mercoledì 29 gennaio 2025

Se questi sono uomini (e donne)


Marco Bresolin, La tratta d'Europa, La Stampa, 29 gennaio 2025

«Mi hanno arrestata il 20 agosto 2024, a Sfax sulla strada di Mahdia. Uscivo dal lavoro e stavo aspettando un bus. È passato un veicolo della Garde Nationale e mi hanno caricata senza chiedermi documenti né nulla. Io avevo una carta consolare del Camerun, ma loro l'hanno strappata e mi hanno caricato con violenza nel furgone dove c'erano altre 7 donne».
Inizia così il racconto di B.L, 39enne, arrestata in Tunisia perché colpevole di essere "black", nera, e poi finita in una prigione in Libia, venduta come una schiava alla frontiera non da bande di criminali, ma dagli agenti e dai militari del Paese guidato da Kais Saied. Quel "Paese sicuro" che da un anno e mezzo a questa parte riceve fondi dall'Unione europea per fermare le partenze verso l'Italia.
Quella della camerunense è una delle trenta testimonianze scioccanti raccolte in un rapporto che denuncia l'esistenza di una «tratta di Stato» in Tunisia, con i migranti che raccontano di esser stati arrestati dagli agenti della Garde Nationale e poi ceduti ai libici per una cifra che va dai 12 a 90 euro a persona. «Le donne costano di più perché vengono usate come oggetti sessuali». La Stampa ha consultato in anteprima il documento – frutto di un'indagine realizzata da un team di ricercatori internazionali RR, con il sostegno di Asgi, Border Forensics e On Borders – che oggi sarà presentato al Parlamento europeo da un gruppo di parlamentari, tra cui l'italiano Leoluca Orlando (Verdi). «Siamo di fronte a un'attività criminale svolta con la copertura e i fondi dell'Italia e dell'Unione europea», attacca l'ex sindaco di Palermo, che chiede «l'immediata sospensione di questi accordi».
Il riferimento è al Memorandum d'Intesa con la Tunisia firmato dalla Commissione nell'estate del 2023, che prevede 150 milioni di euro di assistenza finanziaria più 105 milioni per la gestione dei flussi migratori. Orlando punta il dito contro «un sistema emblematicamente rappresentato dal caso Almasri, torturatore di migranti sottratto a un ordine di arresto della Corte penale internazionale».
Secondo gli autori, che lavorano sul campo e che per questo hanno deciso di rimanere anonimi, il rapporto «aggiunge un anello a quanto già conosciuto: la responsabilità degli apparati dello Stato tunisino nella tratta di esseri umani alla frontiera libica». Attraverso i racconti dei migranti, i ricercatori hanno ricostruito quello che sembra essere un sistema strutturato che vede le autorità tunisine impegnate a pattugliare non solo le acque territoriali, ma anche le località della costa più vicine a Lampedusa, tra Susa e Sfax, con l'obiettivo di far sparire dalla circolazione i migranti di origine sub-sahariana, considerati da Saied «una minaccia all'identità arabo-islamica del Paese» e dai governi europei un problema da tenere lontano. I dati delle Ong tunisine dicono che tra il 2023 e il 2024 il governo di Saied ha bloccato 100 mila migranti «e una parte consistente – si legge nel report - è stata vittima di espulsioni verso la Libia e l'Algeria con caratteristiche e logiche che rimangono spesso invisibili».
Il meccanismo descritto si snoda attorno a cinque fasi: la "caccia al nero" e l'arresto, il trasporto verso i centri alla frontiera della Libia, la reclusione, la vendita ai libici e il trasferimento nei centri di detenzione in Libia. Il tutto accompagnato da violenze, torture, stupri e in alcuni casi omicidi. Secondo gli esperti dell'Asgi, l'associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, le testimonianze evidenziano una serie di violazioni del diritto internazionale, tra cui: crimini contro l'umanità, discriminazione razziale e incitazione all'odio razziale, respingimenti collettivi, riduzione in schiavitù, tortura e trattamenti inumani e degradanti, tratta e violenza di genere.
Alcuni migranti che hanno deciso di testimoniare sono stati intercettati dalla guardia costiera tunisina mentre erano in mare, altri invece sono stati arrestati in casa o sul luogo di lavoro, principalmente negli uliveti delle zone costiere, anche se provvisti di documenti di soggiorno. Perquisiti e spogliati dei loro effetti personali con metodi violenti, sono stati portati in quattro diversi centri di raccolta nei pressi Sfax in attesa di essere caricati sugli autobus in direzione dell'Algeria e soprattutto della Libia. «A bordo – ha rivelato B. A., 41 anni, ivoriano – ci hanno torturato e picchiato. Se hai sete e chiedi, ti picchiano. Ti legano stretto con delle fascette e il sangue non circola più. Non puoi neanche pisciare».
Stando ai loro racconti, il trasferimento è gestito direttamente dagli agenti della Garde Nationale, che poi li consegnano ai militari che operano nelle basi alla frontiera con la Libia. Dopo una detenzione che può durare fino a un mese, con violenze quotidiane, i migranti hanno raccontato della consegna ai libici attraverso una vera e propria vendita. In cambio di soldi o, a volte, di hashish. Ed è da qui poi che l'incubo prosegue nei centri di detenzione in Libia, dai quali esce solo chi riesce a farsi spedire dai familiari i soldi per il riscatto. «Nel nostro container – la testimonianza di un 22enne – ho visto morire almeno quattro persone. Noi poi dovevamo seppellirli».
ppartengo, su per giù, alla genera-zione di Albert Camus, alla generazio-ne che negli anni della maturità si trovò ad attraversare, avendolo oscuramente previ-sto ma non essendo riuscita a fermarlo prima che fosse troppo tardi, il tempo della «follia», per usare un'espressione ca-ra al nostro autore, o del «sangue d'Eu-ropa», per ricordare ancora una volta il titolo di un libro-simbolo: il tempo in cui accaddero quegli eventi straordinari (e terribili) che rimisero in questione tut-to quello in cui avevamo creduto, tutto quello che avevamo pensato sul destino dell'uomo, sul progresso storico, che le filosofie della storia del secolo scorso ave-vano considerato indefinito, sulla imman-cabile perfettibilità del genere umano, sul-le ragioni o non ragioni della esistenza, sul rapporto fra Dio e il mondo, fra uo-mo e uomo, e all'interno di ciascuno di noi fra l'uomo intimo e l'uomo politi-co. Erano gli anni in cui, non a caso, si era diffuso l'esistenzialismo nelle due versioni, laica e religiosa, una filosofia della finitezza, dell'angoscia, della situazione-limite, che io avevo interpre-tato per darmene una ragione come «fi-losofia del decadentismo». Sono gli anni in cui ci appare in tutta la sua estensione e intensità il «volto de-moniaco» del potere, e ci si presenta nel-le sue principali raffigurazioni storiche: l'ubris degli antichi, la libido dominan-di, di Sant' Agostino, la «volpe» e il «leo-ne» di Machiavelli, i due mostri, Levia-than e Behemoth, di Hobbes, la furia della distruzione di Hegel, l'elogio del boia di De Maistre, e per finire la «vo-lontà di potenza» di Nietzsche, col suo inevitabile compagno, il nichilismo. Di tutti coloro che hanno riflettuto su quegli accadimenti e ne hanno tratto te-mi di meditazione che non hanno perdu-to nulla del loro originario significato, Camus è stato forse colui che ne ha trat-to le conseguenze più radicali e si è po-sto le domande più tormentose. Tormen-tose, perché sono le eterne domande che non hanno risposta, o sono tali che la risposta, qualunque essa sia, rinvia im-mediatamente a un'altra domanda. Lo stesso Camus non ebbe la pretesa di ri-spondervi. Tra queste domande due soprattutto vorrei brevemente evocare: la domanda sul senso della storia e quella sul rappor-to fra etica e politica. Qual è il senso della storia? Caduto il mito del progresso, svelata la finzione della provvidenza, che per vie imperscru-tabili conduce a buon fine anche le azio-ni più malvage, la storia ha ancora un senso? C'è una ragione nella storia? Ma una storia senza Dio e senza ragione non diventa il regno dell'assurdo, e il suo sim-bolo non è più Prometeo o Ulisse, ma diventa Sisifo condannato a spingere su per la montagna un sasso che giunto al vertice riprecipita in basso? Il mito di Sisifo ricorda il passo di un autore che gli era caro, Dostoevskij: nelle Memo-rie del sottosuolo descrive la pena dei forzati che ogni giorno innalzano un muc-chio di sabbia che il giorno dopo viene abbattuto.' Dovendo un giorno tenere una lezio-ne su etica e politica mi venne fatto di citare due brevi battute di dialogo tratte da una pièce di Camus. Uno dei perso-naggi elogia il principio machiavellico che il fine giustifica i mezzi. L'altro ribatte: «Ma chi giustifica il fine?» Già, il pro-blema è proprio questo: chi giustifica il fine? Ammettiamolo pure: il fine buono giustifica anche il mezzo cattivo. Ma se anche il fine fosse cattivo? Nel celebre passo del cap. XVIII del Principe Ma-chiavelli afferma che della fede può non tener conto il principe che ha fatto «gran-di cose». Ma quali sono le grandi cose? Conquistare uno stato è una «grande co-sa»? La strage della Notte di San Barto-lomeo, che pur fu giustificata dal ma-chiavellico Gabriel Naudé, era una «gran-de cosa»? Ha ragione Camus: chi giusti-fica il fine? Il secondo passo: uno dei terroristi del dramma, Les Justes, per giu-stificare l'attentato che si accinge a com-piere, esalta la felicità della società futu-ra che nascerà dalla violenza rivoluzio-naria. Dora lo interrompe e gli dice: «E se così non fosse?» Verissimo: e se così non fosse? Quante volte nella storia «non è stato così». Le domande che si pose Camus sono le domande che non possiamo evitare di porci. Forse che il volto demoniaco del potere è scomparso? E la volontà di po-tenza? Queste domande Camus si pose con particolare chiaroileggenza, e con osti-nazione. Per questo la sua opera che, al-meno in Italia, suscitò meno strepito di quella di Sartre è forse oggi più attuale, perché il suo impegno è stato meno as-sillante, meno ossessivo, meno preoccu-pato di essere sempre sulla linea giusta (che poi troppo spesso ha dimostrato di essere quella sbagliata). Nel rapporto fra intellettuali e politi-ca Camus seppe rifuggire dalle due posi-zioni estreme, quella rigida e frigida di Benda, della separazione netta fra l'im-pegno per la verità e l'impegno per il mondo, e quella dell'intellettuale parte-cipe, o addirittura partigiano, che ritiene suo dovere essere sempre da una parte (di non aver dubbi di fronte a chi gli domanda: «E tu da che parte stai?»). Affascinato dai grandi e insolubili con-trasti dell'esistenza, Camus è stato uomo dai grandi contrasti interiori: un esempio di passione e di lucidità, di forte emoti-vità e insieme di rigore intellettuale, di estrosità e di riflessione, d'immaginazio-ne e di raziocinio (che appare se mai ta-lora sin troppo sottile). Patetico e insie-me logicamente implacabile: la sua fu una logica implacabile al servizio della dimostrazione dell'assurdo. Agitato dal-le furie e insieme calmo come un dio dell'Olimpo, senza speranza ma non di-sperato. La sua vita è stata un esempio di di-gnità, di dignità nella sofferenza.
ppartengo, su per giù, alla genera-zione di Albert Camus, alla generazio-ne che negli anni della maturità si trovò ad attraversare, avendolo oscuramente previ-sto ma non essendo riuscita a fermarlo prima che fosse troppo tardi, il tempo della «follia», per usare un'espressione ca-ra al nostro autore, o del «sangue d'Eu-ropa», per ricordare ancora una volta il titolo di un libro-simbolo: il tempo in cui accaddero quegli eventi straordinari (e terribili) che rimisero in questione tut-to quello in cui avevamo creduto, tutto quello che avevamo pensato sul destino dell'uomo, sul progresso storico, che le filosofie della storia del secolo scorso ave-vano considerato indefinito, sulla imman-cabile perfettibilità del genere umano, sul-le ragioni o non ragioni della esistenza, sul rapporto fra Dio e il mondo, fra uo-mo e uomo, e all'interno di ciascuno di noi fra l'uomo intimo e l'uomo politi-co. Erano gli anni in cui, non a caso, si era diffuso l'esistenzialismo nelle due versioni, laica e religiosa, una filosofia della finitezza, dell'angoscia, della situazione-limite, che io avevo interpre-tato per darmene una ragione come «fi-losofia del decadentismo». Sono gli anni in cui ci appare in tutta la sua estensione e intensità il «volto de-moniaco» del potere, e ci si presenta nel-le sue principali raffigurazioni storiche: l'ubris degli antichi, la libido dominan-di, di Sant' Agostino, la «volpe» e il «leo-ne» di Machiavelli, i due mostri, Levia-than e Behemoth, di Hobbes, la furia della distruzione di Hegel, l'elogio del boia di De Maistre, e per finire la «vo-lontà di potenza» di Nietzsche, col suo inevitabile compagno, il nichilismo. Di tutti coloro che hanno riflettuto su quegli accadimenti e ne hanno tratto te-mi di meditazione che non hanno perdu-to nulla del loro originario significato, Camus è stato forse colui che ne ha trat-to le conseguenze più radicali e si è po-sto le domande più tormentose. Tormen-tose, perché sono le eterne domande che non hanno risposta, o sono tali che la risposta, qualunque essa sia, rinvia im-mediatamente a un'altra domanda. Lo stesso Camus non ebbe la pretesa di ri-spondervi. Tra queste domande due soprattutto vorrei brevemente evocare: la domanda sul senso della storia e quella sul rappor-to fra etica e politica. Qual è il senso della storia? Caduto il mito del progresso, svelata la finzione della provvidenza, che per vie imperscru-tabili conduce a buon fine anche le azio-ni più malvage, la storia ha ancora un senso? C'è una ragione nella storia? Ma una storia senza Dio e senza ragione non diventa il regno dell'assurdo, e il suo sim-bolo non è più Prometeo o Ulisse, ma diventa Sisifo condannato a spingere su per la montagna un sasso che giunto al vertice riprecipita in basso? Il mito di Sisifo ricorda il passo di un autore che gli era caro, Dostoevskij: nelle Memo-rie del sottosuolo descrive la pena dei forzati che ogni giorno innalzano un muc-chio di sabbia che il giorno dopo viene abbattuto.' Dovendo un giorno tenere una lezio-ne su etica e politica mi venne fatto di citare due brevi battute di dialogo tratte da una pièce di Camus. Uno dei perso-naggi elogia il principio machiavellico che il fine giustifica i mezzi. L'altro ribatte: «Ma chi giustifica il fine?» Già, il pro-blema è proprio questo: chi giustifica il fine? Ammettiamolo pure: il fine buono giustifica anche il mezzo cattivo. Ma se anche il fine fosse cattivo? Nel celebre passo del cap. XVIII del Principe Ma-chiavelli afferma che della fede può non tener conto il principe che ha fatto «gran-di cose». Ma quali sono le grandi cose? Conquistare uno stato è una «grande co-sa»? La strage della Notte di San Barto-lomeo, che pur fu giustificata dal ma-chiavellico Gabriel Naudé, era una «gran-de cosa»? Ha ragione Camus: chi giusti-fica il fine? Il secondo passo: uno dei terroristi del dramma, Les Justes, per giu-stificare l'attentato che si accinge a com-piere, esalta la felicità della società futu-ra che nascerà dalla violenza rivoluzio-naria. Dora lo interrompe e gli dice: «E se così non fosse?» Verissimo: e se così non fosse? Quante volte nella storia «non è stato così». Le domande che si pose Camus sono le domande che non possiamo evitare di porci. Forse che il volto demoniaco del potere è scomparso? E la volontà di po-tenza? Queste domande Camus si pose con particolare chiaroileggenza, e con osti-nazione. Per questo la sua opera che, al-meno in Italia, suscitò meno strepito di quella di Sartre è forse oggi più attuale, perché il suo impegno è stato meno as-sillante, meno ossessivo, meno preoccu-pato di essere sempre sulla linea giusta (che poi troppo spesso ha dimostrato di essere quella sbagliata). Nel rapporto fra intellettuali e politi-ca Camus seppe rifuggire dalle due posi-zioni estreme, quella rigida e frigida di Benda, della separazione netta fra l'im-pegno per la verità e l'impegno per il mondo, e quella dell'intellettuale parte-cipe, o addirittura partigiano, che ritiene suo dovere essere sempre da una parte (di non aver dubbi di fronte a chi gli domanda: «E tu da che parte stai?»). Affascinato dai grandi e insolubili con-trasti dell'esistenza, Camus è stato uomo dai grandi contrasti interiori: un esempio di passione e di lucidità, di forte emoti-vità e insieme di rigore intellettuale, di estrosità e di riflessione, d'immaginazio-ne e di raziocinio (che appare se mai ta-lora sin troppo sottile). Patetico e insie-me logicamente implacabile: la sua fu una logica implacabile al servizio della dimostrazione dell'assurdo. Agitato dal-le furie e insieme calmo come un dio dell'Olimpo, senza speranza ma non di-sperato. La sua vita è stata un esempio di di-gnità, di dignità nella sofferenza.
ppartengo, su per giù, alla genera-zione di Albert Camus, alla generazio-ne che negli anni della maturità si trovò ad attraversare, avendolo oscuramente previ-sto ma non essendo riuscita a fermarlo prima che fosse troppo tardi, il tempo della «follia», per usare un'espressione ca-ra al nostro autore, o del «sangue d'Eu-ropa», per ricordare ancora una volta il titolo di un libro-simbolo: il tempo in cui accaddero quegli eventi straordinari (e terribili) che rimisero in questione tut-to quello in cui avevamo creduto, tutto quello che avevamo pensato sul destino dell'uomo, sul progresso storico, che le filosofie della storia del secolo scorso ave-vano considerato indefinito, sulla imman-cabile perfettibilità del genere umano, sul-le ragioni o non ragioni della esistenza, sul rapporto fra Dio e il mondo, fra uo-mo e uomo, e all'interno di ciascuno di noi fra l'uomo intimo e l'uomo politi-co. Erano gli anni in cui, non a caso, si era diffuso l'esistenzialismo nelle due versioni, laica e religiosa, una filosofia della finitezza, dell'angoscia, della situazione-limite, che io avevo interpre-tato per darmene una ragione come «fi-losofia del decadentismo». Sono gli anni in cui ci appare in tutta la sua estensione e intensità il «volto de-moniaco» del potere, e ci si presenta nel-le sue principali raffigurazioni storiche: l'ubris degli antichi, la libido dominan-di, di Sant' Agostino, la «volpe» e il «leo-ne» di Machiavelli, i due mostri, Levia-than e Behemoth, di Hobbes, la furia della distruzione di Hegel, l'elogio del boia di De Maistre, e per finire la «vo-lontà di potenza» di Nietzsche, col suo inevitabile compagno, il nichilismo. Di tutti coloro che hanno riflettuto su quegli accadimenti e ne hanno tratto te-mi di meditazione che non hanno perdu-to nulla del loro originario significato, Camus è stato forse colui che ne ha trat-to le conseguenze più radicali e si è po-sto le domande più tormentose. Tormen-tose, perché sono le eterne domande che non hanno risposta, o sono tali che la risposta, qualunque essa sia, rinvia im-mediatamente a un'altra domanda. Lo stesso Camus non ebbe la pretesa di ri-spondervi. Tra queste domande due soprattutto vorrei brevemente evocare: la domanda sul senso della storia e quella sul rappor-to fra etica e politica. Qual è il senso della storia? Caduto il mito del progresso, svelata la finzione della provvidenza, che per vie imperscru-tabili conduce a buon fine anche le azio-ni più malvage, la storia ha ancora un senso? C'è una ragione nella storia? Ma una storia senza Dio e senza ragione non diventa il regno dell'assurdo, e il suo sim-bolo non è più Prometeo o Ulisse, ma diventa Sisifo condannato a spingere su per la montagna un sasso che giunto al vertice riprecipita in basso? Il mito di Sisifo ricorda il passo di un autore che gli era caro, Dostoevskij: nelle Memo-rie del sottosuolo descrive la pena dei forzati che ogni giorno innalzano un muc-chio di sabbia che il giorno dopo viene abbattuto.' Dovendo un giorno tenere una lezio-ne su etica e politica mi venne fatto di citare due brevi battute di dialogo tratte da una pièce di Camus. Uno dei perso-naggi elogia il principio machiavellico che il fine giustifica i mezzi. L'altro ribatte: «Ma chi giustifica il fine?» Già, il pro-blema è proprio questo: chi giustifica il fine? Ammettiamolo pure: il fine buono giustifica anche il mezzo cattivo. Ma se anche il fine fosse cattivo? Nel celebre passo del cap. XVIII del Principe Ma-chiavelli afferma che della fede può non tener conto il principe che ha fatto «gran-di cose». Ma quali sono le grandi cose? Conquistare uno stato è una «grande co-sa»? La strage della Notte di San Barto-lomeo, che pur fu giustificata dal ma-chiavellico Gabriel Naudé, era una «gran-de cosa»? Ha ragione Camus: chi giusti-fica il fine? Il secondo passo: uno dei terroristi del dramma, Les Justes, per giu-stificare l'attentato che si accinge a com-piere, esalta la felicità della società futu-ra che nascerà dalla violenza rivoluzio-naria. Dora lo interrompe e gli dice: «E se così non fosse?» Verissimo: e se così non fosse? Quante volte nella storia «non è stato così». Le domande che si pose Camus sono le domande che non possiamo evitare di porci. Forse che il volto demoniaco del potere è scomparso? E la volontà di po-tenza? Queste domande Camus si pose con particolare chiaroileggenza, e con osti-nazione. Per questo la sua opera che, al-meno in Italia, suscitò meno strepito di quella di Sartre è forse oggi più attuale, perché il suo impegno è stato meno as-sillante, meno ossessivo, meno preoccu-pato di essere sempre sulla linea giusta (che poi troppo spesso ha dimostrato di essere quella sbagliata). Nel rapporto fra intellettuali e politi-ca Camus seppe rifuggire dalle due posi-zioni estreme, quella rigida e frigida di Benda, della separazione netta fra l'im-pegno per la verità e l'impegno per il mondo, e quella dell'intellettuale parte-cipe, o addirittura partigiano, che ritiene suo dovere essere sempre da una parte (di non aver dubbi di fronte a chi gli domanda: «E tu da che parte stai?»). Affascinato dai grandi e insolubili con-trasti dell'esistenza, Camus è stato uomo dai grandi contrasti interiori: un esempio di passione e di lucidità, di forte emoti-vità e insieme di rigore intellettuale, di estrosità e di riflessione, d'immaginazio-ne e di raziocinio (che appare se mai ta-lora sin troppo sottile). Patetico e insie-me logicamente implacabile: la sua fu una logica implacabile al servizio della dimostrazione dell'assurdo. Agitato dal-le furie e insieme calmo come un dio dell'Olimpo, senza speranza ma non di-sperato. La sua vita è stata un esempio di di-gnità, di dignità nella sofferenza.

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