venerdì 31 gennaio 2025

La guerra dei cavilli



Non sta agli avversari stabilire che cosa Giorgia Meloni può fare o non fare, dire o non dire. Prima, gli avversari dovrebbero prendere atto di ciò che il premier fa o non fa, dice o non dice. In questo senso, il
monarcato - ossia il premierato in versione monarchica - esiste già. Il o la premier occupa la scena con le sue esternazioni e queste esternazioni colpiscono l'opinione pubblica. Sono inammissibili? Potrebbero perfino essere illegittime, sono piene di affermazioni scorrette, intanto agiscono, manifestano una presenza e una smania contagiosa. Non contengono solo affermazioni false. Quando Giorgia Meloni si identifica con la nazione dà voce non alla verità, ma a una verità, la sua. La nazione è per lei l'interesse nazionale visto con gli occhi di una sovranista quale lei è, nelle intenzioni se non altro. Il torturatore libico protetto e salvato è stato protetto e salvato per preservare l'accordo con il suo paese sul contenimento dei migranti. Il contenimento, ossia una azione esercitata senza riguardo per i mezzi: tortura, riduzione a merce, arbitrio. Questo è.

Anziché ragionare su ciò che Meloni può (potrebbe, perché intanto può) fare o non fare, dire o non dire, sarebbe ora di mettere i piedi nel piatto e di partire da un riconoscimento dei meccanismi reali che animano il gioco, o lo scontro, se si preferisce. Il procuratore Lo Voi non ha solo compiuto un atto dovuto, poteva suggerire l'archiviazione, non lo ha fatto. L'accusa di peculato non è sensata.

Come si risponde alla pressione esercitata dalle ondate migratorie? Questo sarebbe il nodo. I cavilli procedurali, la pericolosità di Almarsri sono paraventi, espedienti retorici che impediscono di affrontare la vera, la sola questione. Siamo sempre stati un paese di legulei persi in dispute vane. L'ipocrisia della destra contrapposta  all'ipocrisia della sinistra contribuisce a generare l'astensionismo attraverso il disgusto per la politica parolaia e inconcludente. E poi ognuno si consola pensando che la colpa è dell'altro, di quell'altro. Se lasciassimo stare il rimpallo delle colpe e cominciassimo, ognuno per la sua parte, a prenderci qualche responsabilità, avremmo fatto qualche serio passo avanti come come paese. 

Andrea Colombo, Meloni replica lo show e alza i toni per evitare che si parli di Elmasry
il manifesto, 31 gennaio 2025

Non è un fatto personale. Non è per se stessa che Giorgia Meloni è furiosa. «Io non sono né preoccupata né demoralizzata. Sapevo a cosa andavo incontro. Ma è alla nazione che è stato fatto un danno e questo mi manda ai matti». La strategia pianificata in un paio di vertici di maggioranza, anticipata dalla premier nel messaggio social di due giorni fa, si dispiega e a guidare le danze è ancora lei. Si presenta in collegamento allo spettacolo di Nicola Porro «La Ripartenza 2025», una platea che chiamarla amica è poco, e riprende i contenuti di quel messaggio. Ma con parecchi decibel in più, passando al comizio furibondo e alla denuncia di alto tradimento. Questo sono il procuratore Francesco Lo Voi, i magistrati «politicizzati» e chiunque «remi contro»: traditori della Patria. Accoltellano alle spalle la nazione.

L’ATTO INVIATO dalla procura di Roma a lei e ai ministri Nordio, Piantedosi e Mantovano «è stato un atto voluto, non dovuto: le procure hanno discrezionalità. A chiunque nei miei panni sarebbero cadute le braccia». Colpa di «alcuni magistrati», ma non tutti per carità, solo «alcuni» che «vogliono decidere tutto, vogliono governare e allora si candidassero». La sfidassero nelle urne perché tanto lei «non molla di un centimetro», non finché «la maggioranza degli italiani è con me».

LA PREMIER SA TENERE un comizio. Sembra trascinata da ira e sdegno, in realtà è fredda. Tra un’accusa rovente e uno strillo assordante quasi nessuno si accorge che dalla narrazione è completamente sparito il “generale” Elmasry. Il fattaccio all’origine di tutta la faccenda semplicemente non c’è più. Si parla di tutto, e se non lo fa la premier ci pensa il vice Antonio Tajani, tranne che di quel di cui si dovrebbe parlare: la fuga pilotata del torturatore. Il chiasso serve a tenere sotto schiaffo la magistratura, in particolare quella che deve decidere sui trasferimenti in Albania. Ma serve soprattutto ad affossare quel che non avrebbe mai dovuto emergere. La complicità italiana con il criminale libico e anche gli immondi accordi italo-libici che spiegano la scelta di mettere subito al riparo Elmasry.

Della scandalosa liberazione almeno l’opposizione parla. Del memorandum italo-libico siglato dal governo Gentiloni-Minniti nel 2017, confermato nel 2020 dal Conte 2, quello giallorosso, ripreso paro paro dal governo di destra, invece no. Solo Riccardo Magi di +Europa chiede una commissione d’inchiesta e lo si può capire: il suo è il solo partito senza responsabilità dirette.

IL GOVERNO COMUNQUE ha tutte le intenzioni di mettere la sordina sul caso Elmasry. L’ipotesi del segreto di Stato è remota ma non inesistente. «Deciderà Meloni», taglia corto Tajani e al momento per palazzo Chigi non se ne parla. Significherebbe ammettere le responsabilità nella loschissima vicenda e anche riconoscere che gli accordi con la Libia grondano sangue. Ma se proprio non se ne potrà fare a meno…

Di certo non si potrà evitare di riferire in parlamento ma anche su questo fronte Tajani è tutto un programma: «Qualcuno verrà a parlare». Chi sarà quel «qualcuno» resta ignoto. Probabilmente non i ministri interessati, con la scusa di essere indagati. Chiunque altro sarebbe melina e reticenza pura. A meno che la premier non decida di fare del parlamento il palco per la prossima intemerata e conoscendola non lo si può escludere.

Ma l’offensiva è a tutto campo, non si risparmia il ricorso alla consueta fanghiglia. Prende di mira la Corte penale internazionale: «Perché ha spiccato il mandato proprio quando Elmasry, in Europa da 12 giorni, è arrivato in Italia? La Corte dovrà chiarire», tuona Tajani e almeno da questo punto di vista proprio tutti i torti non li ha.

POI C’È IL BERSAGLIO numero uno, il procuratore Lo Voi. Tajani lancia una frecciata indiretta, alludendo all’accusa di aver adoperato i voli di Stato indebitamente: «L’accusa di peculato per Meloni e ministri la ritengo infondata. Qualche altra vicenda sta emergendo, semmai». Ma c’è anche l’accusa con tanto di nome e cognome, ed è proprio quella di alto tradimento ai danni della nazione: «Un servitore dello Stato, prima di fare scelte più che azzardate deve pensare se la sua scelta fa o meno l’interesse dell’Italia. La scelta di Lo Voi non lo fa». Il caso Elmasy era già di gravità inaudita. Ma ora, adoperato per contrabbandare di fatto il reato di leso interesse della nazione, diventa anche molto pericoloso.

Jane Birkin




Fulvio Abbate
Chi era Jane Birkin, musa di Hermès e cantante simbolo
l'Unità, 31 gennaio 2025

Jane Birkin, la sua, tutta sua, solo sua, sostanza fotografica; “iconica”, si dirà poi. Eros assoluto, invidiabile, inarrivabile, “politico”, che raggiungeva lo sguardo altrui. I giorni dell’uscita di “Je t’aime.. moi non plus”. In Italia, provincia vaticana, il disco trovò gli occhi e le pecette nere dei censori, a coprire parole, note, e soprattutto a sbarrare l’ansimare di lei, la voce di un orgasmo annunciato. Livia, mia cugina, la ricordo a dirmi: “Il disco no, non l’ho ancora ascoltato, però ho letto il testo”, anche questo ritenuto non meno “scandaloso”, “scabroso”. Eravamo nel cortile di casa, davanti ai garage, cosmodromo della prima adolescenza dei già maturi anni Sessanta, il tempo delle polluzioni notturne, e lei, Jane, la sua voce, suggeriva, anche il fiotto finale.

Il “Ciao” blu appena acquistato, il viso di Che Guevara sui rotocalchi accanto a Celentano di “Azzurro”, i manifesti di “Giovani”, un gran pavese beat fissato sui cornicioni delle edicole, e ancora, su tutto, la sensazione che l’azzurro dell’Esagono, dove Jane Birkin aveva ormai il suo domicilio, il suo dominio pubblico spettacolare, raggiungesse anche noi, laggiù in spiaggia, in Sicilia. Il volto, il suo viso: naturale perfezione somatica, trigonometria della bellezza, ragazza sottile, di più, “esca dalle lunghe gambe”, come recitano altrove i versi del poeta gallese Dylan Thomas, comunque perfetti pure per lei. Jane Birkin fanciulla “folle come gli uccelli”, inarrivabile, dolente. Silente e insieme assordante nella sua evidenza erotica, seno acerbo, da fanciulla fiorita, sotto la camicia bianca da ragazzo.

La moda, sempre allora, brillava di un sentire umanamente rivoluzionario, addirittura, appunto, “militante”, insieme alla sostanza e il mirino dell’iride chiaro, nuovamente un eros assoluto, i trimestri erano ancora tali, i quadrimestri del “riflusso” lontani, da venire, le fibbie dei cinturoni, i coloratissimi orologi di Carnaby Street dai numeri vistosi ai polsi; i giorni dell’estate sembravano infiniti, la vita ricominciava ogni settembre. E Jane Birkin era lì, minigonna o short, al braccio un paniere di vimini mostrato come e meglio di una  “Hermès”, la borsa che infine avrà il suo nome, accanto al suo doppio maschile, Serge… Serge Gainsbourg. Il titolo della loro canzone spalancata ancora su una nudità quieta, naturalmente orgogliosa, nella nostra ufficiale “Hit Parade” veniva pronunciato a malapena dal conduttore Lelio Luttazzi in blazer scuro e cravatta da compito signore borghese; pudore democristiano, si è già detto.

Eppure il mondo apparteneva interamente a Jane. Il glamour doveva ancora trovare la narrazione e le forme ordinarie della “riccanza” così come lo identifichiamo adesso. I manifesti, le serigrafie del maggio Sessantotto, il chepì e il naso di De Gaulle “vilipeso” dagli studenti, dai blouson noir sui muri accanto agli slogan, all’eco della rivolta, il pavé sotto la spiaggia, e proprio su quella spiaggia Lei, Jane Birkin, a levitare immobile, capelli lunghi, frangetta, incanto dello sguardo, ogni cosa scritta spray in corsivo, “Nous sommes tous indésiderables”, siamo tutti indesiderabili, forse il più esemplare. Non Jane, desiderata e desiderabile, di più, manifesto vivente del desiderio, del principio del piacere, pura desiderabilità, monotipo femminile di un nuovo modo e mondo perfino spettacolari, Jane che esisteva come forma perfetta di se stessa: i suoi incisivi, la bocca, lo sguardo toccato, presidio di uno stupore unico, davvero secondario che si trattasse di un’attrice e cantante. In lei si incarnava semmai, longilineo, il mito, senza tuttavia il peso che altrove gravava sulla “collega” Brigitte Bardot. Uno scatto da fotobusta le vede insieme, nude, a letto, il panneggio delle lenzuola, i loro sguardi, la femminilità “liberata”.

Anche la nudità era immediata, naturalezza del Nuovo. Bellezza che si sarebbe definita “apolide”. Irrilevante perfino che Jane B. risultasse londinese, ragazza venuta al mondo il 14 dicembre 1946, irrilevante ancora che fosse la rampolla di David Birkin
comandante della Royal Navy e figlia d’arte di un’attrice a sua volta anche cantante di musical,
 Judy Campbell. Sembrava infatti che la ragazza rispondesse solo a se stessa, al suo assoluto, icona in proprio, ben oltre i suoi giorni da protagonista della “Swinging London”, nel paese che, cancellata ogni memoria delle V2 tedesche spioventi dal cielo sul costruito, degli allarmi aerei, della subway nei giorni di guerra, raffigurati come catacombe a grafite da Henry Moore, e degli elmetti “Tommy” a scodella, trovava infine la luccicanza di un’era giovane, eternamente adolescenziale dapprima optical, poi beat. Diciannovenne, sposerà il compositore John Barry, autore delle musiche dei film di 007, da cui avrà una prima figlia, Kate, tragicamente suicida nel 2013.

L’esordio cinematografico nel 1965 con Richard Lester, il regista dei film dei Beatles protagonisti, poi Blow Up di Antonioni… Ancora la sua nudità, ciò che sempre allora era pronunciato “topless”, e la fama, “grazie al suo corpo androgino e alla sua femminilità sensuale”, hanno scritto con prosa giornalistica ordinaria, “l’aria sbarazzina da tomboy, un maschiaccio”, diranno altri. Nel 1968 sul set di “Sloan” l’incontro con Gainsbourg, il loro sodalizio amoroso, sentimentale, masochistico, trasgressione e invidia sociale. La coppia, i dischi, immaginarli ancora adesso, i visi accostati, in sala d’incisione, ed era la fine del 1968. Su ordine della Procura della Repubblica di Milano, il disco, si è detto, finì sotto sequestro “su tutto il territorio nazionale”. Cinque milioni di copie e la coppia incoronata dalla fama, la pioggia di flash su loro in strada a Parigi. Occorre ancora immaginarli sempre insieme, al 5 bis di rue de Verneuil, 7° arrondissement, la tana.

Nel 1971 arriverà una bambina, Charlotte. Jane Birkin ha recitato fra gli altri anche per Jean-Luc Godard, Patrice Lecomte e Agnès Varda, e per Jacques Doillon, che sposerà dopo la separazione da Gainsbourg, e ancora la vedremo diretta da Bertrand Tavernier, Alain Resnais e Jacques Rivette… Tuttavia il suo curriculum risponde solo al suo volto, all’evidenza di questo. I concerti, poi lei in piazza contro il razzismo del Front National di Jean-Marie Lepen. E, restando all’ambito lavorativo, musicale, Paolo Conte, Manu Chao, Bryan Ferry, Caetano Veloso tra i compagni di strada artistica.

L’impegno in ambito sociale e umanitario come ambasciatrice di Amnesty International in Bosnia e Cecenia, i concerti in Cisgiordania e a Ramallah, l’adesione all’appello contro il riscaldamento globale pubblicato nel 2018 su “Le Monde”. Jane, fissa, imprigionata, ostaggio, come scarabeo, nell’ambra dell’età dell’oro della bellezza, che definire spettacolare è davvero poca cosa, il peso quasi tragico appunto dell’avvenenza, come sempre accade ai miti, Jane e la responsabilità, la colpa di invecchiare, agli occhi di chi l’avrebbe voluta per sempre ostaggio dei sogni notturni della propria generazione. Gli omaggi, il copia incolla del suo viso, le gambe, l’ovale del viso, la malinconia trattenuta, adesso ovunque sui social, come segno della più banale, sentimentale, ovvia incapacità interpretativa davanti alla sostanza della sua complessità, perfino del suo infranto interiore. Addio a ogni cosa bella.

giovedì 30 gennaio 2025

Il potere dell'uno




Se risaliamo il tempo lungo della storia, scopriamo che la democrazia si è più volte tramutata in tirannide. Ciò significa che il governo dei molti è destinato per sua natura a cedere il passo al governo dell’uno? E che tipo di potere è la tirannide? Questi gli interrogativi che hanno alimentato la riflessione politica da Tacito a Machiavelli, da Bodin a Spinoza e che sono tornati oggi di grande attualità.

Negli Annali Tacito racconta che l’imperatore Tiberio fu costretto dalle circostanze, contro il suo volere, a diventare un tiranno per porre fine definitivamente a discordie e guerre civili. Secoli dopo, all’inizio dell’età moderna, sembrò ripetersi una storia simile quando in tutta Europa le repubbliche cedettero il passo al principato. Così, la ricostruzione di Tacito, da poco riscoperto, divenne il modello sul quale i filosofi moderni imbastirono la loro riflessione intorno al tema della tirannide. Savonarola e Machiavelli, Guicciardini e Bodin, Shakespeare e Spinoza ne mostrarono però i limiti. I due poli di questo confronto ideale furono Tacito e Spinoza poiché proposero due concezioni opposte del potere e, di conseguenza, due posizioni antitetiche nei confronti del governo di uno solo: se per Tacito era una necessità ineluttabile, per Spinoza era un male da evitare a tutti i costi. È significativo, però, che unanime fu l’interpretazione della tirannide: un potere opaco, ‘velato’, dai contorni e dalle finalità occulte. Un potere che oggi sembra tornare a stendere la propria ombra sulla nostra società. (presentazione editoriale)

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Nella recensione scritta da Luciano Canfora per il Corriere della Sera l'antitesi tra Tacito e Spinoza rimane in ombra, mentre quello rappresentato dalla tirannide è visto come un problema insolubile. Il filosofo olandese è nominato appena e collegato solo all'idea di libertà.
Nel testo della recensione la democrazia non è mai nominata. Compare una volta sola l'aggettivo "democratica", tra virgolette. Ed ecco il problema senza soluzione: a fronte dell'uno che, pur dotato di efficacia nella conduzione degli affari pubblici, tende ad abusare del suo potere, e spesso ne abusa, si viene a trovare la massa dispersa e confusa di un popolo ondivago, incapace di adottare una politica e di metterla in atto. Già al tempo di Spinoza, tuttavia, non si afferma solo l'idea di libertà, torna in auge la democrazia come regime auspicabile
Canfora poi si riferisce per lo più alla tirannide quando ragiona sul potere dell'uno, ma in una articolazione importante del suo discorso tira fuori invece il dispotismo, che era un po' un'altra cosa. Viene trascurato l'atteggiamento del popolo che non è lo stesso nei due casi: adesione sia pure parziale per la tirannide, rifiuto per il dispotismo.  

Luciano Canfora, Anatomia del tiranno, Corriere della Sera, 30 gennaio 2025

Al tempo nostro, che indulge così spesso alla guerra lessicale contro i «despoti» altrui, giova l’ammonimento di Thomas Hobbes nel De cive: il tiranno è il sovrano come è visto dai suoi nemici. Ben venga dunque un libro di studio su materia così bistrattata nella cronaca corrente. L’ha scritto uno studioso dell’età del Rinascimento, Michele Ciliberto, e sarà presto in libreria.

Quando Concetto Marchesi decise, ormai più che quarantenne, e già professore ordinario di Latino a Messina, di laurearsi in Giurisprudenza onde avere un mestiere di riserva nel caso il fascismo gli avesse tolto la cattedra, scelse come argomento della tesi «Il pensiero politico e giuridico di Tacito». E a Tacito dedicò, poco dopo (1924), un libro importante ancora oggi dopo un secolo dalla sua pubblicazione. Del pensiero politico di Tacito aveva parlato anche a Milano, al Circolo filologico, alla fine del ’23, in una conferenza cui diede molto rilievo il «Corriere della Sera». Il suo tema era «il potere dell’uno», il principato come risoluzione del problema politico.


Bene ha fatto dunque Michele Ciliberto, nell’imminente saggio laterziano Il potere velato. Tirannide, eguaglianza, libertà da Tacito a Spinoza, a porre in relazione Tacito, come letto da Marchesi, con la riflessione di Guicciardini sullo stesso tema. Tema che è al centro di una più che bimillenaria riflessione sul problema insolubile della «migliore forma di governo»: almeno a partire dal dialogo erodoteo a somma zero (III, 80-82), al termine del quale la soluzione monarchica si afferma (e magari appare anche proficua), ma con l’inganno. 


Ciliberto mette a frutto anche Pace e libertà nel mondo antico di Arnaldo Momigliano (lezioni a Cambridge gennaio-marzo 1940) edite in italiano nel 1996. Nello stesso torno di tempo, Momigliano recensiva sul «Journal of Roman Studies» l’importante libro di Ronald Syme The Roman Revolution (1939): un libro che, in prefazione, alludeva all’opportunità di optare per la pax anche a costo di sacrificare la libertas. Il che a Momigliano in fuga dall’Italia razzista non molto piacque. 


Ma a questo punto si impone la questione della qualità del princeps. Marchesi, partendo da Tacito prospettava apertamente la soluzione del «buon» principe (dispotismo illuminato): soluzione aleatoria — egli osservava interpretando Tacito — perché il princeps può essere Nerva ma può anche essere Nerone o Domiziano, o caso molto più complicato — Tiberio. E quanto ad Augusto, lo stesso Tacito dava un giudizio ancipite (Annali I, 9-10). Di Tiberio, Marchesi si ricorderà nel 1956 nel fuoco delle polemiche retroattive sull’opera di Stalin: «Tiberio, grande e infamato imperatore di Roma, ebbe come giudice Cornelio Tacito, a Stalin, meno fortunato, toccò Nikita Krusciov» (intervento all’VIII Congresso del Pci, dicembre 1956).


Ciliberto si spinge oltre Guicciardini, fino a Spinoza e alla sua idea di libertà. Ma la culla, gli incunaboli della discussione dell’insolubile problema erano nell’esperienza greca. In Tucidide che rivaluta il governo di Pisistrato e deride la confusione, tipica della propaganda «democratica», tra oligarchia e tirannide. E soprattutto nel cimento dei due maggiori storici tra V e IV secolo a.c., Tucidide e Teopompo, rispettivamente alle prese con le due figure «demoniche» del potere; Alcibiade e Filippo il Macedone. Ad un certo punto della sua riflessione, Tucidide, che approderà alla fine anche lui alla soluzione del buon princeps (cioè Pericle: II, 65), affronta il caso Alcibiade e constata che gli Ateniesi, togliendo il comando a lui (che pur aveva ricondotto Atene alla vittoria) perché «per la sua vita privata lo ritenevano aspirante alla tirannide», mandarono in rovina la città (VI, 15). Il caso di Teopompo, soggiogato dalla figura inquietante di un facitore di storia quale Filippo il Macedone, è perfetto. Polibio, cui dobbiamo la conoscenza di quella pagina memorabile di Teopompo, non capiva e pensava di cogliere Teopompo in contraddizione: «Sarebbe da biasimare — scriveva — soprattutto Teopompo, il quale — dopo aver detto all’inizio della sua opera che l’Europa non aveva mai generato una personalità della statura di Filippo il Macedone — poi per il resto dell’opera lo descrive come immorale: intemperante, ingiusto, fedifrago etc.» (VIII, 9). Quella di Teopompo era la scelta che fu poi di Ibn Haldun, massimo storico arabo, il quale nell’anno 1400 si recò da Tunisi fino a Damasco «per vedere Tamerlano» da vicino: per vedere da vicino il grande «despota» vincente.


Quasi mezzo secolo fa un grecista italiano di mente moderna, Diego Lanza, scrisse un libro che riguarda il teatro ateniese del grande secolo (Il tiranno e il suo pubblico, Einaudi 1977) ma che è di fatto un libro sul potere, e sulla rappresentazione del potere sulla scena, che ad Atene significava l’intera città: molto prima di Re Lear.

Il problema è ancora lì.

La politica debole




Francesca Schianchi
La politica debole si sente attaccata, nulla è cambiato dopo Berlusconi
La Stampa, 30 gennaio 2025 

«Siamo al solito refrain italiano: ogni volta che un politico viene indagato, salta fuori la denuncia degli straordinari poteri della magistratura». Il professor Massimo Cacciari legge così gli eventi degli ultimi giorni, attraverso la lente di questo «refrain nauseante» che, sottolinea, si ripete in Italia uguale da anni. Come nel video tutto all'attacco di due giorni fa della premier Giorgia Meloni, quello in cui dà per prima la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati: «Se lo ricorda Berlusconi? Non è cambiato nulla! È un potere politico debole che si sente costantemente sotto attacco della magistratura. Che si sta indebolendo pure lei».

Ma che idea si è fatto della vicenda Almasri?

«Mi sembra una faccenda un po' sporca da tutti i punti di vista».
Cosa intende?
«Ritengo che ci sia stato un gioco da parte di altre autorità di polizia nello scaricarci questo criminale che girava per l'Europa da parecchio tempo. Dopodiché, le autorità italiane hanno affrontato la grana com'era prevedibile».
Riportandolo a casa in Libia?
«Ci sono poteri in Libia con cui, da tempo, già prima del governo Meloni, siamo in contatto. Onde evitare, come si dice con una definizione non proprio gentile, che aprano i rubinetti dei migranti. E così, abbiamo celebrato la giornata della Memoria della Shoah liberando un torturatore».
La vicenda Almasri non è l'unica che agita la maggioranza: c'è anche il caso della ministra Santanchè rinviata a giudizio...
«Ma quello è un caso quotidiano nella politica italiana! Ce ne sono stati di casi del genere... E tutti quanti protestano sempre, poi qualcuno si dimette, qualcun altro resiste finché non viene scaricato. Assistiamo a vicende simili da almeno 35 anni».
Secondo lei dovrebbe dimettersi?
«Ma certo! Colpevole o innocente che sia, e fino alla sentenza c'è la presunzione di innocenza, ma come si fa a svolgere con serenità una funzione pubblica in quella situazione, su. In qualunque altro Paese un ministro in quella condizione si dimetterebbe».
Come dice lei, sono vicende che si ripetono. E la sensazione è che i partiti usino spesso due pesi e due misure.
«Glielo dico io qual è il criterio: i rapporti interni. Se uno è forte e ha scheletri nell'armadio, allora viene difeso. Altrimenti, il partito lo molla subito. Semplice».
In questi casi si tira spesso in ballo la questione morale…
«Ma quale questione morale, la questione è una politica che non riesce ad affrontare le riforme e dà la colpa a un complotto della magistratura».
Tutta la politica lo fa?
«Soprattutto la destra, ma, in modo più o meno educato o violento, quando si trova in situazione di difficoltà, la politica reagisce così. Perché è una politica debole che non riesce a fare le riforme che dovrebbe, tantomeno quella della giustizia».
Ora questa maggioranza ci sta provando, no?
«Con un dibattito parlamentare che è una vergogna, del tutto soffocato, senza che ci sia nessun tentativo di concordare una riforma necessaria. Altro che il deprecato consociativismo della Prima Repubblica, meno male che c'è stato! Le riforme costituzionali per loro natura dovrebbero essere discusse nel massimo della condivisione, come fu per la Costiutuzione. Invece stanno usando un metodo infame, che in quanto tale non può che sollevare diatribe: e così si finirà inesorabilmente al referendum e alla divisione del Paese. Su un tema che invece andrebbe discusso in modo razionale».
Una discussione che vada al di là della polemica sulla separazione delle carriere dei magistrati?
«Di per sé il tema non è scandaloso, il problema piuttosto è il casino infernale di due Csm e un altro organo ancora, l'Alta corte disciplinare… E poi diciamo la verità, il tema vero di lite è la riforma del sistema elettorale col sorteggio: il governo vuole distruggere le organizzazioni interne dei magistrati».
Dalla maggioranza è stato detto più volte: vogliono ridurre il peso delle correnti.
«È una dichiarazione di lotta politica! Vogliono un Csm condizionato dal potere politico? Che lo dicano! Tutto questo copre completamente i problemi essenziali della giustizia: le sedi, la mancanza di personale, da cui derivano tempi inaccettabili. E poi la situazione carceraria: quello è il vero scandalo, ma lo hanno visto il Papa che apre la Porta Santa in carcere? E invece di affrontarlo abbiamo un governo che è preso da una bulimia punitiva».
Nuove pene e nuovi reati…
«Pene, pene, pene, un deficit culturale spaventoso. Abbiamo un diritto penale ipertrofico! È il principio dello ius terribile, che permette di togliere la libertà alle persone. Sembra che il modo di prevenire i crimini sia mandando in galera la gente, ma quando mai. Di questo dovremmo parlare, e anche la magistratura dovrebbe richiamare l'opinione pubblica su questi temi, non sulla separazione delle carriere».
Secondo lei cosa percepisce l'opinione pubblica di questo scontro aperto tra politica e magistratura?
«Lo dicono chiaramente i sondaggi: un crollo della fiducia in tutti. La politica da anni gode di una credibilità minima, e anche la magistratura sta precipitando. Così si salva una sola istituzione».
Il presidente della Repubblica?
«Esatto, il nonno buono».
Pensa che queste vicende faranno male al governo o sono solo passaggi un po' più tempestosi del solito?
«Credo che il governo non rischi alcunché. E spero che l'opposizione, Schlein e gli altri, non cadano nel miraggio folle di cambiare la situazione politica per via giudiziaria».
Come si sta comportando in questo frangente l'opposizione?
«Insegue. Invece di dire la sua con chiarezza sulla riforma della giustizia, di affrontare con durezza il tema garantistico nel sistema giudiziario, continua a inseguire. Ora la Santanchè e la Meloni, ieri Salvini. E avanti così». —

mercoledì 29 gennaio 2025

Il tema dell'appeso in Calvino

 carta dell'appeso è l'immagine che chiude la storia dell'Orlando pazzo per amore nel libro di Calvino "



Il barone rampante (1957)

Dall'albero più alto Cosimo nella smania di godere fino in fondo quel diverso verde e la diversa luce che ne traspariva e il diverso silenzio, si lasciava andare a testa in giù e il giardino capovolto diventava foresta, una foresta non della terra, un mondo nuovo.

Il castello dei destini incrociati (1973) 

Le più tristi previsioni furono confermate dalla carta che venne poi, cioè l'arcano dodicesimo, detto Il Penduto, dove si contempla un uomo in brache e camicia, legato a testa in basso, appeso per un piede. Riconoscemmo nell'appeso il nostro giovane biondo: il brigante l'aveva spogliato d'ogni avere, e lasciato a penzolare da un ramo, a testa in giù. 


Nell'ultima carta si contempla il paladino legato a testa in giù come L'Appeso. E finalmente ecco il suo viso diventato sereno e luminoso, l'occhio limpido come neppure nell'esercizio delle sue ragioni passate. Cosa dice? Dice: - Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all'incontrario.



Le città invisibili (1971)
Bersabea

Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesa in cielo esista un'altra Bersabea, dove si librano le virtù e i sentimenti più elevati della città, e che se la Bersabea terrena prenderà a modello quella celeste diventerà una cosa sola con essa. L'immagine che la tradizione ne divulga è quella d'una città d'oro massiccio, con chiavarde d'argento e porte di diamante, una città-gioiello, tutta intarsi e incastonature, quale un massimo di studio laborioso può produrre applicandosi a materie di massimo pregio. Fedeli a questa credenza, gli abitanti di Bersabea tengono in onore tutto ciò che evoca loro la città celeste: accumulano metalli nobili e pietre rare, rinunciano agli abbandoni effimeri, elaborano forme di composita compostezza.
Credono pure, questi abitanti, che un'altra Bersabea esista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorre di spregevole e d'ingegno, ed è costante loro cura cancellare dalla Bersabea emersa ogni legame o somiglianza con la gemella bassa. Al posto dei tetti ci si immagina che la città infera abbia pattumiere rovesciate, da cui franano croste di formaggio, carte unte, resche, risciacquatura di piatti, resti di spaghetti, vecchie bende. O che addirittura la sua sostanza sia quella oscura e duttile e densa come pece che cala giù per le cloache prolungando il percorso delle viscere umane, di nero buco in nero buco, fino a spiaccicarsi sull'ultimo fondo sotterraneo, e che proprio dai pigri boli acciambellati laggiù si elevino giro sopra giro gli edifici d'una città fecale, dalle guglie tortili.
Nelle credenze di Bersabea c'è una parte di vero e una d'errore. Vero è che due proiezioni di se stessa accompagnino la città, una celeste e una infernale; ma sulla loro consistenza ci si sbaglia. L'inferno che cova nel più profondo sottosuolo di Bersabea è una città disegnata dai più autorevoli architetti, costruita coi materiali più cari sul mercato, funzionante in ogni suo congegno e orologeria e ingranaggio, pavesata di nappe e frange e falpalà appesi a tutti i tubi e le bielle.
Intenta ad accumulare i suoi carati di perfezione, Bersabea crede virtù ciò che è ormai un cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di se stessa; non sa che i suoi soli momenti d'abbandono generoso sono quelli dello staccare da sé, lasciar cadere, spandere. Pure, allo zenit di Bersabea gravita un corpo celeste che risplende di tutto il bene della città, racchiuso nel tesoro delle cose buttate via: un pianeta sventolante di scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse, sfavillante di cocci di vetro, bottoni perduti, carte di cioccolatini, lastricato di biglietti del tram, ritagli d'unghie e di calli, gusci d'uovo. La città celeste è questa e nel suo cielo scorrono comete dalla lunga coda, emesse a roteare nello spazio dal solo atto libero e felice di cui sono capaci gli abitanti di Bersabea, città che solo quando caca non è avara calcolatrice interessata.

La foresta-radice-labirinto (1981)

La fiaba racconta di un re, Clodoveo, che sta ritornando dalla guerra alla sua città, ma si perde con tutto il suo esercito nell'inestricabile foresta che è cresciuta intorno all'abitato. Una foresta che è come un labirinto con le radici che sembrano rami e i rami che sembrano radici. Altri si perdono insieme a lui e al suo fedele scudiero Amalberto e al suo esercito: la sua seconda moglie Ferdibunda e il ministro Curvaldo, che stanno tramando una congiura contro il re, la buona figlia Verbena e il suo innamorato Mirtillo. 



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Ferragni, una brutta storia




Andrea Siravo con la redazione
Pandoro-gate, Ferragni rinviata a giudizio per truffa aggravata. L'influencer: "Accusa ingiusta
La Stampa, 29 gennaio 2025

Almeno un’udienza pre dibattimentale Chiara Ferragni dovrà affrontarla. La Procura di Milano ha emesso nei suoi confronti un decreto di citazione diretta a giudizio con l’accusa di concorso con altri per truffa continuata e aggravata in relazione alle operazioni commerciali «Pandoro Balocco Pink Christmas, Limited Edition Chiara Ferragni» (Natale 2022) e «Uova di Pasqua Chiara Ferragni - sosteniamo i Bambini delle Fate» (Pasqua 2021 e 2022).

L’udienza sarà il 23 settembre 2025 davanti al giudice monocratico della terza sezione penale del Tribunale di Milano. E in quel primo confronto gli Giuseppe Iannaccone e Marcello Bana, legali dell’imprenditrice e influencer, proveranno a portare a casa un proscioglimento senza che si debba celebrare il processo. Nel decreto, emesso dai pm Cristian Barilli e dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco, sono già presenti gli eventuali testimoni. Dagli ufficiali del nucleo di polizia economico finanziaria della GdF Milano ai dipendenti delle società coinvolte che hanno seguito le campagne pubblicitarie e dieci tra acquirenti dei prodotti e associazioni di consumatori. Gli inquirenti non hanno individuato parti offese.

La replica

«Credevo sinceramente che non fosse necessario celebrare un processo per dimostrare di non aver mai truffato nessuno. Dovrò purtroppo convivere ancora del tempo con questa accusa, che ritengo profondamente ingiusta, ma sono pronta a lottare con ancora maggiore determinazione per far emergere la mia assoluta innocenza». Chiara Ferragni ha commentato così, in una nota, la decisione della Procura di Milano.

I legali


«Restiamo fermamente convinti che questa vicenda non abbia alcuna rilevanza penale e che ogni profilo controverso sia già stato affrontato e risolto avanti l'Agcm», così in una nota gli avvocati di Chiara Ferragni, Giuseppe Iannaccone e Marcello Bana, dopo aver appreso che la Procura ha emesso il decreto di citazione a giudizio della propria assistita per il caso dei pandori e delle uova di cioccolato. «L'interlocuzione con i Pubblici Ministeri non ha avuto l'esito auspicato e la Procura ha preferito demandare al Giudice del dibattimento ogni decisione nonostante sia evidente l'assenza di condotte costituenti reato e la mancanza delle condizioni di procedibilità - sostengono i legali -. L'innocenza della nostra assistita verrà certamente acclarata in giudizio che affronteremo serenamente».

Il collegio di difesa di Alessandra Balocco, guidato dagli avvocati Alessandra Bono e Alessandro Pistochini, appresa la notizia del decreto di citazione a giudizio, si dichiara profondamente stupito e amareggiato in merito alla scelta della Procura di Milano di devolvere al Giudice del dibattimento la decisione sulla vicenda, che all’evidenza non ha alcuna rilevanza penale, tenuto conto della solidità degli argomenti giuridici sviluppati in un’articolata memoria difensiva. Tutto ciò è ancora più evidente alla luce della remissione della querela che incide sulla procedibilità dal reato, salvo conservare – da parte della Procura – pervicacemente la contestazione di un’aggravante che nulla ha a che vedere con la tipologia dei fatti in contestazione. I legali dichiarano, infine, che affronteranno il giudizio con fiducia e serenità, nella piena convinzione dell’innocenza di Alessandra Balocco.

La vicenda

A fine dicembre l’influencer aveva raggiunto l'accordo con il Codacons, accordo che prevedeva un risarcimento ai consumatori con 200 mila euro da dare in beneficenza. La procura tuttavia ha deciso di non riconsiderare le accuse contenute nell’inchiesta chiusa a ottobre, quando era stato notificato l'avviso di conclusione delle indagini. In pratica, tre società dell’influencer avrebbero realizzato un «ingiusto profitto» pari a una cifra che si aggira intorno ai 2,2 milioni di euro.

Le accuse

Alla fine del 2021 Balocco firmò un contratto da 1 milione e 75 mila euro con le società Fenice srl e Tvb Crew srl, che fanno capo a Ferragni, per promuovere e vendere il pandoro «firmato» dall’influencer facendo però credere ai consumatori che comprando una confezione al triplo del prezzo di mercato (9,37 euro invece che 3,68), avrebbero contribuito a domare soldi all’ospedale Regina Margherita di Torino. In realtà la donazione c’era stata, ma con 50 mila euro versati da Balocco. Così facendo, secondo la procura, si sarebbe ottenuto un «ingiusto profitto»: Balocco per aver venduto 362 mila pandori e le società della Ferragni dal compenso contrattuale e, assieme alla società dolciaria, dal «ritorno di immagine» positivo connesso al fare della beneficenza.

Se questi sono uomini (e donne)


Marco Bresolin, La tratta d'Europa, La Stampa, 29 gennaio 2025

«Mi hanno arrestata il 20 agosto 2024, a Sfax sulla strada di Mahdia. Uscivo dal lavoro e stavo aspettando un bus. È passato un veicolo della Garde Nationale e mi hanno caricata senza chiedermi documenti né nulla. Io avevo una carta consolare del Camerun, ma loro l'hanno strappata e mi hanno caricato con violenza nel furgone dove c'erano altre 7 donne».
Inizia così il racconto di B.L, 39enne, arrestata in Tunisia perché colpevole di essere "black", nera, e poi finita in una prigione in Libia, venduta come una schiava alla frontiera non da bande di criminali, ma dagli agenti e dai militari del Paese guidato da Kais Saied. Quel "Paese sicuro" che da un anno e mezzo a questa parte riceve fondi dall'Unione europea per fermare le partenze verso l'Italia.
Quella della camerunense è una delle trenta testimonianze scioccanti raccolte in un rapporto che denuncia l'esistenza di una «tratta di Stato» in Tunisia, con i migranti che raccontano di esser stati arrestati dagli agenti della Garde Nationale e poi ceduti ai libici per una cifra che va dai 12 a 90 euro a persona. «Le donne costano di più perché vengono usate come oggetti sessuali». La Stampa ha consultato in anteprima il documento – frutto di un'indagine realizzata da un team di ricercatori internazionali RR, con il sostegno di Asgi, Border Forensics e On Borders – che oggi sarà presentato al Parlamento europeo da un gruppo di parlamentari, tra cui l'italiano Leoluca Orlando (Verdi). «Siamo di fronte a un'attività criminale svolta con la copertura e i fondi dell'Italia e dell'Unione europea», attacca l'ex sindaco di Palermo, che chiede «l'immediata sospensione di questi accordi».
Il riferimento è al Memorandum d'Intesa con la Tunisia firmato dalla Commissione nell'estate del 2023, che prevede 150 milioni di euro di assistenza finanziaria più 105 milioni per la gestione dei flussi migratori. Orlando punta il dito contro «un sistema emblematicamente rappresentato dal caso Almasri, torturatore di migranti sottratto a un ordine di arresto della Corte penale internazionale».
Secondo gli autori, che lavorano sul campo e che per questo hanno deciso di rimanere anonimi, il rapporto «aggiunge un anello a quanto già conosciuto: la responsabilità degli apparati dello Stato tunisino nella tratta di esseri umani alla frontiera libica». Attraverso i racconti dei migranti, i ricercatori hanno ricostruito quello che sembra essere un sistema strutturato che vede le autorità tunisine impegnate a pattugliare non solo le acque territoriali, ma anche le località della costa più vicine a Lampedusa, tra Susa e Sfax, con l'obiettivo di far sparire dalla circolazione i migranti di origine sub-sahariana, considerati da Saied «una minaccia all'identità arabo-islamica del Paese» e dai governi europei un problema da tenere lontano. I dati delle Ong tunisine dicono che tra il 2023 e il 2024 il governo di Saied ha bloccato 100 mila migranti «e una parte consistente – si legge nel report - è stata vittima di espulsioni verso la Libia e l'Algeria con caratteristiche e logiche che rimangono spesso invisibili».
Il meccanismo descritto si snoda attorno a cinque fasi: la "caccia al nero" e l'arresto, il trasporto verso i centri alla frontiera della Libia, la reclusione, la vendita ai libici e il trasferimento nei centri di detenzione in Libia. Il tutto accompagnato da violenze, torture, stupri e in alcuni casi omicidi. Secondo gli esperti dell'Asgi, l'associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, le testimonianze evidenziano una serie di violazioni del diritto internazionale, tra cui: crimini contro l'umanità, discriminazione razziale e incitazione all'odio razziale, respingimenti collettivi, riduzione in schiavitù, tortura e trattamenti inumani e degradanti, tratta e violenza di genere.
Alcuni migranti che hanno deciso di testimoniare sono stati intercettati dalla guardia costiera tunisina mentre erano in mare, altri invece sono stati arrestati in casa o sul luogo di lavoro, principalmente negli uliveti delle zone costiere, anche se provvisti di documenti di soggiorno. Perquisiti e spogliati dei loro effetti personali con metodi violenti, sono stati portati in quattro diversi centri di raccolta nei pressi Sfax in attesa di essere caricati sugli autobus in direzione dell'Algeria e soprattutto della Libia. «A bordo – ha rivelato B. A., 41 anni, ivoriano – ci hanno torturato e picchiato. Se hai sete e chiedi, ti picchiano. Ti legano stretto con delle fascette e il sangue non circola più. Non puoi neanche pisciare».
Stando ai loro racconti, il trasferimento è gestito direttamente dagli agenti della Garde Nationale, che poi li consegnano ai militari che operano nelle basi alla frontiera con la Libia. Dopo una detenzione che può durare fino a un mese, con violenze quotidiane, i migranti hanno raccontato della consegna ai libici attraverso una vera e propria vendita. In cambio di soldi o, a volte, di hashish. Ed è da qui poi che l'incubo prosegue nei centri di detenzione in Libia, dai quali esce solo chi riesce a farsi spedire dai familiari i soldi per il riscatto. «Nel nostro container – la testimonianza di un 22enne – ho visto morire almeno quattro persone. Noi poi dovevamo seppellirli».
ppartengo, su per giù, alla genera-zione di Albert Camus, alla generazio-ne che negli anni della maturità si trovò ad attraversare, avendolo oscuramente previ-sto ma non essendo riuscita a fermarlo prima che fosse troppo tardi, il tempo della «follia», per usare un'espressione ca-ra al nostro autore, o del «sangue d'Eu-ropa», per ricordare ancora una volta il titolo di un libro-simbolo: il tempo in cui accaddero quegli eventi straordinari (e terribili) che rimisero in questione tut-to quello in cui avevamo creduto, tutto quello che avevamo pensato sul destino dell'uomo, sul progresso storico, che le filosofie della storia del secolo scorso ave-vano considerato indefinito, sulla imman-cabile perfettibilità del genere umano, sul-le ragioni o non ragioni della esistenza, sul rapporto fra Dio e il mondo, fra uo-mo e uomo, e all'interno di ciascuno di noi fra l'uomo intimo e l'uomo politi-co. Erano gli anni in cui, non a caso, si era diffuso l'esistenzialismo nelle due versioni, laica e religiosa, una filosofia della finitezza, dell'angoscia, della situazione-limite, che io avevo interpre-tato per darmene una ragione come «fi-losofia del decadentismo». Sono gli anni in cui ci appare in tutta la sua estensione e intensità il «volto de-moniaco» del potere, e ci si presenta nel-le sue principali raffigurazioni storiche: l'ubris degli antichi, la libido dominan-di, di Sant' Agostino, la «volpe» e il «leo-ne» di Machiavelli, i due mostri, Levia-than e Behemoth, di Hobbes, la furia della distruzione di Hegel, l'elogio del boia di De Maistre, e per finire la «vo-lontà di potenza» di Nietzsche, col suo inevitabile compagno, il nichilismo. Di tutti coloro che hanno riflettuto su quegli accadimenti e ne hanno tratto te-mi di meditazione che non hanno perdu-to nulla del loro originario significato, Camus è stato forse colui che ne ha trat-to le conseguenze più radicali e si è po-sto le domande più tormentose. Tormen-tose, perché sono le eterne domande che non hanno risposta, o sono tali che la risposta, qualunque essa sia, rinvia im-mediatamente a un'altra domanda. Lo stesso Camus non ebbe la pretesa di ri-spondervi. Tra queste domande due soprattutto vorrei brevemente evocare: la domanda sul senso della storia e quella sul rappor-to fra etica e politica. Qual è il senso della storia? Caduto il mito del progresso, svelata la finzione della provvidenza, che per vie imperscru-tabili conduce a buon fine anche le azio-ni più malvage, la storia ha ancora un senso? C'è una ragione nella storia? Ma una storia senza Dio e senza ragione non diventa il regno dell'assurdo, e il suo sim-bolo non è più Prometeo o Ulisse, ma diventa Sisifo condannato a spingere su per la montagna un sasso che giunto al vertice riprecipita in basso? Il mito di Sisifo ricorda il passo di un autore che gli era caro, Dostoevskij: nelle Memo-rie del sottosuolo descrive la pena dei forzati che ogni giorno innalzano un muc-chio di sabbia che il giorno dopo viene abbattuto.' Dovendo un giorno tenere una lezio-ne su etica e politica mi venne fatto di citare due brevi battute di dialogo tratte da una pièce di Camus. Uno dei perso-naggi elogia il principio machiavellico che il fine giustifica i mezzi. L'altro ribatte: «Ma chi giustifica il fine?» Già, il pro-blema è proprio questo: chi giustifica il fine? Ammettiamolo pure: il fine buono giustifica anche il mezzo cattivo. Ma se anche il fine fosse cattivo? Nel celebre passo del cap. XVIII del Principe Ma-chiavelli afferma che della fede può non tener conto il principe che ha fatto «gran-di cose». Ma quali sono le grandi cose? Conquistare uno stato è una «grande co-sa»? La strage della Notte di San Barto-lomeo, che pur fu giustificata dal ma-chiavellico Gabriel Naudé, era una «gran-de cosa»? Ha ragione Camus: chi giusti-fica il fine? Il secondo passo: uno dei terroristi del dramma, Les Justes, per giu-stificare l'attentato che si accinge a com-piere, esalta la felicità della società futu-ra che nascerà dalla violenza rivoluzio-naria. Dora lo interrompe e gli dice: «E se così non fosse?» Verissimo: e se così non fosse? Quante volte nella storia «non è stato così». Le domande che si pose Camus sono le domande che non possiamo evitare di porci. Forse che il volto demoniaco del potere è scomparso? E la volontà di po-tenza? Queste domande Camus si pose con particolare chiaroileggenza, e con osti-nazione. Per questo la sua opera che, al-meno in Italia, suscitò meno strepito di quella di Sartre è forse oggi più attuale, perché il suo impegno è stato meno as-sillante, meno ossessivo, meno preoccu-pato di essere sempre sulla linea giusta (che poi troppo spesso ha dimostrato di essere quella sbagliata). Nel rapporto fra intellettuali e politi-ca Camus seppe rifuggire dalle due posi-zioni estreme, quella rigida e frigida di Benda, della separazione netta fra l'im-pegno per la verità e l'impegno per il mondo, e quella dell'intellettuale parte-cipe, o addirittura partigiano, che ritiene suo dovere essere sempre da una parte (di non aver dubbi di fronte a chi gli domanda: «E tu da che parte stai?»). Affascinato dai grandi e insolubili con-trasti dell'esistenza, Camus è stato uomo dai grandi contrasti interiori: un esempio di passione e di lucidità, di forte emoti-vità e insieme di rigore intellettuale, di estrosità e di riflessione, d'immaginazio-ne e di raziocinio (che appare se mai ta-lora sin troppo sottile). Patetico e insie-me logicamente implacabile: la sua fu una logica implacabile al servizio della dimostrazione dell'assurdo. Agitato dal-le furie e insieme calmo come un dio dell'Olimpo, senza speranza ma non di-sperato. La sua vita è stata un esempio di di-gnità, di dignità nella sofferenza.
ppartengo, su per giù, alla genera-zione di Albert Camus, alla generazio-ne che negli anni della maturità si trovò ad attraversare, avendolo oscuramente previ-sto ma non essendo riuscita a fermarlo prima che fosse troppo tardi, il tempo della «follia», per usare un'espressione ca-ra al nostro autore, o del «sangue d'Eu-ropa», per ricordare ancora una volta il titolo di un libro-simbolo: il tempo in cui accaddero quegli eventi straordinari (e terribili) che rimisero in questione tut-to quello in cui avevamo creduto, tutto quello che avevamo pensato sul destino dell'uomo, sul progresso storico, che le filosofie della storia del secolo scorso ave-vano considerato indefinito, sulla imman-cabile perfettibilità del genere umano, sul-le ragioni o non ragioni della esistenza, sul rapporto fra Dio e il mondo, fra uo-mo e uomo, e all'interno di ciascuno di noi fra l'uomo intimo e l'uomo politi-co. Erano gli anni in cui, non a caso, si era diffuso l'esistenzialismo nelle due versioni, laica e religiosa, una filosofia della finitezza, dell'angoscia, della situazione-limite, che io avevo interpre-tato per darmene una ragione come «fi-losofia del decadentismo». Sono gli anni in cui ci appare in tutta la sua estensione e intensità il «volto de-moniaco» del potere, e ci si presenta nel-le sue principali raffigurazioni storiche: l'ubris degli antichi, la libido dominan-di, di Sant' Agostino, la «volpe» e il «leo-ne» di Machiavelli, i due mostri, Levia-than e Behemoth, di Hobbes, la furia della distruzione di Hegel, l'elogio del boia di De Maistre, e per finire la «vo-lontà di potenza» di Nietzsche, col suo inevitabile compagno, il nichilismo. Di tutti coloro che hanno riflettuto su quegli accadimenti e ne hanno tratto te-mi di meditazione che non hanno perdu-to nulla del loro originario significato, Camus è stato forse colui che ne ha trat-to le conseguenze più radicali e si è po-sto le domande più tormentose. Tormen-tose, perché sono le eterne domande che non hanno risposta, o sono tali che la risposta, qualunque essa sia, rinvia im-mediatamente a un'altra domanda. Lo stesso Camus non ebbe la pretesa di ri-spondervi. Tra queste domande due soprattutto vorrei brevemente evocare: la domanda sul senso della storia e quella sul rappor-to fra etica e politica. Qual è il senso della storia? Caduto il mito del progresso, svelata la finzione della provvidenza, che per vie imperscru-tabili conduce a buon fine anche le azio-ni più malvage, la storia ha ancora un senso? C'è una ragione nella storia? Ma una storia senza Dio e senza ragione non diventa il regno dell'assurdo, e il suo sim-bolo non è più Prometeo o Ulisse, ma diventa Sisifo condannato a spingere su per la montagna un sasso che giunto al vertice riprecipita in basso? Il mito di Sisifo ricorda il passo di un autore che gli era caro, Dostoevskij: nelle Memo-rie del sottosuolo descrive la pena dei forzati che ogni giorno innalzano un muc-chio di sabbia che il giorno dopo viene abbattuto.' Dovendo un giorno tenere una lezio-ne su etica e politica mi venne fatto di citare due brevi battute di dialogo tratte da una pièce di Camus. Uno dei perso-naggi elogia il principio machiavellico che il fine giustifica i mezzi. L'altro ribatte: «Ma chi giustifica il fine?» Già, il pro-blema è proprio questo: chi giustifica il fine? Ammettiamolo pure: il fine buono giustifica anche il mezzo cattivo. Ma se anche il fine fosse cattivo? Nel celebre passo del cap. XVIII del Principe Ma-chiavelli afferma che della fede può non tener conto il principe che ha fatto «gran-di cose». Ma quali sono le grandi cose? Conquistare uno stato è una «grande co-sa»? La strage della Notte di San Barto-lomeo, che pur fu giustificata dal ma-chiavellico Gabriel Naudé, era una «gran-de cosa»? Ha ragione Camus: chi giusti-fica il fine? Il secondo passo: uno dei terroristi del dramma, Les Justes, per giu-stificare l'attentato che si accinge a com-piere, esalta la felicità della società futu-ra che nascerà dalla violenza rivoluzio-naria. Dora lo interrompe e gli dice: «E se così non fosse?» Verissimo: e se così non fosse? Quante volte nella storia «non è stato così». Le domande che si pose Camus sono le domande che non possiamo evitare di porci. Forse che il volto demoniaco del potere è scomparso? E la volontà di po-tenza? Queste domande Camus si pose con particolare chiaroileggenza, e con osti-nazione. Per questo la sua opera che, al-meno in Italia, suscitò meno strepito di quella di Sartre è forse oggi più attuale, perché il suo impegno è stato meno as-sillante, meno ossessivo, meno preoccu-pato di essere sempre sulla linea giusta (che poi troppo spesso ha dimostrato di essere quella sbagliata). Nel rapporto fra intellettuali e politi-ca Camus seppe rifuggire dalle due posi-zioni estreme, quella rigida e frigida di Benda, della separazione netta fra l'im-pegno per la verità e l'impegno per il mondo, e quella dell'intellettuale parte-cipe, o addirittura partigiano, che ritiene suo dovere essere sempre da una parte (di non aver dubbi di fronte a chi gli domanda: «E tu da che parte stai?»). Affascinato dai grandi e insolubili con-trasti dell'esistenza, Camus è stato uomo dai grandi contrasti interiori: un esempio di passione e di lucidità, di forte emoti-vità e insieme di rigore intellettuale, di estrosità e di riflessione, d'immaginazio-ne e di raziocinio (che appare se mai ta-lora sin troppo sottile). Patetico e insie-me logicamente implacabile: la sua fu una logica implacabile al servizio della dimostrazione dell'assurdo. Agitato dal-le furie e insieme calmo come un dio dell'Olimpo, senza speranza ma non di-sperato. La sua vita è stata un esempio di di-gnità, di dignità nella sofferenza.
ppartengo, su per giù, alla genera-zione di Albert Camus, alla generazio-ne che negli anni della maturità si trovò ad attraversare, avendolo oscuramente previ-sto ma non essendo riuscita a fermarlo prima che fosse troppo tardi, il tempo della «follia», per usare un'espressione ca-ra al nostro autore, o del «sangue d'Eu-ropa», per ricordare ancora una volta il titolo di un libro-simbolo: il tempo in cui accaddero quegli eventi straordinari (e terribili) che rimisero in questione tut-to quello in cui avevamo creduto, tutto quello che avevamo pensato sul destino dell'uomo, sul progresso storico, che le filosofie della storia del secolo scorso ave-vano considerato indefinito, sulla imman-cabile perfettibilità del genere umano, sul-le ragioni o non ragioni della esistenza, sul rapporto fra Dio e il mondo, fra uo-mo e uomo, e all'interno di ciascuno di noi fra l'uomo intimo e l'uomo politi-co. Erano gli anni in cui, non a caso, si era diffuso l'esistenzialismo nelle due versioni, laica e religiosa, una filosofia della finitezza, dell'angoscia, della situazione-limite, che io avevo interpre-tato per darmene una ragione come «fi-losofia del decadentismo». Sono gli anni in cui ci appare in tutta la sua estensione e intensità il «volto de-moniaco» del potere, e ci si presenta nel-le sue principali raffigurazioni storiche: l'ubris degli antichi, la libido dominan-di, di Sant' Agostino, la «volpe» e il «leo-ne» di Machiavelli, i due mostri, Levia-than e Behemoth, di Hobbes, la furia della distruzione di Hegel, l'elogio del boia di De Maistre, e per finire la «vo-lontà di potenza» di Nietzsche, col suo inevitabile compagno, il nichilismo. Di tutti coloro che hanno riflettuto su quegli accadimenti e ne hanno tratto te-mi di meditazione che non hanno perdu-to nulla del loro originario significato, Camus è stato forse colui che ne ha trat-to le conseguenze più radicali e si è po-sto le domande più tormentose. Tormen-tose, perché sono le eterne domande che non hanno risposta, o sono tali che la risposta, qualunque essa sia, rinvia im-mediatamente a un'altra domanda. Lo stesso Camus non ebbe la pretesa di ri-spondervi. Tra queste domande due soprattutto vorrei brevemente evocare: la domanda sul senso della storia e quella sul rappor-to fra etica e politica. Qual è il senso della storia? Caduto il mito del progresso, svelata la finzione della provvidenza, che per vie imperscru-tabili conduce a buon fine anche le azio-ni più malvage, la storia ha ancora un senso? C'è una ragione nella storia? Ma una storia senza Dio e senza ragione non diventa il regno dell'assurdo, e il suo sim-bolo non è più Prometeo o Ulisse, ma diventa Sisifo condannato a spingere su per la montagna un sasso che giunto al vertice riprecipita in basso? Il mito di Sisifo ricorda il passo di un autore che gli era caro, Dostoevskij: nelle Memo-rie del sottosuolo descrive la pena dei forzati che ogni giorno innalzano un muc-chio di sabbia che il giorno dopo viene abbattuto.' Dovendo un giorno tenere una lezio-ne su etica e politica mi venne fatto di citare due brevi battute di dialogo tratte da una pièce di Camus. Uno dei perso-naggi elogia il principio machiavellico che il fine giustifica i mezzi. L'altro ribatte: «Ma chi giustifica il fine?» Già, il pro-blema è proprio questo: chi giustifica il fine? Ammettiamolo pure: il fine buono giustifica anche il mezzo cattivo. Ma se anche il fine fosse cattivo? Nel celebre passo del cap. XVIII del Principe Ma-chiavelli afferma che della fede può non tener conto il principe che ha fatto «gran-di cose». Ma quali sono le grandi cose? Conquistare uno stato è una «grande co-sa»? La strage della Notte di San Barto-lomeo, che pur fu giustificata dal ma-chiavellico Gabriel Naudé, era una «gran-de cosa»? Ha ragione Camus: chi giusti-fica il fine? Il secondo passo: uno dei terroristi del dramma, Les Justes, per giu-stificare l'attentato che si accinge a com-piere, esalta la felicità della società futu-ra che nascerà dalla violenza rivoluzio-naria. Dora lo interrompe e gli dice: «E se così non fosse?» Verissimo: e se così non fosse? Quante volte nella storia «non è stato così». Le domande che si pose Camus sono le domande che non possiamo evitare di porci. Forse che il volto demoniaco del potere è scomparso? E la volontà di po-tenza? Queste domande Camus si pose con particolare chiaroileggenza, e con osti-nazione. Per questo la sua opera che, al-meno in Italia, suscitò meno strepito di quella di Sartre è forse oggi più attuale, perché il suo impegno è stato meno as-sillante, meno ossessivo, meno preoccu-pato di essere sempre sulla linea giusta (che poi troppo spesso ha dimostrato di essere quella sbagliata). Nel rapporto fra intellettuali e politi-ca Camus seppe rifuggire dalle due posi-zioni estreme, quella rigida e frigida di Benda, della separazione netta fra l'im-pegno per la verità e l'impegno per il mondo, e quella dell'intellettuale parte-cipe, o addirittura partigiano, che ritiene suo dovere essere sempre da una parte (di non aver dubbi di fronte a chi gli domanda: «E tu da che parte stai?»). Affascinato dai grandi e insolubili con-trasti dell'esistenza, Camus è stato uomo dai grandi contrasti interiori: un esempio di passione e di lucidità, di forte emoti-vità e insieme di rigore intellettuale, di estrosità e di riflessione, d'immaginazio-ne e di raziocinio (che appare se mai ta-lora sin troppo sottile). Patetico e insie-me logicamente implacabile: la sua fu una logica implacabile al servizio della dimostrazione dell'assurdo. Agitato dal-le furie e insieme calmo come un dio dell'Olimpo, senza speranza ma non di-sperato. La sua vita è stata un esempio di di-gnità, di dignità nella sofferenza.