Francesca Rigotti, Carteggi amorosi / Hannah Arendt e Martin Heidegger: le lettere, Doppiozero, 5 settembre 2020
Arendt non sembra avere preferenze di luogo o di territorio; vive dove riesce a vivere, a pensare, a scrivere. Non si considera una donna tedesca e neanche una donna ebrea: lo scrive a Heideger nel 1950, quando riprende la corrispondenza che si era interrotta nell’inverno del ‘32-33, allorché Arendt era riparata prima in Francia e poi negli Stati Uniti con il secondo amato marito Heinrich Blüchner, che fu tutto, amato, amico, fratello, padre, collega, scrive Safranski; mentre dal primo, Günther Stern, poi Anders, aveva divorziato dopo un breve matrimonio. Io sono soltanto, scrive di sé Arendt, Das Mädchen aus der Fremde, la ragazza straniera, straniera ovunque, che è di casa soltanto nella sua lingua madre – dirà nella celebre intervista – l’unica lingua nella quale poteva recitare le poesie imparate a scuola, tra le quali sicuramente anche i versi di Schiller sulla fanciulla straniera che distribuiva i suoi doni, fiori e frutta, a tutti, ma specialmente alla coppia di innamorati del finale.
Hannah Arendt è sempre la stessa ragazza dai capelli ricci nei quali lui passava «il pettine delle sue dita», le scrive Heidegger nel 1950, e per la quale il professore scrive poesie, una delle quali porta lo stesso titolo della poesia di Schiller, La ragazza straniera. I versi di Heidegger non sono melodiosi come quelli di Schiller, sono ruvidi, criptici, pesanti, senza bellezza. Un’altra delle poesie che Heidegger dedica a Arendt si intitola Die Sterblichen, I mortali. Su questo tema, come su altri, le considerazioni di Arendt e Heidegger erano andate in direzioni opposte: all’«essere per la morte» e alla filosofia della mortalità di Heidegger Arendt infatti rispose con la filosofia della natalità, l’«essere per la vita», «essere per la nascita», la filosofia dell’essere non soltanto mortali ma anche, e soprattutto, nascibili. L’inno filosofico al nascere, che si affaccia alla mente di Arendt mentre ascolta le note dell’Alleluja del Messiah di Händel, fu forse una sorta di compensazione per i figli che Hannah Arendt non ebbe mai, perché «quando poteva non fu possibile e quando fu possibile non poteva», come le fa dire Margarete von Trotta nell’omonimo film (Hannah Arendt, con Barbara Sukowa, Germania, Lussemburgo, Francia 2012).
Ebbe però quell’amore grande, e Heidegger ebbe l’amore di lei, e il loro amore si mischiava con l’amore per il pensiero e il desiderio di comprendere, era un amore che Heidegger espesse nei primi tempi della loro storia con le parole di Agostino, senza sapere che proprio sul concetto di amore in Agostino Arendt avrebbe scritto la tesi di dottorato, non più con lui ma con Jaspers, a Heidelberg e non a Marburg, da cui si era allontana proprio a causa di quell’amore impossibile. «Amo», scrive Heidegger citando per la prima volta il filosofo di Tagaste nella lettera del 13 maggio 1925, significa «volo ut sis». Ti amo, cioè voglio che tu sia ciò che sei, «felice, raggiante e libera come venisti a me», le aveva scritto appena il mese prima, firmandosi non più semplicemente Martin ma «il tuo Martin». Anche Hannah comincerà a firmarsi «la tua Hannah», quella che nel 1929 gli bacia «la fronte e gli occhi».
Poi la lunga interruzione e la ripresa nel 1950, timida, dove le lettere un po’ sostenute di quel periodo, gli anni della gelosia sono stati definiti, vengono firmate semplicemente Martin. Finché negli anni dell’autunno, così chiamati dal titolo di un’altra poesia, Autunno, questa volta di Hölderlin, arriva di nuovo un segnale da parte di lei che si firma «come sempre (wie immer) Hannah». E da allora, dagli anni autunnali fino all’inverno della morte di lei – Heidegger le sopravvivrà per sei mesi, attendendo la fine tranquillo, sereno, rilassato – sarà «come sempre» per entrambi.