Marco Follini
Lettera al Direttore
La Stampa, 22 gennaio 2025
Caro direttore, è possibile che il presidente Trump pensi davvero che sia stato Dio, in primissima persona, a deviare quella pallottola che gli era stata sparata contro in Pennsylvania; e che lo abbia fatto appunto per consentirgli di rendere l'America ancora più grande. Ma la quantità di volte che l'argomento è stato speso –da ultimo nel discorso di insediamento– lascia il dubbio, almeno il dubbio, che il suo intento sia piuttosto quello di segnalare al popolo americano e al mondo che il Signore si prende una cura particolarissima del suo destino e della sua sorte politica.
Cosa della quale forse noi italiani non avremmo neanche troppo titolo per scandalizzarci più di tanto. Dato che dalle nostre parti di recente abbiamo visto dirigenti politici di primo piano ostentare la loro fede e i loro simboli religiosi senza troppo pudore, esibendosi in televisione e sui social nella parte di figli devoti di Santa Madre Chiesa. E pazienza se tutte queste ostentazioni ed esibizioni sono avvenute a un passo da comunicazioni molto più laiche e mondane. Quasi che le immagini della Madonna e di padre Pio fossero chiamate a tener compagnia alle contemporanee e assai vistose rappresentazioni della coppa piacentina o della burrata di Andria.
Il fatto è che l'arruolamento di Dio sotto le nostre pur nobili bandiere politiche sembra quasi voler togliere qualcosa al carisma divino. Ma paradossalmente finisce poi per togliere qualcosa anche alla politica. Come se essa potesse venire riconosciuta e nobilitata solo da un concorso celeste. Priva d'ogni sua virtù e indotta semmai a rifugiarsi nella celebrazione di una impropria confusione tra la città di Dio e la città terrena.
Si dirà che così va il mondo. E che questa sorta di pubblicità che la politica offre alla fede fa parte in un certo senso della nostra rumorosa e un po' vanitosa modernità. Laddove appunto ogni cosa vale in ragione della sua ostentazione e tutto quello che invece resta sottinteso o recitato senza l'altisonante e compiaciuto fervore di cui sopra appare quasi come un ramo minore dell'albero frondoso dei nostri valori politici e civili.
E invece è proprio in quel continuo ripeterci che noi siamo con Dio e che Dio si prende una cura particolarissima di noi –proprio noi, noi più degli altri– che risuonano parole d'ordine antiche, antichissime che rimandano a quando si pretendeva di disporre della divinità sotto le proprie insegne o a quando i titolari terreni di quella divinità chiedevano agli eserciti secolari di puntellare i loro destini. Da quella confusione siamo poi venuti fuori per reciproco merito. E sarebbe davvero un bel salto all'indietro se dovessimo mai precipitarvi di nuovo.
Ora, non vorrei fare il nostalgico democristiano, dato che dalle mie parti c'erano esempi nobili di questa distinzione e anche esempi meno nobili di qualche confusione in materia. Ma resta il fatto che quando all'assemblea costituente un grande deputato della Dc, Giorgio La Pira, propose un emendamento in base al quale la legge fondamentale veniva promulgata «in nome di Dio» furono i suoi colleghi di partito, tutti o quasi tutti, a bocciare la sua intenzione. Facendogli presente, non senza una punta di perfidia, che Dio non poteva essere messo ai voti. Tanto più ai voti di un consesso nel quale i democratici cristiani non avevano la maggioranza.
La distinzione tra la politica e la religione, tra il sacro e il profano, fa parte insomma della civiltà democratica da molti anni. E dà un senso, perfino geopolitico, alle molte controversie che essa si trova ad affrontare in giro per il mondo. Laddove più spesso capita che a Dio si chieda di fare una parte che spetterebbe invece ai suoi figli.
Il nostro credo, e la nostra storia, ci dicono invece che Dio ci ispira ma non ci governa. E che se mai si occupasse di politica si può star certi che lo farebbe in un modo così discreto da non consentire a nessuno di farsene un vanto. —
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