Goffredo Fofi
La voce libera di Luca
Rastello
Internazionale, 7 luglio 2015
Scompare con Luca Rastello la voce libera di una persona d’eccezione, che ha avuto tra i suoi grandi meriti anche quello di salvare, con pochi altri, l’onore della generazione cresciuta negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, nel pieno di un forte scontro sociale e poi dentro il riflusso e nel vivo di una radicale mutazione della scena politica causata dalla radicale mutazione dell’economia e dalla totalizzante invadenza dei nuovi mezzi. E insieme a rarissimi altri di salvare l’onore (forse insalvabile da tempo) del nostro giornalismo.
Ho conosciuto Luca assai
presto, nella redazione dell’Indice, quando quella rivista era nei
suoi primi anni e aveva ambizioni che andavano oltre il ristretto
cerchio universitario torinese. In quegli anni (gli ottanta) due
erano i giovani più promettenti espressi da quelle pagine, lui e
Alessandro Baricco, che scelse una strada molto diversa dalla sua.
Internazionale, 7 luglio 2015
Scompare con Luca Rastello la voce libera di una persona d’eccezione, che ha avuto tra i suoi grandi meriti anche quello di salvare, con pochi altri, l’onore della generazione cresciuta negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, nel pieno di un forte scontro sociale e poi dentro il riflusso e nel vivo di una radicale mutazione della scena politica causata dalla radicale mutazione dell’economia e dalla totalizzante invadenza dei nuovi mezzi. E insieme a rarissimi altri di salvare l’onore (forse insalvabile da tempo) del nostro giornalismo.
Dell’Indice Luca fu per un breve tempo anche direttore, nella vana impresa di rimetterla al passo con i problemi dell’epoca, e ricordo con qualche commozione che, quando fu incaricato di quest’impresa impossibile, venne con me a trovare Nuto Revelli a Cuneo come per averne una benedizione, un’investitura che andasse di pari passo con quella di un’altra grande resistente, Bianca Guidetti Serra.
Gli interessi del giovane Luca vertevano sulla letteratura dei paesi dell’est europeo, e fu trattando di questa che cominciò a collaborare con Linea d’ombra, spostandosi più tardi dalla letteratura alla politica (all’economia, alla società) ma senza rinunciare all’amore per i buoni romanzi e alla curiosità per i nuovi scrittori.
La svolta fu la guerra fratricida nella ex Jugoslavia (ma tutte le guerre sono fratricide e tutte sono “civili”, ci hanno detto i classici), quando la seguì come inviato sui luoghi ma anche come operatore sociale a Torino, attivo nell’assistenza ai profughi, ai cacciati, agli esuli.
Raccontò quest’esperienza in La guerra in casa (1998), un saggio-narrazione di eccezionale intelligenza e rigore morale, i due caratteri che più lo distinsero. Vi si esprimeva una convinzione che non è mai venuta meno, di non fare mai il reduce, di abitare appieno il proprio presente.
Alla confluenza tra inchiesta e saggio, gli fecero seguito Io sono il mercato (Chiarelettere; sull’economia della droga), La frontiera addosso (Laterza; sui diritti dei rifugiati), Binario morto (Chiarelettere; sull’assurdità della Tav, che è anche il libro più onesto tra quanti hanno cercato di raccontare la risposta dei no Tav).
Con il tempo, ci si renderà conto che questi libri sono tra i pochi da salvare nella marea di carta inutile e predicatoria – e quasi sempre ipocrita – che i giornalisti italiani e i loro fratelli guru hanno dedicato a questi argomenti fondamentali, per farsene belli e non per la ricerca della verità e l’incitamento a una reazione limpida e attiva.
Allo stesso modo, si può essere certi che tra i pochissimi romanzi che resteranno dei mille che hanno affrontato gli argomenti più forti del nostro tempo, saranno in prima fila i due che egli ha scritto, tornando alla sua prima vocazione, Piove all’insù (Bollati Boringhieri 2006) e I buoni (Chiarelettere 2014), il primo sulla “vera storia” della sua generazione (e gli anni del movimento e poi del terrorismo e poi dell’accettazione) e il secondo sull’ipocrisia che, volenti o no, ha riguardato e riguarda coloro che in questi ultimi decenni hanno scelto di occuparsi del prossimo, partendo da motivazioni alte e finendo nella costruzione di nuovi aree di privilegio e nelle povere pratiche della sopravvivenza, nonché della guerra tra poveri.
Del primo romanzo si colse la qualità artistica più facilmente che del secondo, variamente osteggiato da coloro di cui trattava, appunto “i buoni”. Ma I buoni resta anzitutto un grande romanzo “dostoevskiano”, forse unico nella nostra letteratura.
Sulla figura e l’opera di Luca Rastello si dovrà tornare spesso, nei prossimi tempi, perché sono tra le più belle e più esemplari tra quelle che hanno agito in questi anni e hanno cercato di investigarne le tensioni, gli interessi, le brutture e disgrazie e le pochissime grazie, così come si è finito per tornare così spesso a un’altra figura esemplare della generazione appena precedente la sua, quella di Alex Langer, altro amico indimenticabile.
La sua limpidezza morale, la franchezza delle sue polemiche (assumendosi tutta la fatica del rispetto verso gli avversari), la sua bravura “tecnica” di giornalista in anni in cui il buon giornalismo è andato morendo, la sua capacità di leggere i movimenti della storia e dell’economia (le guerre per l’energia che stanno alle spalle di tutto), la sua ostinazione nel cercare anche tra i “buoni” i buoni veri così come li è andati trovando anche tra i reietti, la sua capacità di fare di tutto questo narrazione e comunicazione chiarificatrici e coinvolgenti, il suo umano calore privo di qualsivoglia calcolo e opportunismo, e infine la sua guerra contro una malattia per la quale lo si dava per spacciato già una dozzina di anni fa e contro la quale lottò instancabilmente – lavorando in ogni pausa lunga o breve concessa dal dolore sostenuto da un grandissimo amore per la vita e dalla convinzione di poter portare un contributo anche a battaglie che si sospettano già perdute.
Addio, Luca, i tuoi pareri e le tue conoscenze, i tuoi consigli ci mancheranno tantissimo. Ti salutiamo abbracciando le tue splendide figlie, che così tanto hai amato.
°°°
Andrea
Cortellessa
Un coraggio da
fantascienza. Ricordo di Luca Rastello
Le
parole e le cose, 7 luglio 2015
E
così, alla fine, l’ha avuta vinta la scienza. Ma Luca Rastello,
che invece tanto amava la fantascienza, ha tenuto duro così a lungo
che avevamo finito per abituarci al miracolo: noi, che ai miracoli
siamo stati educati a non crederci. Senz’altro era più laica di me
l’amica comune che ci aveva presentati, Lidia De Federicis, che
negli ultimi tempi mi telefonava essenzialmente per parlarmi di due
suoi amici (che ora, come lei, non ci sono più) i quali, per motivi
diversi, la riempivano di stupore: uno era Nico Orengo e l’altro
era appunto Luca Rastello. Ogni volta Lidia mi ripeteva che non si
poteva attribuire ad altro che a un miracolo, appunto, la sua
sopravvivenza: tale da lasciare stupefatti i medici che l’avevano
in cura. Quando il cancro l’aveva aggredito, quei medici gli
avevano dato al massimo sei mesi di vita; da allora, erano passati
sei anni. E altri quattro ne sono passati, se è per questo, da
quando Lidia ci ha lasciati. In questi dieci anni in proroga –
vissuti bruciando al doppio della luce, come il replicante in quel
film che, scommetto, gli piaceva – il giornalista Rastello aveva
fatto in tempo a fare una “muta” che tanti, troppi suoi colleghi
hanno tentato e continuano a tentare invano: ed era divenuto lo
scrittore Rastello. Il giornalista era un eccellente giornalista (e
quello, fino alla fine, era tornato a essere; lavorava nella
redazione torinese della «Repubblica», e negli ultimi anni ha
pubblicato reportages importanti, anche in volume: sulla famigerata
linea Torino-Lione, sulle narcomafie, sulla lobby dei diritti umani…)
ma lo scrittore, col suo primo libro di narrativa, aveva messo
d’accordo un po’ tutti: chi aveva scritto Piove
all’insù, per
quanto lo si possa dire di un nostro contemporaneo, era un grande
scrittore.
Che
fosse un tipo fuori del comune lo aveva già mostrato, in effetti,
col suo primo libro: un reportage dai Balcani doloroso e tagliente,
che non faceva sconti a nessuno e che era uscito proprio alla vigilia
di quel 1999 in cui la sinistra italiana di governo, violando
l’articolo 11 della Costituzione, con me, per quel che valeva,
aveva chiuso. Lo incontrai proprio in quelle settimane furibonde,
mentre piovevano bombe su Belgrado, nella redazione dell’«Indice»
di cui per breve tempo fece il direttore e al quale all’epoca,
grazie all’affetto di Lidia, collaboravo intensamente. Aveva
insistito lei, ovvio, perché ci conoscessimo di persona, e ricordo
benissimo quel nostro primo incontro. Cominciò come uno scontro,
finì con un abbraccio. Avevo letto La
guerra in casa, naturalmente,
e lo avevo trovato tanto importante quanto ambivalente. Con
l’arroganza dei miei trent’anni partii lancia in resta; lo sfidai
su tutto, inossidabile di ragioni che lui con lucida pazienza,
incuriosito e forse un po’ divertito dalla mia esagitazione,
smontava una dopo l’altra. Poche volte ho avuto modo di assistere
tanto plasticamente alla demolizione di un’ideologia sulla base
dell’esperienza diretta; e purtroppo, nella circostanza, il
demolito ero io.
Malgrado
allora Rastello mi avesse tanto impressionato, quando nel 2006
apparve da Bollati Boringhieri Piove
all’insù, fu una
sorpresa anche per me. Perché la scommessa di quel libro (come
scrissi nella recensione che pubblicò «Tuttolibri»...) era, per uno scrittore italiano della sua generazione
(Rastello era nato nel ’61), non una scommessa bensì
la scommessa. E la
cosa da fantascienza è che quella scommessa impossibile Rastello,
against all odds, l’aveva vinta. Andai a trovarlo nella sua casa di
Torino, insieme a un altrettanto ammirato Daniele Giglioli. Volevamo
fargli un’intervista, non ricordo più per quale sconsiderato
progetto editoriale, poi naturalmente naufragato. E gli rubammo un
intero pomeriggio, di quel suo prezioso tempo in proroga. Ma
Rastello, anzi Luca, sembrava contento. Contento di spiegare come era
nato quel libro, da dove veniva, cosa voleva essere.
Quel
nostro secondo incontro mi impressionò come e più del primo. Eppure
non ci siamo più visti. Nel suo ultimo anno Luca ha scritto un altro
libro che veniva a sua volta da lontano, e al quale con tutta
evidenza annetteva grande importanza, I
Buoni. Non mi
convinse. Forse gli aveva dato persino troppa importanza; il fatto –
cui, accettato il miracolo, ormai non pensavo più – è che quel
libro, con ogni probabilità, lui sapeva sarebbe stato l’ultimo. I
registri del reportage e del romanzo, che nei due libri precedenti
avevano raggiunto – ciascuno per suo conto – l’eccellenza, mi
pareva non fossero riusciti a mescolarsi del tutto; e spesso faceva
capolino un’intenzione polemica “a chiave” che chi conosceva le
persone, e le situazioni, ci mise pochissimo a denunciare (non senza,
magari, qualche strumentalità). Le polemiche furono violente, e Luca
ci rimase male; in minima parte, temo, anche per la mia freddezza.
Così io resto qui, ora, coi suoi libri, e con la faccia rossa. Non
solo per quella mattina all’«Indice».
http://www.eastjournal.net/lettera-in-memoria-di-luca-rastello/61900
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