atterrata a Teheran il 12 dicembre con un visto di otto giorni. Il suo arrivo viene testimoniato con una foto postata sui social, con tanto di dedica: "Mi era mancato il tuo smog". Chi ha lavorato con lei, sa quanto l'Iran le fosse entrato dentro, anche e soprattutto per il coraggio della sua gente, in particolar modo quello dimostrato dalle donne, raccontato nei suoi podcast, nei reportage e anche nel suo libro "L'incendio" (Mondadori). A spingerla di nuovo in Iran è il momento storico che sta vivendo il paese. La resistenza della popolazione sta costringendo il regime ad alcune concessioni, come il passo indietro della legge sull'hijab, per paura che scatenasse la disobbedienza civile, il permesso medico concesso alla più celebre prigioniera del carcere di Evin, la premio Nobel per la pace Narges Mohammadi, oppure il rilancio della cantante senza velo Parastoo Ahmadi, oppure ancora con la riapertura di GooglePlay e Whatsapp che erano stati bloccati due anni fa, dopo l'uccisione di Mahsa Amini. 

Otto giorni per raccogliere storie, Cecilia Sala aveva già dedicato all'Iran tre puntate del suo podcast quotidiano – Stories, prodotto da Chora Media - e aveva altro materiale. La prima, “Una conversazione sul patriarcato a Teheran”, con protagonista la ventunenne Diba, giovane studentessa dai capelli tinti di rosso, scappata di casa due anni fa contro la volontà del padre durante le proteste che hanno scosso l'Iran. La seconda, “L’album di famiglia dell’Asse della resistenza”, a casa di Hossein Kanaani, uno dei fondatori dei pasdaran, per raccontarle il nuovo Medio Oriente alla luce dell'indebolimento dei vari proxy dell'Iran. La terza, “Lei fa così ridere che le hanno tolto Instagram. Teheran comedy”, è la storia della giovane Musavi, silenziata e condannata dal governo per le sue battute considerate blasfeme. L’episodio era uscito sulle varie piattaforme quarantotto ore prima della partenza dell’aereo che avrebbe dovuto riportare Sala in Italia, il 20 dicembre, su cui non è mai salita.

“Sarebbe dovuta rientrare a Roma il 20 dicembre, ma la mattina del 19, dopo uno scambio di messaggi, il suo telefono è diventato muto”, si legge nel comunicato di Chora Media che ricostruisce i fatti dell'ultima settimana. “Conoscendo Cecilia – scrivono dalla sua redazione – che ha sempre mandato le registrazioni per le puntate del podcast con estrema puntualità anche dal fronte ucraino nei momenti più difficili, ci siamo preoccupati e, insieme al suo compagno, il giornalista del Post Daniele Rainieri, abbiamo allertato l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri. Abbiamo chiamato i suoi contatti iraniani, ma nessuno sapeva dove fosse finita. La mattina di venerdì non si è imbarcata sul volo di ritorno e la situazione si è fatta ancora più angosciante. Poche ore più tardi il suo telefono si è riacceso: Cecilia ha chiamato sua madre e le ha detto che era stata arrestata, portata in carcere e che aveva avuto il permesso di fare una breve telefonata. Non ha potuto dire altro”. Alla domanda su dove si trovasse e quale fosse la ragione dell’arresto, ha risposto: “Non posso”.

Da allora le autorità italiane si sono attivate per capire cosa fosse successo e per far tornare a casa la giornalista. Stamattina, otto giorni dopo il fermo, l’ambasciatrice in Iran Paola Amadei ha potuto vederla per constatare le sue condizioni. Le ha portato le ha portato vestiti, cibo, libri e prodotti per l'igiene personale, e sta facendo il possibile perché gliele facciano avere, mentre si lavora per il suo rilascio. "Sta bene, è detenuta in isolamento in una situazione tranquilla", spiega il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che invita tutti alla "massima riservatezza" sulla vicenda. Manca un capo d'accusa. “Fin dal primo giorno, da quando è arrivata la notizia dell’inaccettabile arresto, tutto il governo si è mosso per farla liberare”, sottolinea il ministro della Difesa, Guido Crosetto, “ogni persona che poteva e può essere utile per ottenere questo obiettivo si è messa al lavoro. Le trattative con l’Iran non si risolvono, purtroppo, con il coinvolgimento dell’opinione pubblica occidentale e con la forza dello sdegno popolare ma solo con un’azione politica e diplomatica di alto livello”, ha aggiunto promettendo che "si sta seguendo ogni strada”.

Nel mettere insieme le poche informazioni a disposizione, viene messo in evidenza un elemento. Nelle due chiamate che Sala ha potuto effettuare, una alla madre e una al compagno e collega Daniele Raineri, ha riferito di stare bene, di non essere ferita. Tuttavia, alcune parole pronunciate sembravano essere tradotte dall’inglese, suonavano innaturali nella lingua italiana. Da qui l’impressione che la giornalista sia stata costretta a leggere un testo già scritto. "Cecilia è una giornalista forte e coraggiosa ma è sconvolta di stare in carcere", spiega Calabresi. 

Il fatto che Sala sia stata portata a Evin è altrettanto rilevante. Il carcere, che si trova nell’omonimo quartiere di Teheran, è noto per essere il luogo in cui vengono rinchiusi gli oppositori del regime degli ayatollah. A finirci dentro sono dissidenti politici, attivisti di ogni genere ma anche comuni cittadini - nel 2022 anche la travel blogger italiana Alessio Piperno -, molti dei quali arrestati durante l’ondata di proteste scaturita dalla morte di Masha Amini. Il 15 ottobre 2022 lo scoppio di un incendio sembrava l’inizio di una rivolta carceraria ma, come scritto anche da Amnesty International, sembrava essere un modo utilizzato dalle autorità per perpetrare uccisioni, torture e altre violenze. È in quell’inferno che è stata rinchiusa Sala, al momento senza un’accusa se non quella di svolgere il proprio ruolo di giornalista.


Giuliano Ferrara, Vita, donna e libertà: Cecilia Sala e le sue sorelle d'avventura
Il Foglio, 30 dicembre 2024

Guardando con apprensione e affetto le fotografie di Cecilia Sala, arrestata senza imputazioni e ristretta nel carcere famigerato di Evin, a Teheran, non si può non pensare che il suo volto, molto bello, è somigliante, forse identico, a quello di tante ragazze iraniane mostrate in effigie dalle durissime cronache politiche del regime e delle sue pratiche repressive. Stupefacente aver già visto nelle protagoniste del movimento “Vita donna e libertà” gli stessi occhi, lo stesso ovale, la stessa freschezza di tratto e perfino lo stesso trucco, lo stesso colore del rossetto sulle labbra, la stessa espressione di intelligente innocenza. La giornalista italiana ora sta in una di quelle celle dove stanno o sono state molte delle sue compagne di generazione, sorelle in usi e costumi e vita che accomunano chi può e chi non può esercitare le più elementari libertà, in particolare quelle femminili oggetto di contesa nelle incerte e tortuose vie della civilizzazione moderna.

Persone come Cecilia Sala portano speranza, ci fanno capire che quando si tratta di diritti umani e di connessione non ci sono confini di distanza o di lingua. Ha portato molta speranza agli iraniani che hanno parlato con lei, che sapevano che le loro storie avrebbero ricevuto attenzione. Dovremmo fare il possibile per farla uscire”, dice al Foglio la scrittrice iraniana Azar Nafisi, che ha appena finito di scrivere una lettera per Cecilia, detenuta dal 19 dicembre nel carcere di Evin, arrestata arbitrariamente dal regime iraniano. “La speranza, parafrasando Václav Havel, non è la convinzione che ciò che fai sarà premiato – continua Nafisi – ma è fare qualcosa perché è giusto, perché ha un senso. E’ la speranza delle donne e degli uomini che vanno in prigione. Sanno che potrebbero morire in qualsiasi momento, ma finché vivono, non permettono al regime di vincere vedendoli mendicare, cambiare”.

Nafisi, che si oppone da sempre al regime iraniano, ha scritto “Leggere Lolita a Teheran”, che è appena diventato un film di Eran Riklis, e di recente di “Leggere pericolosamente”, una raccolta di saggi sul potere sovversivo della lettura. Ci parla da Washington, dove vive in esilio da trent’anni, e quando nominiamo Evin, il famigerato carcere di Teheran, prende tempo. “Per me è molto difficile parlarne. Il solo nome evoca paura e inquietudine nelle persone. Cosa posso dire se non che è un luogo terribile? Essere incarcerati in isolamento, con persone che non parlano la tua lingua, è di per sé una forma di tortura”.

Si deve sperare, a parte il resto dell’intrigo che ha portato a questo, che le autorità di Teheran, qualcuno tra loro che sia illuminato dalla curiosità psicologica e umana, trovino il tempo e il modo di farsi leggere gli articoli di Sala e di vedere le storie da lei raccontate nel suo podcast. Esiste, è esistito per circostanze di necessità, un giornalismo fiero e provocatorio, un modo di raccontare che si presenta come una sfida, di cui la celebrità di Oriana Fallaci, corrispondente di guerra del secolo scorso e dell’inizio di questo secolo, è stata simbolo e specchio. Sala appartiene a un altro mondo e a un altro linguaggio, può essere travolta anche lei da una giornata tempestosa di ingiustizia, ma il suo modo di registrare la realtà che vede e documenta ha il crisma dell’affinità e della sensibilità prima che quello dell’opposizione e dell’ideologia. Non che faccia sconti nella propria percezione del bene e del male, come sa chi ha letto quel che ha scritto e ascoltato quel che aveva da dire dall’ucraina all’Iran, ma è e si sente parte del mondo che origina il suo sguardo professionale e personale, vita donna e libertà sono parole che la assimilano alle cose viste oltre ogni confine, in un tutto unico. La sua curiosità e la sua tecnica sono elementi di un altro secolo, riunificato e omologato nella sorpresa e nello sconcerto per le negazioni e i divieti del fanatismo, quanto di più estraneo ai vezzi e ai vizi di quello che fu definito “orientalismo”, con riferimento alla spiccata identità occidentale, in sospetto di cultura coloniale nel famoso saggio di Edward Said. Nel carcere di Evin sta una persona che oriente e occidente non definiscono, a partire da idee e pregiudizi, una come loro, come le sue compagne di detenzione che pagano come reato o oltraggio religioso quel che per lei è

normale, ordinario, dall’acconciatura al resto del linguaggio del corpo.

Difficile comunicare questo nitore e questo stile universale di una generazione nuova e delle sue parole e immagini, ma bisognerebbe provare a farlo nonostante tutto, sperando che in quella teocrazia elettiva, paradosso dei paradossi, si trovi ancora qualcuno capace di capire che le barriere del tremendo e dell’orrendo, cioè le frontiere del fanatismo, possono quasi nulla contro una volontà di sapere e di scoprire che segue le vie di queste sorelle d’avventura, così lontane tra loro nell’immaginazione del regime, così vicine nello specchio della realtà.


belfagor: L'inutile esercito siriano (machiave.blogspot.com)

venerdì 27 dicembre 2024

Manmohan Singh

 



Un ininterrotto omaggio di esponenti di tutto l'arco politico indiano e di migliaia di persone comuni, in coda a Delhi dalle prime ore di questa mattina, è stato reso all'ex primo ministro indiano Manmohan Singh, morto ieri a 92 anni. (swissinfo) 

Manmohan Singh (born September 26, 1932, Gah, West Punjab [now in Pakistan]—died December 26, 2024, New Delhi, India) was an Indian economist and politician who served as prime minister of India from 2004 to 2014. A Sikh, he was the first person from a minority community to occupy the office. (Britannica)

Giovedì è morto a 92 anni l’economista ed ex primo ministro indiano Manmohan Singh. È considerato uno dei politici più importanti della storia recente: dopo aver studiato economia all’Università di Oxford, nel Regno Unito, Singh fu governatore della banca centrale indiana, consulente del governo e poi ministro dell’Economia dal 1991 al 1996. Nel 2004 fu nominato primo ministro dal suo partito, che aveva vinto le elezioni a sorpresa, e ricoprì l’incarico fino al 2014.

Attraverso una serie di politiche aprì il paese al commercio estero e agli investimenti privati, portando a un periodo di crescita economica dell’India senza precedenti. Durante i suoi anni da primo ministro introdusse anche diversi programmi di welfare e stipulò uno storico accordo di collaborazione con gli Stati Uniti sull’energia nucleare.

Il suo governo fu però anche segnato da grossi scandali di corruzione che riguardarono diversi leader del suo partito e da continue accuse da parte dell’opposizione, che sosteneva che Singh fosse in realtà guidato dalla presidente del suo partito, Sonia Gandhi. Gandhi è italiana ed è la vedova dell’ex primo ministro Rajiv Gandhi, la cui famiglia aveva guidato l’India fin dall’indipendenza dal Regno Unito nel 1947. (Il Post)






Manmohan Singh, Indian Prime Minister, Dies at 92 - The New York Times (nytimes.com)