Fulvio Abbate
Chi era Jane Birkin, musa di Hermès e cantante simbolo
l'Unità, 31 gennaio 2025
Jane Birkin, la sua, tutta sua, solo sua, sostanza fotografica; “iconica”, si dirà poi. Eros assoluto, invidiabile, inarrivabile, “politico”, che raggiungeva lo sguardo altrui. I giorni dell’uscita di “Je t’aime.. moi non plus”. In Italia, provincia vaticana, il disco trovò gli occhi e le pecette nere dei censori, a coprire parole, note, e soprattutto a sbarrare l’ansimare di lei, la voce di un orgasmo annunciato. Livia, mia cugina, la ricordo a dirmi: “Il disco no, non l’ho ancora ascoltato, però ho letto il testo”, anche questo ritenuto non meno “scandaloso”, “scabroso”. Eravamo nel cortile di casa, davanti ai garage, cosmodromo della prima adolescenza dei già maturi anni Sessanta, il tempo delle polluzioni notturne, e lei, Jane, la sua voce, suggeriva, anche il fiotto finale.
Il “Ciao” blu appena acquistato, il viso di Che Guevara sui rotocalchi accanto a Celentano di “Azzurro”, i manifesti di “Giovani”, un gran pavese beat fissato sui cornicioni delle edicole, e ancora, su tutto, la sensazione che l’azzurro dell’Esagono, dove Jane Birkin aveva ormai il suo domicilio, il suo dominio pubblico spettacolare, raggiungesse anche noi, laggiù in spiaggia, in Sicilia. Il volto, il suo viso: naturale perfezione somatica, trigonometria della bellezza, ragazza sottile, di più, “esca dalle lunghe gambe”, come recitano altrove i versi del poeta gallese Dylan Thomas, comunque perfetti pure per lei. Jane Birkin fanciulla “folle come gli uccelli”, inarrivabile, dolente. Silente e insieme assordante nella sua evidenza erotica, seno acerbo, da fanciulla fiorita, sotto la camicia bianca da ragazzo.
La moda, sempre allora, brillava di un sentire umanamente rivoluzionario, addirittura, appunto, “militante”, insieme alla sostanza e il mirino dell’iride chiaro, nuovamente un eros assoluto, i trimestri erano ancora tali, i quadrimestri del “riflusso” lontani, da venire, le fibbie dei cinturoni, i coloratissimi orologi di Carnaby Street dai numeri vistosi ai polsi; i giorni dell’estate sembravano infiniti, la vita ricominciava ogni settembre. E Jane Birkin era lì, minigonna o short, al braccio un paniere di vimini mostrato come e meglio di una “Hermès”, la borsa che infine avrà il suo nome, accanto al suo doppio maschile, Serge… Serge Gainsbourg. Il titolo della loro canzone spalancata ancora su una nudità quieta, naturalmente orgogliosa, nella nostra ufficiale “Hit Parade” veniva pronunciato a malapena dal conduttore Lelio Luttazzi in blazer scuro e cravatta da compito signore borghese; pudore democristiano, si è già detto.
Eppure il mondo apparteneva interamente a Jane. Il glamour doveva ancora trovare la narrazione e le forme ordinarie della “riccanza” così come lo identifichiamo adesso. I manifesti, le serigrafie del maggio Sessantotto, il chepì e il naso di De Gaulle “vilipeso” dagli studenti, dai blouson noir sui muri accanto agli slogan, all’eco della rivolta, il pavé sotto la spiaggia, e proprio su quella spiaggia Lei, Jane Birkin, a levitare immobile, capelli lunghi, frangetta, incanto dello sguardo, ogni cosa scritta spray in corsivo, “Nous sommes tous indésiderables”, siamo tutti indesiderabili, forse il più esemplare. Non Jane, desiderata e desiderabile, di più, manifesto vivente del desiderio, del principio del piacere, pura desiderabilità, monotipo femminile di un nuovo modo e mondo perfino spettacolari, Jane che esisteva come forma perfetta di se stessa: i suoi incisivi, la bocca, lo sguardo toccato, presidio di uno stupore unico, davvero secondario che si trattasse di un’attrice e cantante. In lei si incarnava semmai, longilineo, il mito, senza tuttavia il peso che altrove gravava sulla “collega” Brigitte Bardot. Uno scatto da fotobusta le vede insieme, nude, a letto, il panneggio delle lenzuola, i loro sguardi, la femminilità “liberata”.
Anche la nudità era immediata, naturalezza del Nuovo. Bellezza che si sarebbe definita “apolide”. Irrilevante perfino che Jane B. risultasse londinese, ragazza venuta al mondo il 14 dicembre 1946, irrilevante ancora che fosse la rampolla di David Birkin
comandante della Royal Navy e figlia d’arte di un’attrice a sua volta anche cantante di musical, Judy Campbell. Sembrava infatti che la ragazza rispondesse solo a se stessa, al suo assoluto, icona in proprio, ben oltre i suoi giorni da protagonista della “Swinging London”, nel paese che, cancellata ogni memoria delle V2 tedesche spioventi dal cielo sul costruito, degli allarmi aerei, della subway nei giorni di guerra, raffigurati come catacombe a grafite da Henry Moore, e degli elmetti “Tommy” a scodella, trovava infine la luccicanza di un’era giovane, eternamente adolescenziale dapprima optical, poi beat. Diciannovenne, sposerà il compositore John Barry, autore delle musiche dei film di 007, da cui avrà una prima figlia, Kate, tragicamente suicida nel 2013.
L’esordio cinematografico nel 1965 con Richard Lester, il regista dei film dei Beatles protagonisti, poi Blow Up di Antonioni… Ancora la sua nudità, ciò che sempre allora era pronunciato “topless”, e la fama, “grazie al suo corpo androgino e alla sua femminilità sensuale”, hanno scritto con prosa giornalistica ordinaria, “l’aria sbarazzina da tomboy, un maschiaccio”, diranno altri. Nel 1968 sul set di “Sloan” l’incontro con Gainsbourg, il loro sodalizio amoroso, sentimentale, masochistico, trasgressione e invidia sociale. La coppia, i dischi, immaginarli ancora adesso, i visi accostati, in sala d’incisione, ed era la fine del 1968. Su ordine della Procura della Repubblica di Milano, il disco, si è detto, finì sotto sequestro “su tutto il territorio nazionale”. Cinque milioni di copie e la coppia incoronata dalla fama, la pioggia di flash su loro in strada a Parigi. Occorre ancora immaginarli sempre insieme, al 5 bis di rue de Verneuil, 7° arrondissement, la tana.
Nel 1971 arriverà una bambina, Charlotte. Jane Birkin ha recitato fra gli altri anche per Jean-Luc Godard, Patrice Lecomte e Agnès Varda, e per Jacques Doillon, che sposerà dopo la separazione da Gainsbourg, e ancora la vedremo diretta da Bertrand Tavernier, Alain Resnais e Jacques Rivette… Tuttavia il suo curriculum risponde solo al suo volto, all’evidenza di questo. I concerti, poi lei in piazza contro il razzismo del Front National di Jean-Marie Lepen. E, restando all’ambito lavorativo, musicale, Paolo Conte, Manu Chao, Bryan Ferry, Caetano Veloso tra i compagni di strada artistica.
L’impegno in ambito sociale e umanitario come ambasciatrice di Amnesty International in Bosnia e Cecenia, i concerti in Cisgiordania e a Ramallah, l’adesione all’appello contro il riscaldamento globale pubblicato nel 2018 su “Le Monde”. Jane, fissa, imprigionata, ostaggio, come scarabeo, nell’ambra dell’età dell’oro della bellezza, che definire spettacolare è davvero poca cosa, il peso quasi tragico appunto dell’avvenenza, come sempre accade ai miti, Jane e la responsabilità, la colpa di invecchiare, agli occhi di chi l’avrebbe voluta per sempre ostaggio dei sogni notturni della propria generazione. Gli omaggi, il copia incolla del suo viso, le gambe, l’ovale del viso, la malinconia trattenuta, adesso ovunque sui social, come segno della più banale, sentimentale, ovvia incapacità interpretativa davanti alla sostanza della sua complessità, perfino del suo infranto interiore. Addio a ogni cosa bella.
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