lunedì 13 luglio 2015

Maria Maddalena in immagini


La tradizione cristiana, almeno a partire da Gregorio Magno [papa 590-604], confonderà la Maddalena con la peccatrice di cui Luca (7,36-50) dice che avrebbe bagnato di lacrime i piedi di Gesù, li avrebbe asciugati coi capelli e poi unti con profumo prezioso: la confusione forse fu favorita dal fatto che la Maddalena viene menzionata subito dopo questo episodio (Lc 8,2) e dall’associazione tra la possessione demoniaca da cui Gesù l’avrebbe liberata e la condizione di peccato. È stata inoltre confusa con Maria di Betania, che a sua volta viene descritta da Giovanni in un episodio simile a quello di Luca. (Letteratura europea Utet)




Giotto





Van der Weyden





Piero della Francesca






Tiziano





attribuito a Caravaggio






Simon Le Vouet
Artemisia Gentileschi





La Tour
La Tour





Domenichino

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http://www.womenpriests.org/magdala/mag_art.asp


domenica 12 luglio 2015

Arthur Rimbaud, Vocali





A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Un giorno ne dirò  le nascite latenti:
A, nero corsetto villoso delle mosche splendenti
Che ronzano intorno a crudeli fetori,



Golfi d'ombra; E, candori di vapori e di tende,
Lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi di umbelle;
I, porpore, sangue sputato, risata delle labbra belle
Nella collera o nelle ubriachezze penitenti;
U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,
Pace di pascoli seminati d'animali, pace di rughe
Che l'alchimia imprime nelle ampie fronti studiose;



O, la suprema Tuba piena di strani stridori,
Silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:
- O l'Omega, raggio violetto dei Suoi Occhi!

°°°

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu : voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes :
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,

Golfes d'ombre ; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
Lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d'ombelles ;
I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
Dans la colère ou les ivresses pénitentes ;

U, cycles, vibrement divins des mers virides,
Paix des pâtis semés d'animaux, paix des rides
Que l'alchimie imprime aux grands fronts studieux ;

O, suprême Clairon plein des strideurs étranges,
Silences traversés des Mondes et des Anges :
- O l'Oméga, rayon violet de Ses Yeux !


(1872) 


La letteratura su questo sonetto è tanta e di così varia qualità da far fremere chi debba ancora accingersi a tentare un commento. ... La sola chiave è probabilmente questa, ed è una chiave fantastica, poetica. Partendo dalle vocali come spunto e dai colori che gli suggeriscono, Rimbaud si abbandona, con una libertà che preannuncia i Derniers vers o le Illuminations, alle associazioni icastiche. (Ivos Margoni, Arthur Rimbaud Opere, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 386-87)





sabato 11 luglio 2015

Achille senza benzina

Stefano Benni

L'ira di Achille e la guerra di re Tsipro contro l'Europa

la Repubblica, 30 giugno 2015




ACHILLE attraversa correndo la vasta pianura della Tessaglia. Raggiunge un centauro che sta brucando tranquillo erbette miste.
Gli si rivolge ansante. O Chirone, mio saggio cavallo e umano maestro, sta accadendo qualcosa di strano e incomprensibile anche per un semidio quale io sono. Chirone (masticando radicchio) - E cosa, mio amato Achilletto? Achille (posando a terra lo scudo con grave rumore di pentolame) -
Stamane mi recai al tempio del dio Bancòmetro, ove c'è una roccia spaccata, sacra a mia madre Teti. Infilai la spada nella fessura per ottenere le monete d'oro necessarie alle mie spese. Ebbene, la fessura sputò fuori in malo modo la mia arma e disse con voce tonante: "Grexit ". Che significa?
Chirone
-Ahimè temevo un simile momento. E poi?
Achille
- Più volte inserii la spada con forti fendenti e la roccia non solo mi negò le monete ma si scosse irosa, e dietro a me c'era un fila di mortali che aspettava il turno e rumoreggiava e io gridai "indietro, pezzenti" e uno di essi fece con la lingua un rumore beffardo e vibrante, tipo....
Chirone
- So di cosa si tratta. E poi?
Achille
- Al decimo inserimento di spada, la roccia del dio Bancòmetro sussultò come per un terremoto e disse: «O Achille, come puoi tu chiedere danaro in presenza di eventi quali il defaulto della tua patria?».
Chirone
(scacazzando di paura)
- Proprio così disse?
Achille
-Proprio come ti ho riferito! E ora che posso fare? Come sai devo recarmi a Troia per combattere i nemici della Grecia. E senza oro non posso comprarmi né una lancia, né una corazza elegante né uno scudo adeguato, quello vecchio è tutto ammaccato... là tutti mi stanno aspettando, farò la figura del vigliacco.
Chirone
-Ahimè dunque non sai?
Achille
- Non so cosa ?
Chirone
- La guerra è sospesa.
Non c'è più una dracma. La navi tornano in patria. Ben altri sono ora i nemici che ci offendono...
Achille
- E chi più dei Troiani e di quel fetente di Ettore e di quella zoccolona di Elena?
Chirone
-Achille, Europa ci offese.
Achille
- Europa mia sorella? O quello che è, visto che Zeus non fa che inseminare fanciulle e spargere prole ovunque....
Chirone
- No, col nome Europa si designano le terre di Occidente, ove imperano barbari dalla cui stirpe nasceranno britanni e celti e crucchi e pure i romani, che Zeus ce ne scampi.
Achille
- E che c'entra il dio Bancòmetro?
Chirone
- Mi è difficile spiegarti,
Achille. Sappi che Agamennone, il re Tsipro, la regina Syriza e altri vennero a patti con questi abitanti dell'Europa e chiesero loro un prestito per attaccare Troia. Ma ora i barbari europei esigono la restituzione con umilianti richieste. Tsipro si è adontato e ha detto che mai e poi mai lo farà. Ma per i voleri di Krisis, dea dell'Economia globale ora rischiamo il defaulto, il fallimento e la miseria, per questo il sacro Bancòmetro non rilascia oro....
Achille
- Non capisco. Chi è Krisis? E cos'è l'economia globale?
Chirone
- Nessuno lo sa, ogni istante essa cambia nome e passa dalla fortuna alla catastrofe e dalla teoria alla follia, a volte dà i numeri, a volte parla oscura come la Sibilla. Essa è una divinità più potente di Zeus. Le Moire stesse ne hanno paura. Nascondono il fuso, il filo e le forbici per paura che gli vengano portati via. Le sue leggi stanno sopra agli uomini e agli dei. Solo Ade non la teme, perché nel suo regno ci sono decine di manager che gli consigliano gli investimenti.
Achille
- Tu mi prendi in giro Chirone. Non può essere più pericolosa di un leone odi un ciclope o di un'idra...
Chirone
- Lo è molto di più. I suoi tentacoli sono in tutto il mondo. Essa ci tiene legati alla sua lunga corda. Se la allenta, respiriamo, se la tira, ci strangola.
Achille
- Ma per Zeus e Poseidone, come cazzo funziona?
Chirone
- Essa è più misteriosa di Tiresia e Cassandra. Ti faccio un esempio. Se in un paese Krisis si nasconde, che accade?
Achille
- Ricchezza per tutti?
Chirone
- No! Più tasse, le banche ingrassano, gli speculatori accaparrano, e gli evasori esportano capitali, eccetera.
Achille
- E il popolo?
Chirone
- E il popolo spende e chiede prestiti ignaro che presto lo prenderà là dove la folgore di Zeus
non illumina. Nel kulikon.
Achille - L'avevo capito. E poi?
Chirone
- Quando le cose vanno peggio, Krisis balza fuori dal suo nascondiglio, e nessuno può restituire i soldi, e i consumi crollano e allora...
Achille
- Banche e speculatori e multinazionali vanno in rovina.
Chirone
- No, chiedono aiuto allo stato, si fanno finanziare, perché essi sono le colonne del tempio di Krisis, che non può mai crollare, e le agenzie di rating seminano il panico e gli economisti si accapigliano e straparlano, ebbri come Baccanti. E ci si prepara ai sacrifici.,,
Achille
- Ecatombi, sacrifici di agnelli e tori?
Chirone
- No, sacrifici di umani. Si tira la cinghia. Ma non tutti. Le banche si rimpinguano di soldi, gli speculatori arricchiscono con le loro trame, i manager fregano quello che possono, non si pagano più le tasse, e il popolo lo prende...
Achille - Là dove la folgore di Zeus...
Chirone
- Esatto. Ma è venuta l'ora fatale. L'Europa vuole i soldi, noi non possiamo ridarli. Quindi è guerra.
Achille
-E chi vincerà?
Chirone
- Nessuno vince mai del tutto. Le leggi di questa divinità sono così arcane da parere fasulle, e anche se essa si nutre di cifre e statistiche, a me sembra che sia in perenne balia di alea e vertigo. Ma alla fine il risultato è sempre lo stesso. Chi si era arricchito diventa ancora più ricco e chi era povero resta povero. La civiltà greca annaspa, mentre l'Europa divisa è sempre meno il centro del mondo e intanto i cinesi...
Achille
- Chi?
Chirone
- Niente, niente,
Achille
- Ma allora ribelliamoci!
Chirone
-Ahimè, mio iroso amico, non si può. Tutti siamo prigionieri di questo labirinto. Nessuno sa chi lo ha costruito, nessuno sa come uscire, Il Minotauro ormai è una leggenda, vi si aggirano mostri ben peggiori che sono per metà Lapo e metà Marchionne, e il drago Merkel, e il Grexit e il Defaulto...
Achille
- Chirone hai brucato ancora stramonio e marijuana?
Chirone
- No, purtroppo sono lucido. So soltanto che alla fine la folgore di Krisis ci rimbalzerà...
Achille
- Nel kulikon, va bene. Ma questo sarebbe progresso? Questo è il futuro per la mia patria e per l'Europa?
Chirone
- Nessun progresso! Sarà quasi un ritorno alla legge di natura, una guerra infinita di divinità avide e
mediocri. Quindi rassegnati o prode Achille. Non andrai a cercar gloria a Troia. Non abbiamo i soldi per mangiare, come potremmo averne per le spade?
Achille
- O Chirone, maestro, non ti riconosco più. I soldi per gli armamenti si trovano sempre, anche nelle crisi. E io non mi rassegno. Vedo un centauro venire all'orizzonte, su grande moto splendente. So chi è, è l'ateniese Varoufachio, aitante e stolto. Mi prenderà in sella e insieme andremo da questi uropei... e li affronteremo! Chi è il guerriero più forte tra loro?
Chirone
- Non saprei. Forse una donna.
Achille
-Ah, questa poi...
Chirone
- Si chiama Angela, figlia di Odino e Bundesbank... grande è il suo potere... Non puoi affrontarla...
Achille
(saltando sulla sella di Varoufachio e bruciandosi il tallone con la marmitta) - Ahia! Vedremo. Perquanto le leggi di Krisis siano misteriose e assurde, e la dea sia difesa da migliaia di titani, truffatori, speculatori, evasori e da agenzie di rating e segreti bancari, io entrerò in Europa come un uragano, e farò fuori tutti...
Chirone
- Achille, Achille, non andare...
Achille
- Devo. Su mio prode centauro Varoufachio. Perché non parti?
Varoufachio
- È finita la benzina.
Non hai cinque euri?
E così restano, immobili e eroici in mezzo alla vasta pianura assolata, mentre Zeus e i cinesi se la ridono.

Petrarca, in morte di Laura

E' il primo componimento del Canzoniere in morte di Laura, quello in cui si annuncia l'evento. Laura morì ad Avignone il 6 aprile 1348, intorno all’ora prima, a ventun anni esatti dall'incontro con il poeta. Questi apprese la notizia a Parma soltanto il 19 maggio, e subito la annotò sulla prima pagina della sua edizione delle opere di Virgilio: «Laura, illustre per le sue virtù e lungamente celebrata nelle mie poesie, apparve per la prima volta ai miei occhi al principio della mia adolescenza, l’anno del Signore 1327, il sei di aprile nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, di prima mattina; e nella stessa città, nello stesso mese d’aprile, nella stessa ora prima del giorno sei dell’anno 1348, la luce della sua vita è stata sottratta alla luce del giorno». La rievocazione di Laura passa dal generico compianto per la bellezza perduta al ricordo specifico dell’ultimo incontro con lei, eccezionalmente pieno di speranze destinate a essere cancellate dalla sorte. 

 

CCLXVII

Oimé il bel viso, oimé il soave sguardo


















Oimé il bel viso, oimé il soave sguardo,
oimé il leggiadro, portamento altèro!
Oimé il parlar ch’ogni aspro ingegno e fero
facevi umìle, ed ogni uom vil gagliardo! 4
Et oimé il dolce riso onde uscìo ’l dardo
di che morte, altro bene omai non spero!
Alma real, dignissima d’impero,
se non fossi fra noi scesa sì tardo! 8
Per voi convèn ch’io arda e ’n voi respire;
ch’i’ pur fui vostro; e se di voi son privo,
via men d’ogni sventura altra mi dole. 11
Di speranza m’empieste, e di desire,
quand’io parti’ dal sommo piacer vivo;
ma ’l vento ne portava le parole. 14

Parafrasi

Oimè il bel viso, oimè il dolce sguardo,
oimè il portamento raffinato e nobile;
oimè le parole con cui rendevi umile ogni carattere
duro e selvatico, e coraggioso ogni uomo vile.
e oimè il dolce sorriso, con cui mi scagliaste la freccia
dalla quale ormai non spero di ottenere altro bene che la morte:
o anima regale, degna dell’impero,
se non foste nata tanto tardi!
E’ bene che io vi ami, che io viva per voi,
perché io sono stato sempre vostro; e voi ora non ci siete più,
per ogni altra sventura provo meno dolore.
Quando sono andato via da voi suprema gioia ancor viva,
mi avete riempito  di speranza e di  desiderio,
ma il vento portava via le parole.




Claudio Monteverdi, Madrigali. Libro VI, n. 6, a 5 voci e basso continuo 

https://www.youtube.com/watch?v=SLfz0FXD9cg

°°°

Emblema del tormento amoroso 

... lo spunto reale è, per il Petrarca, non più che emblematico: gli serve, cioè, per stabilire fin dall’inizio un distacco dal personaggio femminile della lirica erotica dello stilnovo e di Dante, quasi ipostasi della divinità, e, comunque, sempre manifestazione sensibile ed epifania di una figura divina, che partecipa essenzialmente del cielo e indica all’amante la strada della purificazione e della salvezza. Ma al di là di questo momento, tuttavia fondamentale, il «personaggio» di Laura è molto più lontano delle donne stilnoviste (di Beatrice) da ogni ambito di concreta esperienza: Beatrice può manifestarsi sensibilmente in exempla, nei quali segnala la propria condizione divina, di Laura non riconosciamo mai un possibile episodio, un istante di vita, una scena in cui agisca o appaia. Il fatto è che Laura è nel canzoniere totalmente risolta in emblema. Per questo si fissano di lei i più generali caratteri decorativi, i capelli biondi, la mano bianca, le belle membra, che disegnano l’idea stessa della femminilità quale molti secoli di poesia occidentale ripeteranno fedelmente (almeno fino all’età barocca). In quanto emblema, non esiste un paesaggio intorno a lei, che, anzi, risolve in sé il paesaggio: è questo il senso dei giochi verbali su l’«aura», «l’auro», il «lauro», ecc., che ritornano costantemente nella trama dei Rerum vulgarium fragmenta. Le indicazioni dei luoghi, delle stagioni, della natura sono sempre in funzione della predicazione unica, totale di quell’emblema amoroso che è Laura: la quale esemplifica allora l’intera possibilità di dire intorno all’amore, sia nel momento dello slancio e della dichiarazione, sia in quello, strettamente al primo congiunto e inevitabilmente presente per la possibilità stessa di fare poesia d’amore, rappresentato dalla delusione, dal tormento, dal rovello, dalla repulsa, dalla disperazione dell’impossibilità e della lontananza. Tutta la dialettica della «bella fera» ha le sue radici nell’emblematizzazione di Laura a luogo in cui si compendia tutto lo sperimentabile amoroso: la contemplazione della bellezza e la fuga della donna, il sorriso e l’ira, la vita e la morte. Si comprende allora come sia assolutamente necessaria la divisione del Canzoniere fra vita e morte di Laura: la morte di Laura non è tanto un fatto biografico, quanto la manifestazione estrinsecamente clamorosa dell’inevitabile presenza dello strazio e della disperazione in quella totalità d’esperienza erotica che il Petrarca intende raccogliere intorno all’emblema di Laura. A questo punto, il Petrarca può rendere Laura anche emblema della gloria (Laura = lauro = laurea), se è vero che Laura assorbe nella sua funzione emblematica ogni possibile sezione del reale che il Petrarca consideri praticabile. A un certo punto, il rapporto di pentimento dell’errore rappresentato dall’«amar cosa mortale» e la confessione a Dio saranno ancora sotto il segno di Laura, in quanto anche il contrasto spirituale rappresenta un elemento di quello strazio che l’amore porta con sé e che nell’emblema di Laura si raccoglie. Non c’è, allora, nessun distacco fra la Laura del Rerum vulgarium fragmenta e la Laura dei Trionfi (soprattutto il Triumphum Amoris, il Triumphum Pudicitiae, il Triumphum Mortis, dove è descritta mirabilmente la morte di Laura come emblema della morte in assoluto). Nel decorativismo gotico dei Trionfi appare ancora più chiara la funzione di emblema totale dell’amore come misura del rapporto con il reale che Laura rappresenta per il Petrarca.

Letteratura europea Utet



venerdì 10 luglio 2015

Chi muore e chi no: l'abisso della solitudine

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Non muore nessuno

di Christian Raimo
 
Non muore la madre, né il padre accorso immediatamente
sul luogo dove è avvenuto tutto, né i nonni, né nessuno
dei fratelli, se ha fratelli, o dei cugini, nessun parente,
anche lontano. Non muore l’addetta alla metro, non muore
nessun collega del pomeriggio, né del turno successivo.
Non muoiono gli altri passeggeri dentro l’ascensore,
né l’addetto alla manutenzione che ha eseguito la manovra
anomala – adesso dicono – per eccesso di generosità. Non muore
l’assessore alla mobilità, non muore il sindaco, nessuno
della giunta muore. Non muoiono i curiosi che son rimasti
accanto più di un’ora alla balaustra, e non muoiono nemmeno
quelli che hanno urlato vattene appena hanno visto il sindaco
arrivare. Non muoiono i vigili del fuoco, i vertici
dell’azienda dei trasporti, la procura, i magistrati
che hanno aperto già un’indagine. Nessun giornalista muore,
né i fotografi, i cronisti, quelli della televisione.
Non muore più il prefetto, il presidente alla regione,
non muore il direttore del famoso movimento genitori,
non muore nessuna mamma e nessun padre, nessun compagno
della scuola dell’infanzia, l’amichetto dell’asilo, nessuno
di quelli che lo conoscono, anche poco. Non muore
il controllore. La studentessa che per ultima è uscita
dalla metro, lei non muore; né il politico che dice:
addio angelo mio; né la senatrice che s’indigna e sbraita
contro la manutenzione, contro chi ha fatto i collaudi.
Nessuno di loro si fa prendere dal panico, si divincola,
prova a saltare nello spazio tra i due piani mentre si apre
un portello all’improvviso, nessuno di noi cade nel vuoto,
precipita per venti e passa metri nel vano ascensore.
Non morirà la folla al funerale, né muore la città
nel giorno di lutto appena dichiarato. Nessuno muore
nei minuti di silenzio.

giovedì 9 luglio 2015

Monica Bardi, Luca, il suo mondo, i suoi amici



Anche se quello di fb non è un balcone da cui mi affaccio spesso, ritrovo qui stamattina, svegliandomi all'alba del giorno in cui Luca avrebbe compiuto 54 anni, tante parole che mi scaldano il cuore. E' una parte consistente di quella rete di affetti e di coraggio che ci ha consentito in questi dieci anni di non cadere nel vuoto della disperazione e nel sacco della malattia. Ho tirato fuori una foto di Luca bambino seduto al banco di scuola. Ha il grembiule e in mano una penna un po' sollevata dal foglio. Le sopracciglia ben disegnate, che ho cercato di imprimermi bene nella memoria nelle ore dell'agonia. Quella penna si è poi posata su molti fogli e, come ha ricordato Guido Montanari ieri sera, è stato uno strumento duttile e tagliente. Una penna che ha saputo dare forma al racconto dell'accoglienza dei profughi, a memorie familiari e storiche, al racconto di luoghi lontani (dall'Ucraina all'Afghanistan e alla Somalia), alla denuncia delle mistificazioni e della falsità (per la Tav come per lo smercio del marchio della "bontà"). Quel bambino non sapeva, non sa. Ma l'espressione seria, concentrata, attenta, racconta molte cose sulle origini delle molte strade percorse, con lo sguardo vigile di chi vuole capire e a occhi aperti si tuffa nella vita "a testa in giù". Come ho detto ieri. è stato Luca stesso a descriversi in questo modo, in "Piove all'insù": "Sedici anni, più o meno, voglia di urlare e di portarmi una ragazza pulita dentro quel mondo di urla spine spigoli in cui mi sentivo ficcato a testa in giù". Luca ha percorso davvero tutta la vita "a testa in giù" e io (la ragazza pulita) l' ho seguito, finché è stato difficile, in molte imprese difficili. Perché il suo motto era per davvero, come ci ha spiegato lui stesso nella "lettera alle pulci", SI PUO' FARE. Si poteva inseguire un amore con ardore donchisciottesco e romantico (la madre dovette spedirlo a fare un viaggio perché si togliesse "la ragazza pulita" dalla testa); ma si poteva anche provare a risvegliare mio padre dal coma dopo un'operazione all'aorta (e ci riuscì davvero), importare 365 profughi dalla ex Jugoslavia (e farne passare 29 da casa nostra), affrontare una malattia mortale. Per lui si poteva sempre "fare" al di là di ogni evidenza e di ogni compromesso. E ha fatto davvero tantissime cose, sentendosi anche una persona fortunata e felice (quando le condizioni oggettive erano quelle di una lunga marcia in salita). Lo so che è facile scivolare nel fossato della retorica e lui non lo vorrebbe. Ma pensare il mondo senza le meccaniche dell'intelligenza di Luca e senza i battiti del suo cuore generoso per me è molto difficile. Ci mettemmo insieme nel 1979 e trentasei anni sono una vita, sono la parte più consistente della mia vita. Si è meritato tutto e, come ha detto il suo amico Lorenzo Fazio, si sarebbe meritato anche di più: ma poi riusciva sempre a dire la verità, a indispettire, a essere lucido (cosa che non è di questo mondo e di questi tempi). Ma tutte queste cose, amici di una vita, voi le sapete e allora forse la cosa più saggia è abbracciarvi tutti, senza dimenticare nessuno. Siete i compagni con cui abbiamo navigato nella bonaccia e nella tempesta, tutti diversi ma tutti solidali, pronti e pieni di affetto. Tutto il mondo del d'Azeglio, che ha impresso il marchio indelebile sulle nostre vite, il comitato profughi ex Jugoslavia (una sua geniale invenzione il "permesso turistico per motivi umanitari" con cui tirò fuori dall'inferno della guerra molte persone), gli allievi di ogni scuola e di ogni tipo, i fans, i lettori, i colleghi dei giornali in cui ha lavorato. Mi siete passati davanti uno a uno in questi giorni, in una sorta di "rivista militare" che a lui sarebbe molto piaciuta (come la preghiera dell'alpino della quarantesima batteria). Lo avete accompagnato nel passaggio difficile di cui parlammo molte volte in questi anni in vario modo (dal grottesco al tragico al faceto) per poi concludere, qualche giorno fa con un "non farà poi male". Un altro SI PUO' FARE come un guanto di sfida gettato in faccia alla morte. Ha vinto lui, amici, sarete tutti d'accordo. E vi ringrazio tutti, dal primo all'ultimo, per averlo accompagnato (nel modo a lui più congeniale, fra preghiere bosniache e fette di anguria, musica e parole che abbiamo provato a versare nelle sue orecchie). Non sapete il bene che mi ha fatto attraversare i vostri sguardi profondi e grati, disperati e allegri, per strapparmi un sorriso che proprio non veniva, perché, come diceva credo Machiavelli (alias il professor Caldi) "rido e il riso non entra dentro, piango e il pianto non esce fuori". Un abbraccio fortissimo

martedì 7 luglio 2015

Luca Rastello scrittore

... Luca Rastello è stato uno dei maggiori narratori della "guerra in casa", ossia alle nostre porte, nella ex Jugoslavia. Tuttavia il giornalismo d'inchiesta, quello autentico, non la fuffa da talk show di certi "specialisti" che ammorbano i canali televisivi, era la sua autentica passione. Che traslava in un racconto continuo, il quale si faceva letteratura viva, senza per questo diventare narrazione fantasiosa. E' il reale, sembrava volerci dire, che riesce a superare le nostre più vivaci ipotesi. Non di meno, il suo stile era sobriamente disincantato rispetto alle mitologie che attraversano (ancora) certe parti politiche, bisognose di autoingannarsi. Un libro come "i buoni" è un buon vademecum, abrasivo come lo può essere unicamente un testo che ti dice che devi imparare a camminare da solo, con le tue gambe, poiché maîtres à penser, soloni e narcisi parlano di "collettività" pensando che coincida con la propria persona. Costruendoci sopra un vero mercato del sentimento politico. Luca ci dice che spesso rimaniamo soli, cosa che ci angoscia. Ma che la nostra solitudine può essere il punto di partenza non di una nostalgia senza rimedio bensì della capacità di congedarci da una parte di noi stessi per diventare qualcosa d'altro. Non si tratta di rinnegare e neanche di rimuovere ma di capire che ci sono stagioni dell'esistenza che, come tali, vanno affrontate con la giusta dose di disincanto, senza cadere nella malattia del cinismo. Riposa in pace, dunque. Noi cercheremo di proseguire il tuo lavoro, sia pure con la modestia che ci deve appartenere. (Claudio Vercelli)

Goffredo Fofi
La voce libera di Luca Rastello
Internazionale, 7 luglio 2015

Scompare con Luca Rastello la voce libera di una persona d’eccezione, che ha avuto tra i suoi grandi meriti anche quello di salvare, con pochi altri, l’onore della generazione cresciuta negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, nel pieno di un forte scontro sociale e poi dentro il riflusso e nel vivo di una radicale mutazione della scena politica causata dalla radicale mutazione dell’economia e dalla totalizzante invadenza dei nuovi mezzi. E insieme a rarissimi altri di salvare l’onore (forse insalvabile da tempo) del nostro giornalismo.
Ho conosciuto Luca assai presto, nella redazione dell’Indice, quando quella rivista era nei suoi primi anni e aveva ambizioni che andavano oltre il ristretto cerchio universitario torinese. In quegli anni (gli ottanta) due erano i giovani più promettenti espressi da quelle pagine, lui e Alessandro Baricco, che scelse una strada molto diversa dalla sua.
Dell’Indice Luca fu per un breve tempo anche direttore, nella vana impresa di rimetterla al passo con i problemi dell’epoca, e ricordo con qualche commozione che, quando fu incaricato di quest’impresa impossibile, venne con me a trovare Nuto Revelli a Cuneo come per averne una benedizione, un’investitura che andasse di pari passo con quella di un’altra grande resistente, Bianca Guidetti Serra.
Gli interessi del giovane Luca vertevano sulla letteratura dei paesi dell’est europeo, e fu trattando di questa che cominciò a collaborare con Linea d’ombra, spostandosi più tardi dalla letteratura alla politica (all’economia, alla società) ma senza rinunciare all’amore per i buoni romanzi e alla curiosità per i nuovi scrittori.
La svolta fu la guerra fratricida nella ex Jugoslavia (ma tutte le guerre sono fratricide e tutte sono “civili”, ci hanno detto i classici), quando la seguì come inviato sui luoghi ma anche come operatore sociale a Torino, attivo nell’assistenza ai profughi, ai cacciati, agli esuli.
Raccontò quest’esperienza in La guerra in casa (1998), un saggio-narrazione di eccezionale intelligenza e rigore morale, i due caratteri che più lo distinsero. Vi si esprimeva una convinzione che non è mai venuta meno, di non fare mai il reduce, di abitare appieno il proprio presente.
Alla confluenza tra inchiesta e saggio, gli fecero seguito Io sono il mercato (Chiarelettere; sull’economia della droga), La frontiera addosso (Laterza; sui diritti dei rifugiati), Binario morto (Chiarelettere; sull’assurdità della Tav, che è anche il libro più onesto tra quanti hanno cercato di raccontare la risposta dei no Tav).
Con il tempo, ci si renderà conto che questi libri sono tra i pochi da salvare nella marea di carta inutile e predicatoria – e quasi sempre ipocrita – che i giornalisti italiani e i loro fratelli guru hanno dedicato a questi argomenti fondamentali, per farsene belli e non per la ricerca della verità e l’incitamento a una reazione limpida e attiva.
Allo stesso modo, si può essere certi che tra i pochissimi romanzi che resteranno dei mille che hanno affrontato gli argomenti più forti del nostro tempo, saranno in prima fila i due che egli ha scritto, tornando alla sua prima vocazione, Piove all’insù (Bollati Boringhieri 2006) e I buoni (Chiarelettere 2014), il primo sulla “vera storia” della sua generazione (e gli anni del movimento e poi del terrorismo e poi dell’accettazione) e il secondo sull’ipocrisia che, volenti o no, ha riguardato e riguarda coloro che in questi ultimi decenni hanno scelto di occuparsi del prossimo, partendo da motivazioni alte e finendo nella costruzione di nuovi aree di privilegio e nelle povere pratiche della sopravvivenza, nonché della guerra tra poveri.
Del primo romanzo si colse la qualità artistica più facilmente che del secondo, variamente osteggiato da coloro di cui trattava, appunto “i buoni”. Ma I buoni resta anzitutto un grande romanzo “dostoevskiano”, forse unico nella nostra letteratura.
Sulla figura e l’opera di Luca Rastello si dovrà tornare spesso, nei prossimi tempi, perché sono tra le più belle e più esemplari tra quelle che hanno agito in questi anni e hanno cercato di investigarne le tensioni, gli interessi, le brutture e disgrazie e le pochissime grazie, così come si è finito per tornare così spesso a un’altra figura esemplare della generazione appena precedente la sua, quella di Alex Langer, altro amico indimenticabile.
La sua limpidezza morale, la franchezza delle sue polemiche (assumendosi tutta la fatica del rispetto verso gli avversari), la sua bravura “tecnica” di giornalista in anni in cui il buon giornalismo è andato morendo, la sua capacità di leggere i movimenti della storia e dell’economia (le guerre per l’energia che stanno alle spalle di tutto), la sua ostinazione nel cercare anche tra i “buoni” i buoni veri così come li è andati trovando anche tra i reietti, la sua capacità di fare di tutto questo narrazione e comunicazione chiarificatrici e coinvolgenti, il suo umano calore privo di qualsivoglia calcolo e opportunismo, e infine la sua guerra contro una malattia per la quale lo si dava per spacciato già una dozzina di anni fa e contro la quale lottò instancabilmente – lavorando in ogni pausa lunga o breve concessa dal dolore sostenuto da un grandissimo amore per la vita e dalla convinzione di poter portare un contributo anche a battaglie che si sospettano già perdute.
Addio, Luca, i tuoi pareri e le tue conoscenze, i tuoi consigli ci mancheranno tantissimo. Ti salutiamo abbracciando le tue splendide figlie, che così tanto hai amato. 

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Andrea Cortellessa
Un coraggio da fantascienza. Ricordo di Luca Rastello
  Le parole e le cose, 7 luglio 2015


  E così, alla fine, l’ha avuta vinta la scienza. Ma Luca Rastello, che invece tanto amava la fantascienza, ha tenuto duro così a lungo che avevamo finito per abituarci al miracolo: noi, che ai miracoli siamo stati educati a non crederci. Senz’altro era più laica di me l’amica comune che ci aveva presentati, Lidia De Federicis, che negli ultimi tempi mi telefonava essenzialmente per parlarmi di due suoi amici (che ora, come lei, non ci sono più) i quali, per motivi diversi, la riempivano di stupore: uno era Nico Orengo e l’altro era appunto Luca Rastello. Ogni volta Lidia mi ripeteva che non si poteva attribuire ad altro che a un miracolo, appunto, la sua sopravvivenza: tale da lasciare stupefatti i medici che l’avevano in cura. Quando il cancro l’aveva aggredito, quei medici gli avevano dato al massimo sei mesi di vita; da allora, erano passati sei anni. E altri quattro ne sono passati, se è per questo, da quando Lidia ci ha lasciati. In questi dieci anni in proroga – vissuti bruciando al doppio della luce, come il replicante in quel film che, scommetto, gli piaceva – il giornalista Rastello aveva fatto in tempo a fare una “muta” che tanti, troppi suoi colleghi hanno tentato e continuano a tentare invano: ed era divenuto lo scrittore Rastello. Il giornalista era un eccellente giornalista (e quello, fino alla fine, era tornato a essere; lavorava nella redazione torinese della «Repubblica», e negli ultimi anni ha pubblicato reportages importanti, anche in volume: sulla famigerata linea Torino-Lione, sulle narcomafie, sulla lobby dei diritti umani…) ma lo scrittore, col suo primo libro di narrativa, aveva messo d’accordo un po’ tutti: chi aveva scritto Piove all’insù, per quanto lo si possa dire di un nostro contemporaneo, era un grande scrittore.
Che fosse un tipo fuori del comune lo aveva già mostrato, in effetti, col suo primo libro: un reportage dai Balcani doloroso e tagliente, che non faceva sconti a nessuno e che era uscito proprio alla vigilia di quel 1999 in cui la sinistra italiana di governo, violando l’articolo 11 della Costituzione, con me, per quel che valeva, aveva chiuso. Lo incontrai proprio in quelle settimane furibonde, mentre piovevano bombe su Belgrado, nella redazione dell’«Indice» di cui per breve tempo fece il direttore e al quale all’epoca, grazie all’affetto di Lidia, collaboravo intensamente. Aveva insistito lei, ovvio, perché ci conoscessimo di persona, e ricordo benissimo quel nostro primo incontro. Cominciò come uno scontro, finì con un abbraccio. Avevo letto La guerra in casa, naturalmente, e lo avevo trovato tanto importante quanto ambivalente. Con l’arroganza dei miei trent’anni partii lancia in resta; lo sfidai su tutto, inossidabile di ragioni che lui con lucida pazienza, incuriosito e forse un po’ divertito dalla mia esagitazione, smontava una dopo l’altra. Poche volte ho avuto modo di assistere tanto plasticamente alla demolizione di un’ideologia sulla base dell’esperienza diretta; e purtroppo, nella circostanza, il demolito ero io.
Malgrado allora Rastello mi avesse tanto impressionato, quando nel 2006 apparve da Bollati Boringhieri Piove all’insù, fu una sorpresa anche per me. Perché la scommessa di quel libro (come scrissi nella recensione che pubblicò «Tuttolibri»...) era, per uno scrittore italiano della sua generazione (Rastello era nato nel ’61), non una scommessa bensì la scommessa. E la cosa da fantascienza è che quella scommessa impossibile Rastello, against all odds, l’aveva vinta. Andai a trovarlo nella sua casa di Torino, insieme a un altrettanto ammirato Daniele Giglioli. Volevamo fargli un’intervista, non ricordo più per quale sconsiderato progetto editoriale, poi naturalmente naufragato. E gli rubammo un intero pomeriggio, di quel suo prezioso tempo in proroga. Ma Rastello, anzi Luca, sembrava contento. Contento di spiegare come era nato quel libro, da dove veniva, cosa voleva essere.
Quel nostro secondo incontro mi impressionò come e più del primo. Eppure non ci siamo più visti. Nel suo ultimo anno Luca ha scritto un altro libro che veniva a sua volta da lontano, e al quale con tutta evidenza annetteva grande importanza, I Buoni. Non mi convinse. Forse gli aveva dato persino troppa importanza; il fatto – cui, accettato il miracolo, ormai non pensavo più – è che quel libro, con ogni probabilità, lui sapeva sarebbe stato l’ultimo. I registri del reportage e del romanzo, che nei due libri precedenti avevano raggiunto – ciascuno per suo conto – l’eccellenza, mi pareva non fossero riusciti a mescolarsi del tutto; e spesso faceva capolino un’intenzione polemica “a chiave” che chi conosceva le persone, e le situazioni, ci mise pochissimo a denunciare (non senza, magari, qualche strumentalità). Le polemiche furono violente, e Luca ci rimase male; in minima parte, temo, anche per la mia freddezza. Così io resto qui, ora, coi suoi libri, e con la faccia rossa. Non solo per quella mattina all’«Indice».


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http://www.eastjournal.net/lettera-in-memoria-di-luca-rastello/61900