mercoledì 15 gennaio 2025

Per Furio Colombo


Marco Damilano, Il sacerdote laico del giornalismo:l'intransigenza di Furio Colombo a sinistra, Domani, 14 gennaio 2025


 Here's to you, Nicola and Bart, rest forever here in our hearts... Perfino queste parole le aveva scritte lui, le aveva intrecciate, come si fa con un filo di perle, nella musica di Ennio Morricone e per la voce dell'amica Joan Baez, nel film di Giuliano Montaldo su Sacco e Vanzetti. Gli episodi cadevano durante le riunioni del mattino sui giovani redattori dell'“Unità”, con naturalezza. Lui con Che Guevara, lui con Bob Dylan, lo aveva sentito cantare Blowin' in the wind in un locale, lui inviato per Tv7 della Rai con Andrea Barbato con Bob Kennedy che arringava la folla arrampicato sul cofano della sua macchina, in Vietnam. Furio Colombo c'era sempre.

Se n'è andato ieri, a 94 anni (era nato il primo gennaio), nei giorni della tregua a Gaza, lui che è stato presidente di Sinistra per Israele, alla vigilia della giornata della memoria più importante, il 27 gennaio a ottant'anni dalla liberazione di Auschwitz, nell'Europa irriconoscibile in cui torna la banalizzazione del male. Era stato lui a volerla in Italia, presentò la proposta di legge alla Camera, appena eletto deputato, nel 1996, diventò legge nel 2000, prima che fosse istituita dalle Nazioni Unite. «Avevo scelto il 16 ottobre per ricordare, il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma del 16 ottobre 1943. Tullia Zevi, all'epoca presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, mi consigliò il cambio di data. Mi disse: abbiamo sofferto, ma non da soli. Un saggio suggerimento di inclusione».

ANSA
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Il secolo del giornalismo


Nel Novecento, il secolo del giornalismo, era stato tutto, come tutto, o quasi, era il giornalismo. Con Adriano Olivetti, nell'America dei diritti civili, nel cinema da attore aveva interpretato il ruolo dell'assistente di Enrico Mattei nel film di Francesco Rosi, con Gianmaria Volontè, nella realtà aveva invece a lungo affiancato l'avvocato Gianni Agnelli alla Fiat.

Alla Rai aveva vinto il primo concorso per i futuri funzionari, autori, giornalisti del servizio pubblico, negli anni Cinquanta, con la televisione che aveva appena cominciato le trasmissioni, l'azienda era saldamente in mano alla Democrazia cristiana, ma arrivavano Umberto Eco, Gianni Vattimo, Angelo Guglielmi, Liliana Cavani, Fabiano Fabiani, Emanuele Milano, Francesca Sanvitale e lui, Furio Colombo. Li chiamavano i corsari, perché usciti dai corsi diretti da Pier Emilio Gennarini, perché considerati la truppa d'assalto dell'amministratore delegato Filiberto Guala, che finì frate trappista, perché all'arrembaggio del futuro.

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Nel 1975 aveva intervistato per il nuovo inserto della Stampa Tutto Libri Pier Paolo Pasolini, nella sua casa all'Eur. Sul tavolo c'era La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia: «È bello, è bello il Majorana di Sciascia. È bello perché ha visto il mistero, ma non ce lo dice, hai capito? È un libro molto bello proprio perché non è una indagine ma la contemplazione di una cosa che non si potrà mai chiarire…».

Mentre già faceva buio Pasolini confidò a Colombo le sue inquietudini: «Ecco il seme, il senso di tutto. Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo all’intervista, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”». Di fronte, appuntò Colombo, Pasolini aveva il vuoto di quell’angolo di Roma, l’Eur metafisico al confine con le strade che portano al mare, verso Ostia e Fiumicino. E per Pasolini era l'ultimo pomeriggio di vita.

Colombo era tornato in Italia ed eletto deputato dell'Ulivo nel 1996, chiamato da Romano Prodi e Walter Veltroni. Con un record forse mai raggiunto, il deputato con il più alto numero di voti in dissenso dalla linea del gruppo di appartenenza. L'unico deputato del Pd (con il cattolico Andrea Sarubbi) a votare nel 2009 contro il trattato di amicizia tra Italia e Libia.

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Dietro il profilo di analista chirurgico delle trasformazioni del giornalismo, della nascente civiltà digitale e della società americana, cominciava a liberarsi in lui una passione politica sorprendente per gli avversari e forse anche per qualche amico, inarrestabile, con al suo fianco la moglie Alice Oxman.

Nel 2001 gli avevano affidato la missione impossibile, dirigere e resuscitare il giornale fondato da Antonio Gramsci e chiuso traumaticamente un anno prima, in tandem con Antonio Padellaro. L'Unità è stato il giornale che più ha amato. Primo titolo, il 28 marzo 2001: «Cento miliardi per comprare l'Italia». Si parlava di Berlusconi, ovviamente, in piena campagna elettorale. La striscia rossa in prima pagina, una bandiera. L'editoriale: «Libertà è lo spazio aperto di una nuova mattina che ci siamo trovati davanti quando sono state sgomberate le macerie della distruzione fascista. Felicità è lo stato d'animo con cui abbiamo vissuto, convinti di costruire un mondo giusto e mite, guidato con intelligenza e rispetto, con la capacità di fare cose nuove. Non avevamo voce e l'Italia dell'antifascismo ha conquistato voce per tutti. Ricordarlo significa fissare una linea non cancellabile della storia italiana».

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Centomila copie, un successo clamoroso. Alla guida di una ciurma composta dalla vecchia guardia e da giovani lanciati nella mischia, difesi dal direttore da ogni attacco, si fidava di loro, in «una battaglia fra un’impresa che insegue l’ossessione di chiudere (e ci prova molte volte) e la lunga marcia di giornalisti appassionati e capaci», ricorderà Colombo parlando del libro di Francesca De Sanctis, La storia al contrario. «Abbiamo due direttori indipendenti, un ufficio centrale dalemiano, una redazione anarchica», raccontavano nelle stanze del secondo piano di via Due Macelli a noi cronisti di altre testate che andavamo lì per raccontare quel miracolo editoriale e politico. Lo ricordo seduto nella stanza da direttore, impassibile nel caos, paziente, quasi giocoso. «Massimalismo è una parola senza senso», mi disse quella volta. «Il riformismo non è timidezza, è parlare con toni netti, drammatici. Se il riformismo esagera, sbatte sul muro, ma se è lieve, è inefficace».

Erano gli anni dei girotondi, di partiti di sinistra e società civile che si scontravano e si davano la mano, di manifestazioni e passioni, di queste onde disorientanti ed esaltanti Furio Colombo era un sacerdote laico, intransigente e inclusivo. Quella stagione finì e cominciò l'era del rancore e delle piccolezze in cui siamo immersi, anche quel giornale finì, Colombo fu tra i fondatori del Fatto quotidiano di Padellaro e di Marco Travaglio, da cui se n'è andato di recente per contrasti sulla linea tenuta sull'Ucraina.

All'epoca pensavamo che i giornali in dismissione fossero colpa di dirigenti politici conformisti o di imprenditori stoltamente ambiziosi e avventati, invece anticipavano quanto sarebbe successo anche a gruppi editoriali in apparenza più solidi, di giornalismo calpestato, di democrazia fragile. Una storia al contrario, ma Furio sapeva raccontare anche quella: «Niente paura. Anzi c’è molta paura, a cui però non si contrappone la mitica speranza, ma il saper camminare, nonostante tutto, sull’asse dell’equilibrio di una ragionevolezza misteriosamente colorata». Here's to you, rest forever here in our hearts.

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