domenica 22 dicembre 2024

La ragazza straniera. Un amore di Martin Heidegger

 


Francesca RigottiCarteggi amorosi / Hannah Arendt e Martin Heidegger: le lettere, Doppiozero, 5 settembre 2020

Arendt non sembra avere preferenze di luogo o di territorio; vive dove riesce a vivere, a pensare, a scrivere. Non si considera una donna tedesca e neanche una donna ebrea: lo scrive a Heideger nel 1950, quando riprende la corrispondenza che si era interrotta nell’inverno del ‘32-33, allorché Arendt era riparata prima in Francia e poi negli Stati Uniti con il secondo amato marito Heinrich Blüchner, che fu tutto, amato, amico, fratello, padre, collega, scrive Safranski; mentre dal primo, Günther Stern, poi Anders, aveva divorziato dopo un breve matrimonio. Io sono soltanto, scrive di sé Arendt, Das Mädchen aus der Fremde, la ragazza straniera, straniera ovunque, che è di casa soltanto nella sua lingua madre – dirà nella celebre intervista – l’unica lingua nella quale poteva recitare le poesie imparate a scuola, tra le quali sicuramente anche i versi di Schiller sulla fanciulla straniera che distribuiva i suoi doni, fiori e frutta, a tutti, ma specialmente alla coppia di innamorati del finale. 

Hannah Arendt è sempre la stessa ragazza dai capelli ricci nei quali lui passava «il pettine delle sue dita», le scrive Heidegger nel 1950, e per la quale il professore scrive poesie, una delle quali porta lo stesso titolo della poesia di Schiller, La ragazza straniera. I versi di Heidegger non sono melodiosi come quelli di Schiller, sono ruvidi, criptici, pesanti, senza bellezza. Un’altra delle poesie che Heidegger dedica a Arendt si intitola Die SterblichenI mortali. Su questo tema, come su altri, le considerazioni di Arendt e Heidegger erano andate in direzioni opposte: all’«essere per la morte» e alla filosofia della mortalità di Heidegger Arendt infatti rispose con la filosofia della natalità, l’«essere per la vita», «essere per la nascita», la filosofia dell’essere non soltanto mortali ma anche, e soprattutto, nascibili. L’inno filosofico al nascere, che si affaccia alla mente di Arendt mentre ascolta le note dell’Alleluja del Messiah di Händel, fu forse una sorta di compensazione per i figli che Hannah Arendt non ebbe mai, perché «quando poteva non fu possibile e quando fu possibile non poteva», come le fa dire Margarete von Trotta nell’omonimo film (Hannah Arendt, con Barbara Sukowa, Germania, Lussemburgo, Francia 2012).

Ebbe però quell’amore grande, e Heidegger ebbe l’amore di lei, e il loro amore si mischiava con l’amore per il pensiero e il desiderio di comprendere, era un amore che Heidegger espesse nei primi tempi della loro storia con le parole di Agostino, senza sapere che proprio sul concetto di amore in Agostino Arendt avrebbe scritto la tesi di dottorato, non più con lui ma con Jaspers, a Heidelberg e non a Marburg, da cui si era allontana proprio a causa di quell’amore impossibile. «Amo», scrive Heidegger citando per la prima volta il filosofo di Tagaste nella lettera del 13 maggio 1925, significa «volo ut sis». Ti amo, cioè voglio che tu sia ciò che sei, «felice, raggiante e libera come venisti a me», le aveva scritto appena il mese prima, firmandosi non più semplicemente Martin ma «il tuo Martin». Anche Hannah comincerà a firmarsi «la tua Hannah», quella che nel 1929 gli bacia «la fronte e gli occhi».

Poi la lunga interruzione e la ripresa nel 1950, timida, dove le lettere un po’ sostenute di quel periodo, gli anni della gelosia sono stati definiti, vengono firmate semplicemente Martin. Finché negli anni dell’autunno, così chiamati dal titolo di un’altra poesia, Autunno, questa volta di Hölderlin, arriva di nuovo un segnale da parte di lei che si firma «come sempre (wie immer) Hannah». E da allora, dagli anni autunnali fino all’inverno della morte di lei – Heidegger le sopravvivrà per sei mesi, attendendo la fine tranquillo, sereno, rilassato – sarà «come sempre» per entrambi.

L'egemonia culturale della sinistra


 Paolo Di StefanoVentitré anni di Einauditudine, Corriere della Sera, 15 dicembre 2024
Intervista a Luca Baranelli

Che cosa ne pensa della questione, sempre emergente, dell’egemonia culturale di sinistra?

«Non ho mai capito quali siano i criteri per valutare un’astrazione come l’egemonia culturale, né se essa riguardi solo il ceto intellettuale e la classe dirigente. Si allude alla prevalenza di editori di sinistra nel dopoguerra? Alla prima edizione Einaudi delle opere di Gramsci? Alla diffusione di giornali e periodici del Pci? Ai film neorealisti? Al teatro di Bertolt Brecht? Penso che per rispondere sarebbero necessari parametri e dati quantitativi. Può darsi che nei primi anni del dopoguerra, quando il Pci pubblicava 4 edizioni dell’”Unità”, controllava vari quotidiani regionali fiancheggiatori (valga per tutti “Il Nuovo Corriere” di Romano Bilenchi), periodici molto diffusi come “Vie nuove” e “Il Calendario del popolo”, qualcosa di simile a un’egemonia culturale potesse esserci (suppongo però che un settimanale liberale come “Il Mondo” di Mario Pannunzio fosse letto dagli intellettuali più del “Contemporaneo” di Carlo Salinari e Antonello Trombadori)».


La presunta egemonia culturale non bastò alla sinistra per vincere.

«I risultati elettorali del 1948 e del 1953 mostrarono che la presunta egemonia culturale non faceva vincere la sinistra e che era la Dc a esercitare un’egemonia più forte e diffusa. Il 1956, con il XX congresso del Partito comunista sovietico e le rivolte popolari in Polonia e in Ungheria, dette il colpo di grazia. Quanto agli sforzi dell’attuale destra al governo di costruire una propria egemonia culturale, mi sembrano francamente risibili. Oggi gli intellettuali più seguiti, anche se non egemoni, sono i giornalisti della carta stampata e/o della tv che presentano libri senza un attimo di tregua».

sabato 21 dicembre 2024

Postmoderno e verità


Il concetto di postmoderno entra nel dibattito filosofico e culturale a partire dal 1979, anno in cui J.-F. Lyotard pubblica La condition postmoderne. L’età contemporanea vi è descritta come quella in cui la modernità ha raggiunto il suo termine con la delegittimazione dei «grandi racconti» (grands récits), ovvero delle prospettive filosofiche e ideologiche che, a partire dall’Illuminismo, hanno ispirato e condizionato le credenze e i valori della cultura occidentale: il ‘racconto’ del processo di emancipazione degli individui dallo sfruttamento, quello del progresso come indefinito miglioramento delle condizioni di vita, quello della dialettica come legittimazione del sapere in una prospettiva assoluta. Non più legata ai grandi progetti, l’età p. si caratterizzerebbe piuttosto per la pluralità dei discorsi pragmatici che pretendono soltanto una validità strumentale e contingente. In tale prospettiva si situano le riflessioni dello statunitense R. Rorty, che, in una conciliazione di temi della filosofia analitica e del pragmatismo, ha sottolineato il superamento del mito del discorso vero inteso come conformità a una realtà data e ha ridimensionato i progetti fondazionali delle filosofie del passato, contrapponendo a essi un atteggiamento che mira a dare risposte pragmatiche ai problemi dell’uomo.

In Italia, al concetto di p. ha dedicato attenzione G. Vattimo, elaborando la nozione di ‘pensiero debole’ per definire l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, dissoluzione che non porterebbe comunque a una totale negazione del passato, ma piuttosto a un sentimento di pietas nei confronti dei valori e degli ideali della tradizione. (Treccani) 

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D’Agostini, Franca, Introduzione alla verità

Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 359, euro 16,50, ISBN 9788833922188

 Finalmente una delle filosofe italiane più lette crea il ponte di cui c'era bisogno, trattando la verità come un concetto "speciale", ossia fondamentale e trasversale, che va chiarito preliminarmente per non incorrere in abusi e fraintendimenti. Franca D'Agostini ci spiega in che cosa consiste la straordinarietà di questa parola, ne precisa significato e uso e ne discute la legittimità. A scettici e nichilisti raccomanda: rendete duttile la vostra logica, e non avrete più molte ragioni di scetticismo riguardo alla verità. Se infatti scienza, cultura, politica, religione si avvalessero di logiche più duttili e metafisiche più permissive, è probabile che molte difficoltà a discriminare il vero dal falso verrebbero meno. (presentazione editoriale)

Recensione di Antonio Cimino – 10/8/2011
Recensioni filosofiche

A Franca D’Agostini la cultura filosofica italiana degli ultimi quindici anni deve magistrali ricostruzioni storiografiche e sistematiche della filosofia contemporanea. Mi preme ricordare in particolare l’ormai classico Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni (1997), che ha rappresentato un fondamentale contributo al dibattito relativo alla pluricitata e controversa scissione fra filosofia continentale e filosofia analitica e che ha inaugurato una lunga serie di studi e volumi dell’Autrice, dedicati ai più importanti snodi teorici della discussione filosofica contemporanea. 

Mi limito a menzionare, per il nesso diretto con il volume qui in discussione, Logica del nichilismo. Dialettica, differenza, ricorsività (2000) e Disavventure della verità (2002). Nel solco di questo coerente percorso di attenta e profonda analisi rientra anche il volume Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, dato alle stampe dall’Autrice, sempre presso Bollati Boringhieri, nel 2010. 
Ad una considerazione complessiva di queste e delle altre opere, si può senz’altro affermare che il lavoro filosofico di Franca D’Agostini è caratterizzato da un approccio che risalta, per originalità e ampio respiro, rispetto al generale panorama della cultura filosofica accademica in Italia, mediamente segnato da un persistente storiografismo, da un’eccessiva tendenza alla specializzazione e frammentazione nonché da forme più o meno consolidate delle molteplici scolastiche continentali e analitiche. In generale sono tre i pregi che riscontro nei lavori dell’Autrice e che sono largamente visibili anche nel volume qui in esame: uno stile estremamente chiaro e brillante, che sa coniugare precisione delle singole analisi con solide sintesi sui problemi di volta in volta trattati; uno sguardo di insieme che sa abbracciare le diverse tendenze, anche quelle più lontane fra loro, del dibattito contemporaneo; forte consapevolezza teoretica della posta in gioco che le singole problematiche comportano. Il volume Introduzione alla verità rispecchia in modo esemplare ciascuno di questi caratteri della scrittura filosofica dell’Autrice. 
Mi preme sottolineare in particolare la felicissima scelta operata nel calibrare l’impianto di fondo del volume. L’articolazione poggia su un’introduzione generale, che funge da premessa e mette a fuoco con estrema chiarezza il complesso dei temi trattati, e da quattro parti principali, ciascuna delle quali è conclusa con una ricapitolazione che ripercorre in modo sintetico, ma pregnante, i punti analizzati. In questo modo il lettore, anche quello meno esperto, può orientarsi con facilità nella fitta trama delle numerose problematiche relative alla verità elaborate dalla tradizione. Tale perspicuità dell’articolazione e la notevole lucidità dello stile, che alterna momenti di intelligente presentazione dei problemi e delle teorie a parti più teoretiche e analitiche, fanno sì che il volume si presenti anche come utilissimo strumento didattico, da consigliare sia a studenti interessati al tema sia a un lettore medio colto. Tuttavia, nonostante l’Autrice concepisca il suo contributo come «un chiarimento preliminare e generale sul concetto di verità» (p. 9), non si può affatto dire che la portata del volume si esaurisca in un mero intento divulgativo o illustrativo. In effetti la magistrale chiarezza con cui si sviscerano i singoli problemi va di pari passo con un’attenta discussione dei punti più ardui del dibattito contemporaneo sulla verità, innanzi tutto sulle diverse sfaccettature che caratterizzano questa nozione capitale e alle quali sono dedicate le singole parti.
Lo scopo della prima parte del volume è fornire una presentazione generale dei molteplici significati della nozione di verità. L’Autrice offre un’intelligente mappatura e ricostruzione delle diverse teorie che sono state proposte, a cominciare in particolare da quelle tradizionalmente più diffuse e note, vale a dire: il corrispondentismo, il coerentismo e il pragmatismo. La snella ricostruzione delle teorie si accompagna ad una puntuale analisi dei punti controversi che ciascuna di esse comporta, ma altrettanta attenzione è dedicata alle cosiddette teorie non robuste, con particolare spazio concesso allo schema di Tarski, al deflazionismo e alle teorie concernenti i fattori di verità (truthmakers). Da sottolineare con forza è che la prima parte si conclude con una sezione più teoricamente impegnata, che si concentra sulla teoria della verità privilegiata dall’Autrice, detta «realismo aletico», la quale nella sostanza consiste in una lettura realistica dello schema di Tarski. Nello spiegare il primato del realismo aletico l’Autrice adduce buone ragioni a favore di tale teoria, evidenziandone in particolare la funzione esplicativa e quella metateorica. Infatti, il realismo aletico è congruente, in modo più immediato e semplice (cfr. p. 113), con l’uso filosofico e prefilosofico del predicato «vero», e inoltre «ogni altra teoria della verità per essere accettata deve essere giudicata “vera” proprio in questo senso realistico» (p. 113). 
La seconda parte prende in considerazione la logica della nozione di verità, vale a dire come questa entra in gioco nella sfera del linguaggio e del pensiero. Oltre all’irrinunciabile presentazione delle leggi classiche della verità, l’Autrice dà ampio spazio anche alle logiche non classiche, fornendo una sintetica ma efficace ricostruzione delle logiche paracomplete, delle logiche paraconsistenti, della logica fuzzy e della logica della probabilità. Grazie alla chiara esposizione dell’Autrice anche il lettore meno esperto può farsi un’idea sufficientemente precisa di come la nozione di verità sfugga a rappresentazioni dicotomiche e rigide e richieda strumenti logici notevolmente diversificati.
La terza parte si rivolge a quella che l’Autrice chiama epistemologia della nozione di verità, riferendosi con ciò alla sua portata più strettamente gnoseologica. In questa parte trova spazio non solo l’analisi dei problemi più classici propri della teoria della conoscenza, ma soprattutto un confronto molto intelligente e mirato, mai segnato da posizioni preconcette, con le diverse forme di scetticismo, nichilismo e relativismo che hanno dominato buona parte dello scenario filosofico del secolo scorso e che continuano ad affiorare ogni volta che si affrontano problemi fondazionali. In questo complesso di problemi e autori, piuttosto complicato ed eterogeneo, l’Autrice si muove con solidità di argomenti e profonda conoscenza delle fonti, mettendo in luce i limiti intrinseci di molte impostazioni antimetafisiche. Vale la pena sottolineare come l’analisi sviluppata dall’Autrice non si limiti a prendere in considerazione la valenza strettamente tecnica delle spinose questioni sollevate da scetticismo, nichilismo e relativismo, ma ne sappia toccare anche gli aspetti più generalmente culturali (cfr. ad esempio pp. 207 ss.).
Il volume si conclude con la quarta parte dedicata alla pratica della verità, vale a dire al modo in cui il concetto di verità viene usato e/o distorto nel contesto della sfera pubblica e in ambiti non filosofici. È una prospettiva molto interessante, soprattutto per quanti, non specialisti di cose filosofiche, vogliano orientarsi sui concreti riflessi quotidiani e politici dei problemi concernenti il vero. È un modo pregevole di concludere questo eccellente volume, che in una certa misura documenta anche il vivace impegno più generalmente intellettuale e culturale dell’Autrice, il quale di recente, come ho già segnalato, ha dato ottimi frutti in particolare con il libro Verità avvelenata, che rappresenta l’esito più direttamente connesso con la parte finale del libro qui recensito.


Indice

Introduzione
Parte prima: Il significato di «vero»
Parte seconda: La logica di «vero»
Parte terza: L’epistemologia di «vero»
Parte quarta: L’uso di «vero»
Conclusioni
Riferimenti bibliografici

Il fascino di Lucrezio


 Enzo BianchiPrega, leggi e lavora: la mia chiesa in pienezza da Lucrezio a Capossela
La Stampa Tuttolibri, 21 dicembre 2024

Comunque io ho letto molto e continuo a leggere. Devo dire che ci sono opere che frequento assiduamente: il De rerum natura di Lucrezio, ad esempio, che è sempre sul mio comodino e resta l'amico notturno che mi parla quando il sonno è impossibile lasciando spazio a ore di intensa vigilanza e lucidità. È il libro che mi permette di sentirmi un nulla nell'universo ma uno che comunque ne fa parte potendo credere che qualcuno mi ama e mi guarda. E nello stesso tempo mi riconduce sempre alla fragilità umana che non impedisce di andare oltre flammantia moenia mundi.

libro I 73-74

E dunque trionfò la vivida forza del suo animo
e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti dell'universo. 
Luca Canali

Le mura dell'universo tornano altre volte nel poema.

II, 1044-1049

L'animo infatti richiede di conoscere a pieno,
essendo infinito lo spazio oltre i muri del mondo,
cosa esista lassù, dove intenda scrutare la mente,
dove il libero balzo dell'animo voli spontaneo.
Id.
 

V, 452-454

e quanto più si congregavano intrecciandosi fra loro, tanto più liberavano
i germi che dovevano costituire il mare, gli astri,
il sole, la luna e le mura del vasto mondo. 
Id.

belfagor: Carlo Rovelli, la bellezza e il mistero del mondo (machiave.blogspot.com)
belfagor: Lucrezio, inno a Venere (machiave.blogspot.com)
belfagor: Ifianassa (machiave.blogspot.com)
belfagor: Lucrezio, La teoria degli atomi (machiave.blogspot.com)
belfagor: Lucrezio, De rerum natura (machiave.blogspot.com)
belfagor: Luca Canali, un ricordo (machiave.blogspot.com)


 

Ucraina, il bilancio catastrofico della guerra




Bill Emmott, L'atto finale di eroismo di Zelensky, un passo indietro per arrivare alla pace
La Stampa, 21 dicembre 2024


 Henry Kissinger, lo statista americano morto quasi esattamente un anno fa, riguardo alla guerra tra Iran e Iraq degli Anni 80 disse che avrebbe voluto che entrambe le parti perdessero.


Mentre il 2024 volge al termine e tutti si preparano al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca il 20 gennaio, la frase di Kissinger sembra straordinariamente adatta alla guerra russa in Ucraina: entrambe le parti stanno perdendo.
Gli ultimi 12 mesi di un conflitto terribile e logorante hanno lasciato entrambe le parti esauste e nessuna ha guadagnato un vantaggio significativo. Le forze della Russia hanno conquistato alcuni territori nell'Est dell'Ucraina: secondo l'Institute for the Study of War, all'inizio di dicembre le forze russe avevano occupato 2.700 chilometri quadrati di territorio ucraino in un anno, un notevole aumento rispetto ai 465 chilometri quadrati conquistati nel 2023, ma che rappresentano solo lo 0,4% della superficie totale dell'Ucraina.
La Russia ha preso meno dello 0,5% dell'Ucraina a un costo stimato di 350.000 vittime. Il Ministero della Difesa britannico ha dichiarato che a novembre la Russia stava perdendo 1.500 soldati ogni giorno, un tasso di perdite molto peggiore rispetto a quella subita nel 2022 o nel 2023. I commentatori dei media hanno frequentemente previsto che, sotto questa pressione, le difese stessero per crollare, ma finora non è successo.
Nel frattempo, l'Ucraina ha lanciato la propria invasione della Russia in agosto, quando le sue truppe hanno attraversato il confine nella regione di Kursk, conquistando circa 1.400 chilometri quadrati di territorio. Questo ha costretto la Russia a inviare circa 50.000 soldati, tra cui 12.000 mercenari nordcoreani, nel tentativo di scacciare gli ucraini, ma finora non ci sono riusciti. Tuttavia, l'area occupata dall'Ucraina si è ridotta a circa 800 chilometri quadrati.
Allo stesso tempo, le due parti hanno continuato ad attaccarsi in profondità nei rispettivi territori. La Russia ha continuato a concentrare i suoi attacchi missilistici sulla rete elettrica dell'Ucraina e sulle sue città, mentre l'Ucraina si è concentrata sugli attacchi a depositi di armi, raffinerie di petrolio e alla leadership delle forze russe. Nelle ultime settimane, le spie ucraine sono riuscite a penetrare a Mosca per uccidere un importante progettista di missili e, questa settimana, nel colpo più significativo, il generale senior a capo delle forze chimiche, biologiche e radiologiche della Russia.
Né la Russia né l'Ucraina hanno il sopravvento. Entrambe sanno che i primi mesi del prossimo anno potrebbero portare cambiamenti politici che potrebbero essere a loro vantaggio: il presidente Putin potrebbe guardare con favore al ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, poiché ciò rende improbabile che il Congresso americano autorizzi ulteriori consegne di armi all'Ucraina e probabile che gli Stati Uniti ritirino l'autorizzazione all'uso delle armi fornite dagli Stati Uniti per attacchi a lunga gittata all'interno della Russia. Il presidente Zelensky potrebbe guardare con favore alle elezioni generali in Germania del 23 febbraio, poiché i sondaggi suggeriscono che il solidale Friedrich Merz dei Cristiani Democratici sostituirà Olaf Scholz come cancelliere.
Recenti cambiamenti politici tra i suoi stessi alleati hanno indebolito il presidente Putin: il crollo del regime di Bashar al-Assad in Siria è stato causato dall'incapacità dei suoi principali sostenitori, Iran e Russia, di intervenire militarmente. L'Iran ha avuto un anno terribile, poiché i gruppi militanti che arma e finanzia sono stati sconfitti, uno dopo l'altro, da Israele: Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e le forze iraniane in Siria. Le forze russe sono così portate al limite dalla guerra in Ucraina che Putin non ha potuto permettersi di inviare aerei o soldati in Siria.
Se entrambe le parti stanno perdendo, entrambe stanno ora avanzando condizioni per i colloqui di pace che sanno essere irrealistiche. Nella sua conferenza stampa annuale del 19 dicembre, Putin ha affermato di essere disposto a compromettersi, ma ha insistito sul fatto che il punto di partenza per i colloqui deve essere lo smantellamento delle forze militari ucraine e l'accettazione totale delle rivendicazioni territoriali della Russia. In un incontro con i leader della Ue e della Nato a Bruxelles lo stesso giorno, Zelensky ha insistito sul fatto che un accordo di pace sarebbe possibile solo con una garanzia di sicurezza da parte di tutta la Nato, Stati Uniti inclusi, e con eventuale adesione dell'Ucraina all'Alleanza atlantica.
I negoziati iniziano sempre con richieste esagerate e irrealistiche. Se si terranno veri colloqui il prossimo anno, la situazione più probabile sarà quella di una situazione paradossale: la posizione negoziale dell'Ucraina sarà più forte di quella della Russia, ma il presidente Zelensky potrebbe dover fare personalmente un passo indietro per consentire all'Ucraina di ottenere il miglior risultato possibile.
Il motivo per cui la posizione dell'Ucraina sembra più forte è che Trump entrerà in carica vedendo una Russia indebolita dalla Siria, che non ha più un forte alleato in Iran, e che sembrerà un bersaglio facile per un negoziatore autoproclamato come lui. Se tra ora e la fine di gennaio le agenzie di intelligence e le forze militari ucraine riusciranno a portare a termine altre sorprese come gli assassinii a Mosca, la Russia apparirà ancora più debole. Trump saprà che può usare l'autorizzazione per gli attacchi a lunga gittata dell'Ucraina come strumento di negoziazione contro Putin.
Tuttavia, permettere all'Ucraina di aderire, o anche solo aspirare ad aderire, alla Nato, sarà un passo troppo lungo per Trump, poiché va contro il suo lungo desiderio di ridurre gli obblighi degli Stati Uniti di difendere l'Europa. Non si opporrà all'offerta di garanzie di sicurezza da parte dei membri europei della Nato all'Ucraina, ma se la Germania, la Francia, il Regno Unito, l'Italia o la Polonia si sentiranno in grado di permettersi tali garanzie, resta in dubbio.
Il presidente Zelensky ha svolto un ruolo eroico nella lotta dell'Ucraina per la sopravvivenza. Rimane molto popolare, ma poiché il Paese è in stato di legge marziale dall'invasione del 2022, le elezioni presidenziali previste per aprile 2024 sono state sospese. Questo consente a Putin di affermare che nessun accordo di pace potrebbe essere firmato con Zelensky, poiché la sua posizione non è legittima. Il che apre una possibilità per un atto finale di eroismo: per concludere un accordo di pace, Zelensky potrebbe scegliere di annunciare il suo ritiro, permettendo all'Ucraina di dimostrare quanto sia davvero una democrazia resiliente. Nessuno può dubitare che Zelensky e la sua famiglia meritino una vacanza e di ritirarsi con onore. 
https://www.settimananews.it/informazione-internazionale/sta-perdendo-la-guerra-ucraina/


venerdì 20 dicembre 2024

Maria nella storia dell'arte

 

Simone Martini



Lorenzo Lotto
 


Raffaello


Fabio CanessaIl viaggio di Vittorio Sgarbi tra le Natività che hanno fatto la storia
Il Foglio, 20 dicembre 2024

La storia dell’arte raccontata attraverso l’icona più popolare e rappresentata, quella della Madonna con il Bambino.
Vittorio Sgarbi ci guida attraverso il tempo seguendo le immagini della Natività dal Duecento a oggi, nella varietà degli stili dei grandi maestri. Natività Madre e Figlio nell’arte (La nave di Teseo, 372 pp., 24 euro) è un libro strenna dal profumo natalizio, riccamente illustrato, per mettere a fuoco il pensiero che guida la mano degli artisti. Si comincia con la Maestà medievale di Duccio di Buoninsegna, che intende solo consacrare la divina maternità nella forma perfetta, senza pathos né emozioni, si prosegue con Giotto, che per primo scioglie la rigidità iconografica bizantina inserendo nella realtà una Madre e un Bambino di fisica concretezza, e si finisce nella stalla ottocentesca dove Giovanni Segantini affianca la mamma con il suo piccolo a una vacca con il vitellino, in una “parificazione al limite del sacrilegio”. Nel mezzo una carrellata di capolavori: dall’annunciazione di Simone Martini, “una danza, un tango impresso nella nostra memoria come un motivo musicale”, a quella di Antonello da Messina, dove l’angelo non si vede perché, concezione modernissima, è nell’interiorità di Maria, dalla Madonna del Parto di Piero della Francesca, narrata con le parole di Alain Delon nel film di Valerio Zurlini “La prima notte di quiete”, al paradosso della Pietà di Michelangelo, dove la madre è più giovane del figlio (a confermare il verso di Dante “Vergine madre figlia del tuo figlio”), dall’ordinata classicità di Giovanni Bellini al surrealismo onirico di Marco Zoppo. Le lezioni si snocciolano veloci e brillanti tra confronti e parallelismi anche musicali e letterari: Simone Martini guarda a Giotto come Klimt a Picasso, se Giotto è Bach, Agnolo Gaddi è Haydn e Lorenzo Monaco è Mozart, Correggio è come Ariosto, la Natività secentesca di Carlo Maratta anticipa i versi novecenteschi di Rilke. Si tracciano i confini tra un’epoca e l’altra, rendendo omaggio sia agli innovatori che hanno rivoluzionato il linguaggio dell’arte sia agli ultimi resistenti rimasti fedeli alla tradizione, nello struggimento che il loro mondo finisse. Un occhio attento va alla natura nella quale sono immersi i personaggi sacri: realistica o ideale, sfondo panoramico o paesaggio dell’anima. Ma si dà importanza anche all’influenza del contesto culturale: Moretto, per la Pala di Orzinuovi, deve adattarsi al linguaggio di Mantegna, già superato a Venezia e Firenze, ma ancora dominante in quel villaggio lombardo, mentre la nobiltà elegante dell’annunciazione di Tintoretto documenta il “gusto dell’aristocrazia veneta del Cinquecento maturo”. E’ grazie a Raffaello se tra la Vergine e il Bambino, che mette una mano nel seno della madre, si “stabilisce un rapporto di tale intimità domestica da far scendere la Madonna dal cielo alla terra, da Madonna con il Bambino a semplice madre con il figlio”. Con sempre maggiore naturalezza, la relazione sacra si umanizza e, mentre nella pittura antica Dio si faceva uomo, quella moderna rende divino l’uomo. Così Michelangelo “sembra che non scolpisca corpi ma anime, non Gesù e Maria ma ognuno di noi di fronte al mistero della morte e dell’essere madri e figli”: e se il Tondo Doni è una “scultura dipinta”, la scultura terminale della Pietà Rondanini intende “rappresentare quello che non è rappresentabile: lo spirito, non la carne”, per dimostrare che l’arte vince la morte. Si passano in rassegna le varie Madonne: quella di Paolo Veneziano è caratterizzata dalla “compostezza e l’indifferenza sentimentale”, perché l’artista trecentesco “non dipinge l’uomo e non dipinge per l’uomo: dipinge per la maggior gloria di Dio”; tutto il contrario della Madonna cinquecentesca dell’originalissima Annunciazione di Lorenzo Lotto, spaventata da un “angelo prepotente ed esuberante che le piomba in casa” con un atteggiamento da supereroe della Marvel, facendo scappare anche il gatto. La Madonna di Antonio da Negroponte “vuole stupire”, seduta sul “trono più sontuoso e assurdo che si possa immaginare”. Quella di Correggio è “espressione del cuore, non della ragione”, al contrario di quella del Perugino. Varie anche le tipologie del Bambino: quello iperattivo di Jacopo da Bassano si diverte a giocare con il velo della Madre, quello di Carlo Crivelli presagisce il doloroso destino della Passione, quello di Rubens risplende di luce caravaggesca. Arrivando ai nostri tempi, il soggetto della Natività diventa difficile da trovare, “tanto è rarefatto e quasi inesistente nella pittura del Novecento, come se gli artisti si vergognassero di affrontarlo”: fanno eccezione le splendide opere di Piero Gaudenzi e Domenico Maria Durante che concludono il volume. Il quale può essere letto non seguendo l’ordine dei capitoli: se volete iniziare dal più bello, vi segnaliamo quello su Moretto da Brescia “La devota invadenza dell’uomo comune”, titolo riferito alla presenza stonata del committente, brutto e vecchio, inginocchiato tra la Madonna col Bambino e i santi.

belfagor: Il ventre di Maria (machiave.blogspot.com)




Putiniani d'Italia. La svolta immaginaria di Zelensky




Marco Imarisio, Putin: "Sono pronto ai negoziati, ma prima a Kiev si voti"
Corriere della Sera, 
20 dicembre 2024

Nel rimpianto per il recente passato, sentimento al quale sempre più spesso indulge, il presidente russo si dedica al nostro Paese. «Se devo immaginare con chi mi piacerebbe bere un tè, faccio i nomi di Helmut Kohl, Jacques Chirac e Silvio Berlusconi, un uomo caloroso nella comunicazione e operoso, con una forte presa sulle persone. Sentiamo che nella società italiana c’è una certa simpatia per la Russia, che noi ricambiamo». 

Il giorno prima in Italia "Il Fatto Quotidiano" metteva in copertina una foto di Zelensky con soprascritto il titolo: La resa. Il presidente: "Donbass e Crimea addio". Abbiamo perso la guerra. L'articolo al quale il titolo si riferiva non diceva esattamente questo. Qui di seguito il passaggio cruciale. 

Salvatore Cannavale, Ora Zelensky ammette la sconfitta. Trattiamo

... in una intervista al quotidiano francese Le Parisien, il presidente ucraino ha ammesso che al momento l’ucraina “non ha le forze per riconquistare la Crimea e le parti del Donbass occupate”, anche se non vuole rinunciare ai propri territori, nemmeno “temporaneamente”: “Legalmente non possiamo cedere i nostri territori, lo proibisce la Costituzione dell’ucraina”. Una ammissione di debolezza e l’apertura probabile a colloquio negoziali: “Se noi non abbiamo oggi la forza di riprendere tutti i nostri territori, allora l’occidente può trovare la forza di far sedere Putin al tavolo e affrontare questa guerra per via diplomatica - ha continuato Zelensky, confermando la volontà di affidarsi al supporto occidentale.

Ammette la sconfitta? Stando al testo dell'articolo, non si direbbe, non sembrerebbe. Ecco ora una lettura più attenta dello stesso messaggio.

Davide Maria De LucaLa "resa" di Zelensky sul Donbass: "Non abbiamo le forze per riprenderlo"
Domani, 18 dicembre 2024

«Non abbiamo le forze per riconquistare la Crimea e il Donbass». Così il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha parlato al quotidiano francese Le Parisien. Zelensky ha precisato che questo non significa rinunciare definitivamente ai territori occupati dalla Russia, che sarebbe legalmente impossibile senza modificare la costituzione del paese. Piuttosto, vuol dire che il 20 per cento di suolo nazionale sottratto a Kiev andrà liberato con gli strumenti della «diplomazia internazionale», invece che con le armi ucraine.

Non è stata la prima volta in cui gli ucraini sentono il loro presidente aprire alla possibile “cessione temporanea” del territorio nazionale. Alla fine dell'agosto 2023, quando era divenuto ormai conclamato il fallimento della controffensiva ucraina che, secondo alcuni, avrebbe dovuto portare le truppe di Kiev alle porte della Crimea, Zelensky aveva per la prima volta parlato di una soluzione diplomatica per la Crimea.Poi, lo scorso 24 febbraio, in occasione del secondo anniversario dell’invasione su larga scala, Zelensky aveva detto per la prima volta che l'obiettivo del conflitto era una pace giusta, abbandonando la formulazione del «ritorno ai confini del 1991», cioè la liberazione di tutto il territorio nazionale. Il presidente ha mantenuto ferma l'intenzione di non cedere definitivamente i territori occupati formalmente, ma in modo sempre più chiaro ha detto ai suoi compatrioti che non ci si doveva attendere la loro riconquista militare nel breve periodo.

La vittoria di Trump e con essa la probabile necessità di negoziare un compromesso "al ribasso" è arrivata così su un terreno "preparato". Quasi nessuno in Ucraina si è stupito per le parole di Zelensky, ma che queste mutate aspettative siano automaticamente destinate a produrre un accordo di pace nel prossimo futuro rimane tutto da vedere.

La vergogna ha cambiato campo


"La vergogna ha cambiato campo": nel giorno delle sentenze nel maxiprocesso sugli stupri di Mazan al Palazzo di Giustizia di Avignone, la Francia ed il mondo rendono omaggio a Gisèle Pelicot, 72 anni, divenuta icona planetaria della lotta alle violenze sessuali.

Tra le prime a reagire all'annuncio della condanna a venti anni di reclusione per l'ex marito, Dominique Pelicot e degli altri 50 imputati in un processo considerato "storico" è stata la presidente dell'Assemblée Nationale, Yael Braun-Pivet: "Grazie per il suo coraggio Gisèle Pelicot. Attraverso di lei, si esprime oggi la voce di tante vittime, la vergogna ha cambiato campo, si infrangono i tabù. Da ora grazie a lei il mondo non è più lo stesso", ha scritto su X la presidente della Camera dei Deputati francese.

Ma gli omaggi superano ampiamente le frontiere nazionali della République: "La vergogna deve cambiare campo. Grazie, Gisèle Pelicot!", ha sottolineato il cancelliere tedesco Olaf Scholz, lodando anche lui su X il "coraggio" della Pelicot per essere "uscita dall'anonimato" e "aver lottato per la giustizia". Gisèle ha dato "alle donne una voce forte in tutto il mondo. La vergogna è sempre dell'autore del reato", ha puntualizzato Scholz.

Irene Soave, Il trauma di tutti che ridefinisce cos'è lo stupro, Corriere della Sera, 20 dicembre 2024

 Secondo un sondaggio Ifop, l’85% dei francesi pensa che il processo di Mazan dovrebbe avviare una riflessione collettiva su cos’è uno stupro. Non solo cioè lo sconosciuto, magari straniero, che ti ghermisce nel parcheggio; ma anche gli abusi del marito, del capo, del tipo che in discoteca ti scioglie una droga nel cocktail. Questo dibattito riguarda anche il codice penale. A marzo una bozza di direttiva presentata dalla Commissione Europea non trovò l’accordo di tutti gli Stati perché definiva lo stupro semplicemente come «sesso non consensuale». Dopo mesi di negoziati, vari Paesi la rifiutarono, e tra questi la Francia. Nella legge francese, l’assenza di consenso non basta: non vale il principio che è già legge in Svezia e Spagna, e cioè che «solo sì è sì». Se una persona non manifesta attivamente consenso a un atto sessuale, questo atto è illegale. Prima della crisi politica, il ministro di Giustizia Didier Migaud si era detto favorevole a rivedere la legge, e a marzo aveva rilasciato dichiarazioni in questo senso anche Macron. La volontà di cambiare nasce anche da traumi come quello di Mazan.

Annalena Benini, La sentenza Pelicot svela non l'eccezionalità del male, ma l'umanità del male
Il Foglio, 20 dicembre 2024

Gisèle Pelicot è infatti la vittima eclatante, assoluta: è stata sottomessa chimicamente per dieci anni, stuprata da decine e decine di sconosciuti a sua insaputa, è stata filmata, niente di più inoppugnabile, dentro la normalità di una vita come tante, in una piccola città, in una casa tranquilla, con i nipotini che crescono un Natale dopo l’altro. Non tutte hanno la luce accecante di Gisèle, perché ogni vittima è diversa. Ma per tutte la lotta è la stessa, e questo processo passerà alla storia per aver cambiato il lato della vergogna.

mercoledì 18 dicembre 2024

Il dolore, la parola, la tragedia




David Olère, Il cibo dei morti per i vivi. Autoritratto


 Si dice spesso che la qualità della scrittura di Faulkner sia diminuita in seguito al premio Nobel. Ma le sezioni centrali di Requiem per una suora (1951) sono impegnativamente impostate in forma drammatica, e A Fable (1954), un romanzo lungo, denso e complesso sulla prima guerra mondiale, richiede attenzione come il lavoro in cui Faulkner ha fatto di gran lunga il suo più grande investimento di tempo, impegno e impegno di autore. (Encyclopaedia Britannica) 


Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, 1960

Forse posso spiegarlo meglio con un esempio meno doloroso. Dopo la prima guerra mondiale abbiamo sperimentato la "padronanza del passato" in una quantità di descrizioni della guerra che variavano enormemente in natura e qualità; naturalmente, questo è accaduto non solo in Germania, ma in tutti i paesi colpiti. Ciononostante, quasi trenta anni dovettero passare prima che apparisse un'opera d'arte che mostrasse in modo così trasparente la verità segreta degli avvenimenti. Solo allora fu possibile dire: sì, è andata così. E in questo romanzo, A Fable di William Faulkner, molto poco è descritto, ancor meno spiegato, nulla è padroneggiato; finisce con le lacrime, che il lettore versa, e ciò che rimane è l'effetto o piacere tragico, l'emozione dirompente che mette in grado di accettare il fatto che qualcosa  come
quell
a guerra sia potuta accadere. Nomino volutamente la tragedia perché, più di altre forme letterarie rappresenta un processo di riconoscimento. L'eroe tragico perviene al sapere,  rivivendo ciò che è stato fatto in termini di sofferenza, e in questo pathos, nel rivivere il passato, la rete degli atti individuali si trasforma in un evento, in un insieme significativo. L'apice  drammatico, il climax, della tragedia si verifica quando l'attore si trasforma in un sofferente; qui sta la peripezia tragica, il dispiegarsi del suo finale. [...] Non possiamo padroneggiare il passato allo stesso modo in cui non possiamo disfarlo. Dobbiamo riconciliarci con esso. La forma di questa riconciliazione è il lamento che sgorga da ogni reminiscenza. Come ha detto Goethe (nella dedica al Faust):
Si rinnova il dolore, ripete il lamento
il folle corso labirintico della vita.



https://www.finestresullarte.info/en/works-and-artists/david-olere-the-deported-artist-who-painted-the-horror-of-auschwitz



Rik Van Looy, l'imperatore di Herentals


 



Alexandre PedroÈ morto il belga Rik Van Looy, monarca assoluto delle corse ciclistiche
Le Monde. 19 dicembre 2024


Nel regno del Belgio era "l'imperatore di Herentals", cittadina fiamminga della provincia di Anversa dove visse e dove da vivo gli era stata dedicatata una statua. Rik Van Looy è morto mercoledì 18 dicembre, all'età di 90 anni, secondo diversi media belgi. Tra il 1953 e il 1968, questo riconosciuto principe delle corse di un giorno ha costruito un record unico nel ciclismo: 482 successi, dove la qualità si mescola alla quantità. Due volte campione del mondo (1960 e 1961), Van Looy è il primo a vincere le cinque grandi classiche: Milano-Sanremo, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix, Liegi-Bastogne-Liegi e Giro di Lombardia.

Negli anni '70 il belga venne imitato da due connazionali: Roger De Vlaeminck e soprattutto Eddy Merckx. Quando quest'ultimo entrò in punta di piedi nella sua squadra Solo-Superia nel 1965, Van Looy il fiammingo si fece beffe del bellimbusto brussellese, soprannominandolo "Jack Palance" per una lontana somiglianza con l'attore americano abituato ai ruoli da cattivo nei western. La convivenza dura una stagione. Merckx andò a costruire un altro impero altrove, molto più grande (raccolse nella borsa cinque Tour de France), e attaccò frontalmente la “guardia rossa” del fratello maggiore.

“Ho sconfitto 134 morti”

Velocista eccezionale e campione meticoloso, Van Looy è stato soprattutto un capobranco. Le sue squadre cambiano nome (Faema, Flandria, Solo-Superia), ma il rosso resta il colore della maglia e la dedizione dei compagni è totale. Chi osava intralciare l'“Imperatore” veniva respinto, intimidito e rinsavito dai suoi seguaci, per permettergli di dimostrare la sua velocità all'arrivo. "Anche [Jacques] Anquetil aveva paura di noi ", confidò a L'Equipe nel 2021 Ward Sels, uno dei luogotenenti di Van Looy .

E guardatevi da chi inganna il monarca. Nel 1963, Benoni Beheyt fece la parte di Bruto e privò Rik Van Looy del terzo titolo di campione del mondo a Ronse, nelle Fiandre orientali. Prima della gara, il secondo aveva promesso al primo 50.000 franchi belgi per assicurarsi i suoi servizi. Tra compagni di squadra per una giornata in Nazionale, la cautela non è mai troppa. Ma Beheyt non mantiene la parola data e supera Van Looy sulla linea di arrivo. La vendetta del re si mangerà calda e fredda: la “guardia rossa” non lascerà più un centimetro di libertà al “traditore” che rimetterà via la sua bicicletta a soli 26 anni, deluso e rassegnato.

Rik Van Looy non si è perso nei commenti. Ma quando arrivò la Parigi-Roubaix nel 1965, il fiammingo aveva dei conti in sospeso. Si è detto del declino. Infastidito, il velocista ha vinto per la terza volta l'“Inferno del Nord” e lo ha fatto con stile. Attacca da solo a 10 chilometri dall'arrivo prima di lanciarsi, sempre solo, sul velodromo di Roubaix. “Sembrava che non dovessi più essere il grande Van Looy. Ma a 31 anni un uomo può essere un uomo finito? Se lo sono, allora ho sconfitto 134 morti ” , dice.

“L’Imperatore” e “il Cannibale”

Il resto è meno appariscente. Van Looy aggiunse Paris-Tours (1967) e La Flèche wallonne (1968) alla sua collezione di classici, ma Merckx iniziò a sbaragliare la sua “guardia rossa” e lo lasciò con le briciole. “L'Imperatore di Herentals” si risente di questo relativo declassamento. Non è mai stato veramente un uomo di luglio. Al Tour de France ha indossato per un giorno la maglia gialla e ha vinto comunque sette tappe, ma senza avere la stessa pedalata della primavera. La colpa è del suo datore di lavoro italiano, che poco prima gli aveva chiesto di partecipare al Giro.

Imprenditore e proprietario di un'arena equestre, Van Looy conobbe una seconda vita agiata, come le Fiandre divenute prospere e orgogliose di dimostrarlo. Nel 2021 ha perso l'amore della sua vita, “Nini”, una bellezza bionda soprannominata “la Marilyn fiamminga”. A quel tempo, l’ottuagenario sembrava ancora un giovane. Due anni prima aveva rivelato a L'Equipe  il suo segreto dimagrante : “Percorro ancora il Canale Alberto fino ad Anversa. Questa settimana ci siamo andati quattro volte. » Dopo la morte della moglie, ha confidato di aver perso la voglia di pedalare, preferendo ammirare, nella comodità del suo salotto, le imprese di Wout van  Aert, originario di Herentals e attuale stella del team Jumbo-Visma.

Nato il 20 dicembre 1933 a Grobbendonk, a pochi chilometri di distanza, Van Looy rimase fedele a Herentals per tutta la sua vita adulta. Nel corso degli anni Eddy Merckx si era guadagnato il diritto di essere uno dei suoi ospiti. “L'Imperatore” non ce l'aveva più con il “Cannibale” per aver in qualche modo eclissato la sua gloria. Quando si è preso la briga di ripercorrere la sua carriera, ha visto soprattutto la strada percorsa e le gare vinte a centinaia, lui che era arrivato al ciclismo per caso. “A 12 anni non correvo ancora . Consegnavo i giornali in bicicletta per le strade. »

La Vienna di Franco Cardini


 “A Vienna la storia diventa subito leggenda”, scrive Franco Cardini nel suo Willkommen, il benvenuto al lettore che s’accinge a leggere questa particolarissima guida della città che fu capitale dello sterminato Impero asburgico. Fu questo, Vienna, ma fu anche tanto altro. Capitale tra le più chic d’Europa per secoli e confine ultimo della cristianità minacciata dai turchi; simbolo tra i più sfolgoranti della Belle Epoque ed esempio vivo della decadenza tra le due guerre. Vienna, unica e contraddittoria. Vecchissima e moderna. Romana e poi gotica, asburgica e poi proletaria. Inizio di un mondo nuovo e fine di quello vecchio. Tra il verde dei suoi parchi, i giri di valzer di Strauss, le opere di Mozart, i quadri di Klimt. Tra i suoi vini pregiati, le Wiener Schnitzel, la pasticceria ineguagliabile. Affascinante e nostalgica, che ti lascia sempre quel senso di Storia perduta: sia che tu guardi – come il Trotta di Joseph Roth – il sarcofago di Francesco Giuseppe nella Cripta dei cappuccini, che tu accenda una candela vera nella cattedrale di Santo Stefano o che tu ti distenda pensieroso sull’erba del Prater. (Matteo Matzuzzi, Il Foglio, 17 dicembre 2024)

Marino Freschi, La Vienna felix di Cardini, splendida e tragica come Sissi
Il Giornale, 1 dicembre 2024

«Dici Vienna: e un'onda d'immagini, di suoni, di profumi ti assale. Colori, sapori, musica. I leggendari caffè, i grandi teatri, i compositori che l'hanno amata». Con tale incipit da grande scrittore si apre Vienna. A passo leggero nella storia (il Mulino, euro 19), la guida storica, topografica, museale e perfino gastronomica della capitale austriaca di Franco Cardini. Quasi 400 pagine fitte di aneddoti, curiosità e sempre con affascinanti lezioni di storia, come la raffigurazione della spietata distruzione della comunità ebraica del 1420-21 o il racconto della Guerra dei Trent'Anni, e ancora con la narrazione dell'Età di Francesco Giuseppe, e con l'appassionata rievocazione del destino doloroso e tragico di Elisabeth, Sissi, assassinata da Luigi Lucheni, un anarchico italiano, il 10 settembre 1898, pochi anni dopo il misterioso suicidio dell'erede al trono Rodolfo con la giovane amante, la baronessina polacca Maria Vetsera. L'autore partecipa al grande romanzo d'amore e di dolore che legò l'imperatore alla triste principessa bavarese, rievocato nei più sontuosi palazzi viennesi, la Hofburg e Schönbrunn col suo parco dove Sissi amava trascorrere il suo tempo lontano dalla corte.
Sulla scorta delle annotazioni di Claudio Magris in Danubio, nonché di Massimo Cacciari in Dallo Steinhof - ai quali è dedicato il volume - la Vienna di Cardini risorge ancora una volta meravigliosa, barocca e imperiale, capitale della musica e della modernità con la Sezession, con Klimt e Schiele, e con la Scuola Viennese del neopositivismo. L'autore si trasforma in musicologo entusiasta nel capitolo su Mozart, la sua vita, la sua musica, la sua cultura illuministica, illuminata, massonica. Cardini rievoca il mistico culto per un Egitto ideale, esoterico, iniziatico del Flauto magico, e l'improvviso, struggente afflato di «Viva la libertà» di Don Giovanni, ma anche i contadini, le cui voci già si accordano con le rivendicazioni che animarono la Rivoluzione. Presto Vienna dovette fare i conti con Napoleone, che, dopo aver sconvolto l'Italia, sconfisse ripetutamente l'Impero asburgico, giungendo a Vienna, dove elesse a suo elegante quartier generale Schönbrunn. Eppure nelle stesse stanze in cui l'Empereur dettava legge, nel giro di poche stagioni si sarebbe riunito il Congresso che segnò il culmine dell'influenza politica dell'Austria in Europa. Un trionfo che garantì al continente quasi un secolo di relativa stabilità, messa a repentaglio dai moti liberali della borghesia che invocava una partecipazione al potere. L'Impero, inoltre, dovette sperimentare, fino alla sua disintegrazione, il risveglio delle nazioni, quel sentimento patriottico, sovversivo e travolgente, alla radice di sommosse che avrebbero posto fine alla dinastia.
Cardini si conferma maestro di storia nelle illustrazioni di battaglie - come i due assedi da parte dei turchi nel 1529 e nel 1683, terminati con la sconfitta degli ottomani grazie anche ai soccorsi degli eserciti di quel che rimaneva del Sacro Romano Impero. Ma ciò che preme all'autore è la raffigurazione di Vienna al centro di una straordinaria cultura artistica e intellettuale. «In pagine come queste, dedicate alla storia di vicende politiche e quindi per forza di cose di palazzi, di case, di chiese, di musei, di vie, di piazze, di giardini, si parla sempre e soprattutto comunque di uomini». In questo parlare è il senso autentico e profondo della storia come racconto, rivisitazione del passato dalla prospettiva del presente, che redime la tradizione, che per Mahler «non è il rispetto delle ceneri, ma la memoria del fuoco».
Un fuoco che attraversa il racconto di Cardini su Vienna e la sua cultura che oggi rivive, dialetticamente, nelle invettive di Thomas Bernhard, il quale nel suo rapporto di amore e odio con la capitale danubiana ha rinnovato la stagione della ricerca estetica e filosofica da Hofmannsthal a Musil, da Freud a Wittgenstein. La Grande Vienna, quella di Karl Kraus e di Elias Canetti, trova in questo saggio un'importante introduzione.