Enrico Terrinoni, Anna Burns, impassibile ordinarietà di un trauma collettivo
il manifesto, 12 gennaio 2025
In una lettera a Valery Larbaud, Italo Svevo, citando il suo amico James Joyce, scriveva: «nella penna di un uomo c’è un solo romanzo» e «quando uno ne scrive diversi è sempre lo stesso, più o meno trasformato». È una formula che ben si adatta alla irlandese Anna Burns, il cui primo libro, No Bones, uscì originariamente nel 2001, diciassette anni prima che vincesse il Booker Prize con Milkman.
Malgrado le ovvie differenze, che riguardano soprattutto lo stile, come avviene in ogni autore via via maturato nel tempo, i due romanzi sono parte di un percorso coerente, il cui scopo è dipingere esistenze e vicende stagliate sullo sfondo di un conflitto atroce, quello che ha coinvolto l’Irlanda del Nord a partire dalla fine degli anni Sessanta.
Tuttavia, se in Milkman la narrazione è giocata, anche con notevoli scarti comici e ironici, su quell’impalpabile equilibrio tra vita reale e incubo che è stato a lungo una cifra esistenziale nel Nord dell’isola d’Irlanda, la notevole opera prima di Anna Burns, tradotta da Elvira Grassi per Keller editore con il titolo Amelia (pp. 384, € 19,00) punta su atmosfere più vicine, forse, a quelle di Arancia meccanica di Burgess. E’ un romanzo atipico – piuttosto una serie di racconti legati da trame, temi e personaggi, che ruotano attorno a un «centro decentrato» – dove non si parla di vite ordinarie bensì di quelle speciali di chi avrebbe potuto condurre un’esistenza complicata, sì, ma comunque tollerabile. Lo scenario del testo è invece sempre, immancabilmente, ossessivo e terribile: «l’elefante nella stanza», ovvero il conflitto armato che compare sempre in qualche forma nei romanzi nordirlandesi, non può non dettare – a volte – scelte narrative davvero radicali.
Diversamente da quanto accadrà in Milkman, in questo primo romanzo la percentuale di straordinarietà è quasi in eccesso. I temi per eccellenza della letteratura irlandese contemporanea – la disfunzionalità delle famiglie, i problemi psicologici relativi al consumo di alcol e droga, le relazioni tossiche – nel libro vengono spinti al punto da estromettere quel che vi accade dalla narrazione realistica, o anche soltanto probabile, per strizzare l’occhio al mondo delle allucinazioni.
Attraverso i vari capitoli che scandiscono anno per anno il conflitto, dai suoi inizi fino al 1994 – quando si verificò il primo cessate il fuoco dell’Ira – vediamo come la vita di Amelia Lovett venga scomposta e scoordinata dai fatti e dal contesto. Nessun personaggio, tra i membri della famiglia, gli amici, i conoscenti, appartiene all’ordinario, in questo romanzo di non formazione i cui ingredienti sono droga, violenze casuali e aggressioni sessuali, alcolismo, bulimia, anoressia, schizofrenia.
Da una narrazione quasi distaccata, dove tutto sembra essere sotto controllo, Burns passa a un tratto a una maggiore passionarietà, adottando la prima persona così da privilegiare il punto di vista di Amelia: la sua crescita implica – diversamente da quanto avviene nei romanzi di formazione – un senso di spaesamento sempre più forte e l’impossibilità di dare una direzione alla propria vita.
Nel mosaico sfasato della sua esistenza sfila una carrellata di immagini perturbanti: sua madre è in perenne litigio con la sorella, tanto che l’Ira interverrà fra le due; il fratello sposa una donna con cui ha una relazione a dir poco inusuale: fa sesso con la moglie, legata con una corda, nella cucina dei genitori, mentre la figlioletta impicca le sue bambole sulla balaustra delle scale e provvede a masturbarle; non prima di avere tentato di violentare la sorella anoressica, e venire picchiato a sangue dalle sue amiche lesbiche.
Ma la teoria dei traumi non finisce qui, la violenza – in questo romanzo decisamente perturbante – regola la vita. Che il libro sia il primo passo verso una maturazione letteraria più compiuta lo dimostrano alcune scene assolutamente vivide e ben calibrate: per esempio, quando, nella scena che precede quella in cui il padre di Amelia viene colpito da un proiettile, la piccola va in cucina a compiere un’azione assolutamente normale, preparare il tè: «Fuori sparano – quattro, cinque, sei colpi. Di fucile. Vado a riempire il bollitore. Poi altri – rapidi, ravvicinati – oltre il nostro muro. Così mi ci attacco di spalle, tra la finestra e i fornelli. Gli spari si fermano e io aspetto lì ancora un po’. Poi m’accovaccio e sguscio sotto la finestra, muovendomi all’indietro…»
No bones, questo il titolo originario, in inglese sta per «senza dubbio». L’espressione to make no bones vuol dire «non fare mistero», e un no bones day è una giornata in cui prendersela calma, in cui non fare scelte avventate. L’immagine delle ossa (bones), rimanda poi alla morte e ai tanti cadaveri scomparsi in Irlanda del Nord, e chi non ha bones è uno smidollato. Benché la traduttrice trovi soluzioni adeguate, ogni qual volta compare questa espressione del titolo, la sua polifonia semantica è stata poi sacrificata a priori nella scelta di titolare il romanzo Amelia, come succederebbe se chiamassimo Cime tempestose semplicemente Heathcliff e Catherine. I titoli dei libri, del resto, quasi mai li scelgono i traduttori.
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