venerdì 7 agosto 2015

La mela e i fiori in Magritte



"La grande guerra" o " La grande guerre" ( 1964, olio su tela, 65x54 cm, Collezione privata). Parte del ciclo di uomini con bombetta a mezzo busto sullo sfondo di un cielo grigio e una mela verde che sta davanti al volto dell'uomo, il punto dove lo sguardo di chi osserva si posa per prima. Il pittore ha dato lo stesso titolo ad un altro quadro che presenta una donna in abito bianco, con ombrello, borsetta e un cappello piumato, anche qui il volto è coperto, ma da un mazzo di fiori. 
"abbiamo la faccia apparente, la mela, che nasconde ciò che è visibile ma nascosto, il volto della persona. E' qualcosa che accade in continuazione... C'è un interesse in ciò che è nascosto e che il visibile non ci mostra. Questo interesse può assumere le forme di un sentimento decisamente intenso, una sorta di conflitto, direi, tra il visibile nascosto e il visibile apparente" (R. Magritte). Da questa affermazione del pittore il titolo prende un senso perché si tratta di una guerra fra le immagini nata dalla rivolta di due oggetti insignificanti che si contendono la condizione di visibilità ai due volti dei due personaggi. Questo titolo però sarà dovuto anche in parte all'evento reale della Grande Guerra, composta da trincee e da uomini spazzati via a causa di oggetti ancora più insignificati di una mela o di un mazzo di fiori, una guerra che ha annullato la personalità e dove la cancellazione del volto fa da metafora. Infine di quest'opera risalta anche la sovrapposizione perché va contro le regole del buon senso e alle gerarchie che organizzano un'immagine di questo tipo, infatti i personaggi coperti, a loro volta coprono una parte di paesaggio. (tuttoMAGRITTE)






 

giovedì 6 agosto 2015

Hiroshima, un sommesso ricordo

Giuseppe Ceretti 
Hiroshima, cronaca della moderna Apocalisse 
Il Sole 24ore, 7 febbraio 2008  
 



Non è solo il sonno della ragione che genera mostri, non è solo l'odio razziale che spinge l'umanità verso il baratro. C'è anche una cupa e agghiacciante razionalità che percorre le vie del Male e semina morte in nome di un Bene presunto. Tale fu l'olocausto nucleare scatenato il 6 agosto 1945 quando un bombardiere americano scaricò l'atomica su Hiroshima. Kenzaburo Oe, premio Nobel per la letteratura nel 1994, ripercorre il cammino della moderna apocalisse. Note su Hiroshima è un saggio che si presenta sotto la forma di un racconto rivolto a tutti noi, al mondo, che non solo ha dimenticato, ma che pensa all'incubo nucleare come a qualcosa scacciato per sempre dall'orizzonte dell'umanità. Oe si è recato più volte a Hiroshima tra il 1963 e il 1965. Gli appunti di viaggio ricavati sono stati poi pubblicati a puntate dalla rivista Sekai e raccolti ora in un volume.
Le cronache di quel tempo ci restituiscono intatta la memoria dei dimenticati, gli hibakusha. Chi sono costoro? Letteralmente "coloro che sono stati colpiti dal bombardamento". I giapponesi coniarono il neologismo preferendolo a sopravvissuti o superstiti, termini che potevano suonare offensivi nei confronti dei defunti. Perché l'autore si decise a radunare i suoi scritti? C'era una ragione evidente: farsi parte attiva nella lotta al riarmo nucleare e promuovere la realizzazione di un libro bianco sui danni della bomba atomica. Quel mobilissimo intento si è trasformato in uno straordinario percorso dentro l'uomo:
"A Hiroshima sono riuscito per la prima volta a impugnare una chiave che mi ha permesso di scrutare a fondo l'autenticità umana. E, sempre a Hiroshima, ho avuto modo di cogliere gli aspetti più imperdonabili della mistificazione di cui l'essere umano è capace".
C'è una specificità che fa dell'olocausto giapponese un unicum nella storia. Hiroshima evoca la catastrofe finale causata dalla mutazione delle cellule e dunque degli esseri umani in qualcosa di mostruoso; è l'avvisaglia della fine del mondo e dell'estinzione della razza umana in quanto tale. In un libro pubblicato nel 1950, e di fatto boicottato, sono raccolte le straordinarie testimonianze della condizione umana dopo il bombardamento. Il titolo è l'unione di due parole giapponesi, pika, ovvero il bagliore e don, ovvero il fragore. Oe trascrive da Pikadon la testimonianza di una giovane donna, una hibakusha.
"Il muro di cemento che si ergeva davanti ai miei occhi era pieno di grossi squarci. Mi ci avvicinai perché mi sembrava che alla sua base vi stessero accoccolate delle persone scure come ombre… Erano quasi completamente nude e se ne stavano immobili una accanto all'altra; avevano la faccia e il corpo tutti gonfi e dello stesso colore brunastro, come lo avessero fatto apposta per assomigliarsi. Tra queste persone ce n'era una che non ci vedeva più. E poi ne notai subito un'altra che teneva in grembo un bambino dalla schiena con la pelle che pendeva tutta staccata, simile a una nespola marcita e privata della buccia. D'istinto tolsi lo sguardo. Quelle persone non accennavano a muoversi e continuavano a restarsene in silenzio, quasi che esse fossero sospese fra la vita e la morte".
Sono proprio gli hibakusha, i dimenticati del 6 agosto 1945, i veri protagonisti. Kenzaburo Oe squarcia il velo su un'umanità dolente, stretta tra il diritto al silenzio e il bisogno di testimonianza: "Hiroshima è un unico, immenso sepolcro a ogni angolo di strada". Nella città martire l'autore incontra quanti, con il loro eroismo quotidiano, hanno permesso di costruire basi medico-scientifiche alla lotta contro un mostro che si era presentato quella mattina d'estate con la mortale perfidia di corpi intatti, ma giù svuotati dalle radiazioni.
Gli eroi di Kenzaburo Oe sono i medici come Shigeto Fumio, direttore dell'ospedale della Croce Rossa, anch'egli colpito dalle radiazioni, instancabile non solo nell'opera di soccorso, ma nella costruzione della memoria scientifica di questa moderna e sconosciuta peste: "Ci vollero sette anni di scrupolose ricerche solo per determinare le prime certezze statistiche riguardo al legame tra radiazioni e leucemia".
Gli eroi di Kenzaburo Oe sono le persone comuni, lavoratori e intellettuali, come il vecchio filosofo Maritaki che, morente, pronuncia parole di speranza, poi tradite, in una moratoria mai davvero realizzata. Il racconto riflette l'immagine di una città sconvolta nel normale ciclo della vita, ma proprio qui, confessa Oe "ho scoperto il significato pieno dei concetti di umiliazione, vergogna e dignità".
Tutti noi che siamo scampati solo per caso all'olocausto atomico, è l'invito dell'autore, impariamo a considerare Hiroshima come parte intrinseca del Giappone e del mondo intero, cioè di noi stessi: "L'immane potenza di quell'arma malefica è stata mitigata dagli sforzi di quanti non hanno mai smesso di lottare alla ricerca di una pur minima speranza in un mare di disperazione, intravedendo il bene al di là dei confini del male".
E quindi uscimmo a riveder le stelle. L'ultimo verso dell'Inferno della Divina Commedia chiude la prefazione dell'appassionato libro di Kenzaburo Oe. E' una nota di speranza dell'autore, nonostante ogni evidenza contraria, arricchita da un singolare quanto toccante elogio all'edizione italiana. "La pubblicazione di Note su Hiroshima in italiano, una lingua che sa esprimere la speranza dopo il dolore in un modo così incantevole, costituisce per me un motivo di straordinaria gioia".






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Kenzaburo Oe
Note su Hiroshima
Traduzione di Gianluca Coci
Editrice Alet
pagg. 224




mercoledì 5 agosto 2015

L'eros nelle Mille e una notte

Storia del mercante Masrùr e della sua amata Zain al-Mawasif
Burton, ottavo volume
 ...

"Stand thou and hear what fell to me * For love of you gazelle to dree!
Shot me a white doe with her shaft * O' glances wounding woundily.
Love was my ruin, for was I * Straitened by longing ecstasy:
I loved and woo'd a young coquette * Girded by strong artillery,
Whom in a garth I first beheld * A form whose sight was symmetry.
I greeted her and when she deigned * Greeting return, 'Salám,' quoth she
'What be thy name?' said I, she said, * 'My name declares my quality! [FN#340]'
'Zayn al-Mawásif I am hight.' * Cried I, 'Oh deign I mercy see,'
'Such is the longing in my heart * No lover claimeth rivalry!'
Quoth she, 'With me an thou 'rt in love * And to enjoy me pleadest plea,
I want of thee oh! muchel wealth; * Beyond all compt my wants o' thee!
I want o' thee full many a robe * Of sendal, silk and damaskry;
A quarter quintal eke of musk: * These of one night shall pay the fee.
Pearls, unions and carnelian [FN#341]-stones * The bestest best of jewelry!'
Of fairest patience showed I show * In contrariety albe:
At last she favoured me one night * When rose the moon a crescent wee;
An stranger blame me for her sake * I say, 'O blamers listen ye!
She showeth locks of goodly length * And black as blackest night its blee;
While on her cheeks the roses glow * Like Lazá-flame incendiary:
In every eyelash is a sword * And every glance hath archery:
Her liplets twain old wine contain, * And dews of fount-like purity:
Her teeth resemble strings o' pearls, * Arrayed in line and fresh from sea:
Her neck is like the neck of doe, * Pretty and carven perfectly:
Her bosom is a marble slab * Whence rise two breasts like towers on lea:
And on her stomach shows a crease * Perfumed with rich perfumery;
Beneath which same there lurks a Thing * Limit of mine expectancy.
A something rounded, cushioned-high * And plump, my lords, to high degree:
To me 'tis likest royal throne * Whither my longings wander free;
There 'twixt two pillars man shall find * Benches of high-built tracery.
It hath specific qualities * Drive sanest men t' insanity;
Full mouth it hath like mouth of neck * Or well begirt by stony key;
Firm lips with camelry's compare * And shows it eye of cramoisie.
An draw thou nigh with doughty will * To do thy doing lustily,
Thou'll find it fain to face thy bout * And strong and fierce in valiancy.
It bendeth backwards every brave * Shorn of his battle-bravery.
At times imberbe, but full of spunk * To battle with the Paynimry.
'T will show thee liveliness galore * And perfect in its raillery:
Zayn al-Mawasif it is like * Complete in charms and courtesy.
To her dear arms one night I came * And won meed given lawfully:
I passed with her that self-same night * (Best of my nights!) in gladdest glee;
And when the morning rose, she rose * And crescent like her visnomy:
Then swayed her supple form as sway * The lances lopt from limber tree;
And when farewelling me she cried, * 'When shall such nights return to me?'
Then I replied, 'O eyen-light, * When He vouchsafeth His decree!' " [FN#342]

Cola di Rienzo


la statua ai piedi del Campidoglio 
 



Giuliano Procacci
Storia degli italiani 
Laterza, Bari 1998 (1968) 

Strana città la Roma del Medioevo! Il suo aspetto era quello di un grosso agglomerato tra urbano e campagnolo, ben lontano dalle dimensioni e dalla densità di insediamento umano delle grandi città dell’Italia settentrionale e centrale, per non parlare di quelle dell’antica metropoli imperiale che pur era stata, come attestavano le rovine di cui il suo modesto paesaggio era costellato. Dal punto di vista dell’organizzazione politica Roma aveva anch’essa i suoi organi e le sue magistrature di autogoverno cittadino,che si fregiavano anzi di nomi illustri; ma chi in essa effettivamente deteneva il potere erano le potenti casate e fazioni feudali, prima fra tutti quelle dei Colonna e degli Orsini che, con le loro masnade, spadroneggiavano nelle vie cittadine e in più di un’occasione costrinsero il papa ad abbandonare la città.

Eppure da questa città partivano le scomuniche e alla volta di essa calavano gli imperatori in cerca della corona. E vi erano giornate in cui i cittadini romani avevano la sensazione che la loro città fosse tornata ad essere veramente il centro del mondo: al giubileo del 1300, indetto da Bonifacio VIII, migliaia e migliaia di pellegrini vi si erano riversati, sino a gremire le sue strade al punto che sotto il peso della folla un ponte era crollato. Poi vi era stata la calata del Bavaro, con il suo pittoresco seguito e la inconsueta cerimonia in Campidoglio di cui abbiamo parlato. Si direbbe quasi che Roma medievale vivesse una doppia vita, quella umile e plebea di tutti i giorni e quella delle grandi occasioni e delle solennità.


Figlio di questa Roma e partecipe della sua doppia natura fu Cola di Rienzo, uno dei personaggi più singolari della storia italiana. Figlio di un oste e di una lavandaia, allevato tra i contadini della Ciociaria, egli fu uomo di gusti plebei e istintivi e tale rimase anche al culmine della sua singolare carriera. Quando, giunto al termine della sua fortuna, fu impiccato per i piedi, tutti rimasero colpiti dalla sua smisurata grassezza. “Pareva uno smisurato bufalo ovvero vacca a macello” – scriveva un anonimo cronista romano.Gli è che il potere era stato per lui anche un mezzo per sanare la sua antica fame popolana: “prese colore e sangue – ci informa ancora l’anonimo romano – e meglio manicava e meglio dormiva”. Eppure quest'uomo nutriva un affetto genuino per la sua città ed era sinceramente e appassionatamente convinto che la sua missione fosse quella di restituirle quella dignità che essa aveva perduto. Da giovane egli si era nutrito di letture classiche e si era aggirato inquieto tra le vestigia dei monumenti romani invocando le ombre dei grandi del passato: "Dove sono questi buoni romani? Dove enne loro summa iustizia? ... poterame trovare in tiempo che questi fussi". 
Questa singolare mistura di estroversione e di allucinazione, questo suo sonnambulismo, questa sua dotta ignoranza che piacque tanto agli intellettuali, questa combinazione di ingenuità e di megalomania spiegano, assieme alla presa che continuava a esercitare sugli animi il mito di Roma, la sua straordinaria ed effimera avventura. 




 Còla di Rienzo. - Tribuno e riformatore di Roma (Roma 1313 - ivi 1354). Figlio di un Lorenzo taverniere, benché più tardi lasciasse credere d'essere figlio illegittimo dell'imperatore Arrigo VII, Nicola si diede agli studî e alla professione di notaio, ma insieme si interessava ai monumenti e alla storia dell'antica Roma. Alla fine del 1342, inviato ambasciatore ad Avignone per invitare il papa Clemente VI a far ritorno a Roma, ne ottenne il favore, se non il ritorno, e la carica di notaio della Camera Capitolina. Dopo il rientro a Roma nell'estate del 1344, resosi sempre più popolare e guadagnatosi anche il favore del vescovo di Orvieto, Raimondo, vicario papale in spiritualibus, fu eletto il 20 maggio 1347 tribuno e liberatore dello stato romano. Obbligò allora i potenti baroni a sottomettersi, e cercò di legare a sé i comuni e i signori italiani, specialmente quelli umbri e toscani. Con fastosa cerimonia il 1º ag. 1347 assunse i titoli di candidatus Spiritus Sancti miles, Nicolaus severus et clemens, liberator/">liberator urbis, zelator Italiae, amator orbis et tribunus augustus. Il fantastico suo reclamare per Roma la dignità di capitale del mondo, pur dichiarando di non voler attentare ai diritti della Chiesa, insospettì Clemente VI; l'ostilità del pontefice, la freddezza e la diffidenza di alcuni comuni italiani, la rivolta dei baroni, soprattutto colonnesi, scossero la posizione di C. che dovette fuggire. Rifugiatosi tra gli eremiti della Maiella, s'imbevve di profetismo escatologico, e con nuovi programmi imperiali si recò a Praga (luglio 1350), per esporli a Carlo IV. Arrestato come sospetto d'eresia dall'arcivescovo di quella città, fu tradotto ad Avignone, e quindi liberato per intercessione di Carlo IV, dell'arcivescovo stesso e del Petrarca, suo ammiratore (sett. 1353). Dal nuovo papa, Innocenzo VI, fu inviato allora in Italia, perché con la sua influenza appoggiasse il restauratore dello stato pontificio, Egidio Albornoz. Nominato senatore di Roma, entrò come trionfatore nella città il 1º agosto 1354. Ma errori da lui commessi, per un'esaltazione che parve follia, di nuovo gli alienarono la popolarità e cadde ucciso in un tumulto. La breve esperienza di C., per avere espresso suggestivamente il trapasso dai miti universalistici medievali di Impero e Chiesa verso ideali, più moderni, di un Impero che avesse nel populus romanus (inteso come nazione italiana) il suo centro, e di una Chiesa realizzatrice di valori più spirituali, è stata da taluni storici intesa più creatrice di storia di quanto in realtà non sia stata, anche per il fatto che si intrecciò con l'esperienza petrarchesca certo più determinante nella storia della cultura. (Treccani.it)

il busto al Pincio

Cola di Rienzo: mito e rivoluzione nei drammi di Engels, Gaillard, Mosen e Wagner: 1837-1846: con la ristampa del testo di Friedrich Engels 'Cola di Rienzi' (1841)

Battafarano, Italo Michele (2006) Cola di Rienzo: mito e rivoluzione nei drammi di Engels, Gaillard, Mosen e Wagner: 1837-1846: con la ristampa del testo di Friedrich Engels 'Cola di Rienzi' (1841). Labirinti. Testi e Ricerche di Germanistica = Texte und Forschungen zur Germanistik / a cura di = herausgegeben von Italo Michele Battafarano; 94.1 . Trento: Università degli Studi di Trento. Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Filologici. ISBN 978-88-8443-148-6
Abstract
Sollecitati dal romanzo Rienzi. The Last of the Roman Tribunes (1835) dell’inglese Edward George Bulwer-Lytton, quattro giovani autori tedeschi elaborano in forme teatrali la figura del tribuno Cola di Rienzo (1313-1354) e la sua rivoluzione a Roma durante l’assenza dei Papi, in cattività ad Avignone dal 1304 al 1377, men­tre la città è vittima della tirannia della nobiltà. Questi drammi – Cola Rienzi (1837) di Julius Mosen; Cola di Rienzi (1841) di Friedrich Engels; Rienzi, der Letzte der Tribunen (1842) di Richard Wagner; Cola Rienzi (1846) di Carl Gaillard – riportano all’attenzione la libertà e l’uguaglianza come ideali della rivoluzione, la legalità e la giustizia sociale come fondamenti del nuovo ordine sociale in una cornice costituzionale, il pericolo del ritorno della restaurazione e quello della trasformazione del tribuno in tiranno. Rivelando originalità nella costruzione drammatica, nell’elabo­razione della concettualità politica e nella scelta metaforica, questi quattro autori tedeschi scrivono un capitolo importante di storia civile europea, attraverso un esempio italiano. Essi contri­buiscono così in maniera decisiva alla creazione di una mitologia popolare ancora oggi molto produttiva: Cola di Rienzo, figura eroica della letteratura tedesca, è il visionario propugnatore di una nuova Roma repubblicana, fondata su libertà e giustizia, protagonista carisma­tico della Rivoluzione, vittima, infine, di meschine rivalità e del conflitto che si sviluppa tra affetti privati e interesse pubblico, dopo la conquista del potere. "Mi paiono notevoli gli spunti di riflessione che l’autore suggerisce sul rapporto tra storiografia e letteratura, ovvero tra la ricostruzione storica e l’elaborazione immaginifica di un accadimento o di un personaggio. […] Osserva giustamente Battafarano: “Se, pertanto, è senza dubbio vero che Engels, Wagner, Mosen e Gaillard con le loro opere drammatiche non offrono nulla che possa servire agli storici odierni del medioevo, è però altrettanto vero che essi dicono molto allo storico che si accinga a studiare la Germania dell’Ottocento” (p. 23), e chiude il capitolo con una notevole sentenza: “La letteratura è la rappresentazione della storia dell’umanità rivisitata continuamente nel mito” (p. 25). Il rapporto tra storia e letteratura si presenta dunque come uno dei temi profondi del libro." Tommaso di Carpegna Falconieri, "il 996: rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli". 



martedì 4 agosto 2015

La notte del 4 agosto




Tra la fine di luglio e la prima settimana di agosto del 1789, la Francia di Luigi XVI fu sconvolta da disordini nelle campagne, che assunsero rapidamente il carattere di agitazioni contadine di stampo antifeudale. L'Assemblea nazionale si vide dunque costretta ad risolvere il complesso problema dei diritti signorili, di cui erano beneficiari anche numerosi borghesi, sia come proprietari di feudi, sia come agenti generali dei signori. Nella notte del 4 agosto 1789, in un'atmosfera di tensione e di sovraeccitazione, i deputati decisero la distruzione di quanto rimaneva del "regime feudale" e l'abolizione di ogni privilegio che si opponeva all'eguaglianza dei diritti. Nei giorni seguenti venne comunque operata una distinzione tra le servitù personali, immediatamente soppresse, e le servitù reali riconducibili a un diritto originario di proprietà, per le quali venne stabilita la possibilità per i contadini del riscatto tramite un pagamento una tantum in denaro. 

la grande paura



 













http://www.pbmstoria.it/unita/04474n-01cs2/percorsi/txt/0706.php

lunedì 3 agosto 2015

La spiaggia di Guttuso e Montale



Renato Guttuso, La spiaggia (1955-1956)

Il dipinto indica una spiaggia affollatissima di persone, come fosse una domenica pomeriggio, con corpi arrossati, abbronzati ed incollati alla sabbia sollevata dal vento. Le figure si intrecciano ed incastrano tra loro con posizioni e movimenti diversi, tipici di chi riposa in riva al mare, tra il profumo di aria salata e l’afrore dei corpi sudati e lucidati da creme solari. Il sole è feroce ed acceca le figure, le ferisce colorandole con tonalità ardenti, definendo i volumi di questo rituale collettivo con la forza della tecnica radiografica. L’immagine creata da Guttuso trasmette considerazioni amare, per niente ingenue, sul cambiamento prodotto dalla società dei consumi italiana e sui miti del benessere collettivo e dell’omologazione. (Galleria Nazionale di Parma)

°°°


Eugenio Montale
Al mare (o quasi)

L’ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell’eucalipto
i bambini raccolgono pinòli
indispensabili per la galantina
un cane alano urla dall’inferriata
di una villa ormai disabitata
le ville furono costruite dai padri
ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati
di qui non si vede nemmeno la proda
se può chiamarsi cosí quell’ottanta per cento
ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi
una pace alcionica
il mare è d’altronde infestato
mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche
esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti. E c’è anche qualche boccio
di magnolia l’etichetta di un pediatra
ma qui i bambini volano in bicicletta
e non hanno bisogno delle sue cure
Chi vuole respirare a grandi zaffate
la musa del nostro tempo la precarietà
può passare di qui senza affrettarsi
è il colpo secco quello che fa orrore
non già l’evanescenza il dolce afflato del nulla
Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
alla morte (e questa piace solo ai giovani).

(da Quaderno di quattro anni, Mondadori, 1977)

domenica 2 agosto 2015

Tozzi fuori luogo


Aldo Grasso
Divulgazione o narcisismo, il dilemma del geologo della tv 
Corriere della Sera, 23 luglio 2015 

È iniziata su Rai1 la seconda stagione di «Fuori Luogo», il programma condotto dal geologo Mario Tozzi. La prima puntata, «Palermo l’età dell’oro», è partita simbolicamente dall’antica sede della Società Geografica Italiana a Villa Celimontana, Roma, per dirigersi in Sicilia, a Palermo per la precisione (martedì, ore 23.40).
L’obiettivo dichiarato del programma è quello di capire come la storia della Terra e la storia degli uomini s’incrocino in alcuni luoghi chiave del nostro Paese: una formula complessa per spiegare che Tozzi e gli autori riconducono, con una buona dose di determinismo, alcune problematiche storiche e sociali di un luogo alla particolare conformazione geologica e fisica del suo territorio, considerando le caratteristiche del suolo, del sottosuolo, delle sue risorse idriche e così via.
I problemi della Sicilia? Risalendo fino al periodo della dominazione araba dell’isola, arrivano in gran parte dalla complessa e non sempre efficiente gestione di una risorsa scarsa e preziosa come l’acqua. Sarà... Per ricordare l’anniversario della strage di Capaci, Tozzi si reca (in treno, per salvaguardare l’ambiente) sul luogo dove fu attivato il dispositivo al tritolo che fece saltare in aria il giudice Falcone, sua moglie Francesca e gli uomini della scorta, distruggendo un intero tratto di autostrada, che la trasmissione sorvola con una telecamera drone (si spera a basso consumo).
Certo è che passare dalle immagini drammatiche del 1992 alla ricostruzione di come il controllo dell’acqua abbia influito sulla storia di Cosa nostra è salto non da poco. È evidente che a Tozzi i panni del geologo stanno ormai stretti: opinionista a tutto tondo anche nei talk show contenitori del pomeriggio, diventa in «Fuori luogo» anche uno storico, un sociologo, persino un antropologo. Il demone della divulgazione e il narcisismo non possono andare d’accordo. E resta un mistero come un ricercatore Cnr riesca a stare sempre in tv.