Marco Fincardi
Maurice Agulhon alla ricerca di Marianne
il manifesto, 26 giugno 2014
Con la recente scomparsa di Maurice Agulhon, storico della sociabilità e di Marianne,
viene meno una delle figure innovatrici delle ricerche sulla
Francia del XIX e XX secolo. Chi studia oggi le tradizioni
politiche, di sinistra o di destra, tanto più in ambiti regionali
e locali, ha difficoltà a ignorare la sua opera. I suoi metodi di
ricerca hanno avuto ampia diffusione, indipendentemente dagli
orientamenti degli studiosi: ne sono improntati tanto la nozione di sfera pubblica del sociologo-filosofo francofortese Jurgen Habermas, come l’elaborazione del civicness del politologo reaganiano Robert Putnam.
Nato da insegnanti di fede protestante e di forti sentimenti laici
repubblicani, compiuti gli studi liceali tra Avignone e Lione, nel
1946 tramite concorso Agulhon accede alla prestigiosa École
normale supérieure della capitale. Provinciale di origini modeste
tra i figli dell’élite sociale parigina, subito si appassiona alla
militanza nella cellula comunista. Dal Partito comunista esce per
dissenso nel 1960. Mantiene sempre l’impegno civile nella sinistra
laica e partecipa attivamente alle mobilitazioni del maggio
1968. Insegna all’università di Aix dal 1957, dal 1972 alla Sorbona
e dal 1986 al Collège de France.
Accompagnato negli studi di formazione fin dal 1948 da Ernest
Labrousse, grande studioso dalla forte impronta strutturalista
marxista, nelle sue due tesi di dottorato si trova subito di fronte
il problema di spiegare nella Provenza del XIX secolo, e in
particolare nel dipartimento del Var, una spiccata diffusione
della sinistra repubblicana in ambiti rurali, piuttosto che urbani
e industriali. La soluzione gli viene dai modelli del sociologo
Georges Gurvitch, secondo cui le idee discendono attraverso le forme
associative, come in un sistema di vasi comunicanti. Nelle
ricerche, ricostruisce così una molteplicità di piccoli fatti
locali, rivelatori delle abitudini della quotidianità
provinciale e tanto più del suo mutare. Ne trae un racconto
dettagliato della vita sociale, finalizzato a individuare le
trasformazioni delle strutture che la modellano e quasi
sconfinante nell’etnografia, sempre a partire dall’informalità: dai
luoghi d’incontro nelle piazze paesane, nei giochi a carte tra amici
attorno a una bottiglia di vino, poi nelle osterie e caffè, nelle
feste come nei funerali, fino alle bravate giovanili e agli charivari
di derisone. Tutti questi momenti insegna a guardarli nella loro
tendenza a politicizzarsi e a modificare le culture municipali
del Meridione francese, tra la metà del secolo XVIII e il secolo XIX.
Ne ha saputo trarre una storia sociale delle culture civili, con una
raffinata costante attenzione alle particolari forme di
comunicazione della politica.
Sistematizzata in modo compiuto l’analisi della sociabilità che
impronta la mentalità della borghesia europea del XIX secolo,
Agulhon lamenta di non essere giunto a risultati analoghi
nell’ambito che più lo interessa: la sociabilità popolare. In
realtà, alcuni suoi contributi sulle trasformazioni delle culture
popolari dal XVIII al XIX secolo sono particolarmente incisivi
e originali, anche rispetto agli studi paralleli dei colleghi
inglesi Eric Hobsbawm e Edward P. Thompson. Di straordinario
interesse a tale riguardo sono: Pénitents et francs-maçons de l’ancienne Provence: essai sur la sociabilité méridionale (1968), oltre a La République dans le village, ma anche i volumi sulla storia della Francia rurale e urbana a lui commissionati da Georges Duby.
In un articolo sulle «Annales», nel 1973 avvia gli studi sull’allegoria politico-civile di Marianne,
alla cui evoluzione dedicherà in seguito tre corposi volumi.
È stato l’analista metodico delle istituzioni repubblicane
e soprattutto delle loro simbologie, avviate con la rivoluzione
nel 1792, poi nelle elaborazioni successive, all’epoca della
Restaurazione e della monarchia di luglio, nelle tradizioni della
Seconda e della Terza Repubblica, fino alle riconfigurazioni delle
simbologie repubblicane nella Resistenza, poi durante e dopo l’era
di De Gaulle. Di quest’ultimo però non studia tanto gli atti
politici, ma le presenze simboliche che si sono fissate nella
cultura francese come luoghi della memoria. Suoi ultimi libri: Histoire et politique à gauche, Perrin, 2005 e Les mots de la République, Presses Universitaires du Mirail, 2008.
Il fatto che i suoi studi siano fortemente incentrati su
specifiche territorialità francesi ne ha ostacolato la
divulgazione all’estero attraverso traduzioni. I pochi suoi libri
pubblicati in Italia, vari anni dopo l’edizione francese, sono: La Francia della seconda repubblica, Editori riuniti, 1979; La Repubblica nel villaggio, Il Mulino, 1991; l salotto, il circolo e il caffè,
Donzelli, 1993. I suoi libri in lingua originale figurano
comunque in quasi tutte le biblioteche universitarie, data la
loro influenza sulla storiografia francese e occidentale. In
Italia la sua nozione di sociabilità è stata affinata dalle sue
allieve Maria Malatesta e Giuliana Gemelli (Forme di sociabilità nella storiografia francese contemporanea,
Feltrinelli, 1982) e la diffusione del suo metodo ha potuto
affermarsi grazie anche all’interesse per la storia italiana dei
suoi allievi francesi, a cominciare da Gilles Pécout e Philippe
Boutry, poi nei convegni promossi negli anni Novanta dall’École
Française di Roma. In particolare la rivista «Memoria e ricerca»
è attenta ai suoi interessi culturali e al suo metodo.
giovedì 26 giugno 2014
domenica 22 giugno 2014
Calamandrei avvocato di guerra
Goffredo Fofi
E Calamandrei difese i soldati
Il Sole 24 ore, 22 giugno 2014
In un numero del marzo 1956 della rivista che aveva fondato e dirigeva, «Il ponte», pochi mesi prima di morire Piero Calamandrei pubblicò un ricordo del suo primo processo che ora le edizioni Henry Beyle propongono in un prezioso volumetto a tiratura limitata (info@henrybeyle.com). Privo al solito di qualsiasi retorica, in una lingua asciutta, essenziale, uno splendido italiano che è tutto fuorché "avvocatesco", si tratta di poche pagine che evocano avvenimenti di quarant'anni prima. Siamo nell'estate del 1916, «all'ombra del Pasubio», sul fronte della prima guerra mondiale. Calamandrei aveva allora 27 anni, si era da poco laureato in legge, era "sottotenente di fanteria" e venne chiamato a difendere dei poveri soldati che non capivano cosa gli stesse succedendo, perfettamente innocenti, e questo pochi minuti prima che un tribunale straordinario si riunisse per giudicare otto fanti accusati di «abbandono di posto dinanzi al nemico». Il processo era stato imposto da un classico generale fanatico e, con gli occhi di poi, ridicolo: «una specie di "puro folle" della guerra», con «una grande barba da apostolo e celesti occhi paterni», che sfidava la morte e «passava nelle trincee a fronte alta, sorridente e patriarcale, e ogni tanto, se gli avveniva di scoprire una testa, vi calava sopra un randellata: senza scomporsi, con aria ispirata, come se compiesse un rito». Al colonnello che aveva convocato Calamandrei, questo generale aveva chiesto che «almeno uno per l'esempio bisogna fucilarlo».
«Per l'esempio» è una formula ben nota ai tribunali militari di tutti i fronti e di tutte le guerre. Gli otto accusati, «tutti meridionali, quasi tutti di classe anziana», erano stati sbarcati tempo prima, quando erano ancora in dodici, da un autocarro nottetempo durante un'avanzata, vicino alla linea di combattimento, e spediti a raggiungere un paese, senza guida e senza mai aver visto quei luoghi. Si erano perduti, ma erano stati ritrovati all'alba, e avevano preso parte a combattimenti durante i quali due di loro erano morti e due erano moribondi. Gli altri otto, «colpevoli di essere rimasti vivi» , erano stati posti sotto processo dal «puro folle» per dare un «pronto esempio di militare giustizia».
È quest'assurdo processo a dei poveri cristi storditi e "trasognati", di fronte a cinque giudici rimediati, che venne celebrato nella convinzione della certa condanna a morte di almeno uno degli accusati – non fosse che il giovane Calamandrei fresco di studi trovò un cavillo che metteva in discussione il «pronto esempio»: i fatti erano successi tre settimane prima, l'urgenza dell'esempio non c'era più, bisognava dunque deferire il processo ad altro tribunale «stabile e regolarmente costituito». È per fortuna quello che accade, grazie alla inattesa complicità del pubblico accusatore, che aveva pratica di leggi militari e che prese le parti di Calamandrei appoggiando la sua tesi, con grande smacco del «puro folle». Il processo venne dunque rinviato a chi di dovere, ad altro luogo e giorno, e lì gli imputati, saprà più tardi il loro difensore, vennero assolti. Ma per il giovane Calamandrei si sarebbe messa male se il suo colonnello non lo avesse difeso di fronte al «puro folle» che, «per ristabilire la disciplina», chiese che venisse messo lui sotto processo, per insubordinazione. Per salvarlo il colonnello, fece passare Calamandrei per una sorta di «malato di mente». «Allora, se è malato di mente, lo porterò con me a fare una giratina fuori dai reticolati, e così rinsavirà». Ma due giorni dopo il reggimento fu trasferito, e il «puro folle» perse di vista il giovane «malato di mente».
Questo racconto perfetto – di straordinaria intensità morale, narrativa, visiva e dove pathos e ironia si compenetrano va messo accanto, in quest'anno 2014 a un secolo dall'inizio dell'assurdo massacro del '14-'18, a quello "inventato" di De Roberto, La paura e a Un anno sull'altipiano di Lussu, alle poesie di Rebora, alle pagine di Addio alle armi sulla ritirata di Caporetto. È una storia da leggere e far leggere proprio per «dare un esempio» – non quello previsto dalla giustizia militare, bensì un esempio dell'assurdo della guerra e di un'idea astratta e fanatica di giustizia.
E Calamandrei difese i soldati
Il Sole 24 ore, 22 giugno 2014
In un numero del marzo 1956 della rivista che aveva fondato e dirigeva, «Il ponte», pochi mesi prima di morire Piero Calamandrei pubblicò un ricordo del suo primo processo che ora le edizioni Henry Beyle propongono in un prezioso volumetto a tiratura limitata (info@henrybeyle.com). Privo al solito di qualsiasi retorica, in una lingua asciutta, essenziale, uno splendido italiano che è tutto fuorché "avvocatesco", si tratta di poche pagine che evocano avvenimenti di quarant'anni prima. Siamo nell'estate del 1916, «all'ombra del Pasubio», sul fronte della prima guerra mondiale. Calamandrei aveva allora 27 anni, si era da poco laureato in legge, era "sottotenente di fanteria" e venne chiamato a difendere dei poveri soldati che non capivano cosa gli stesse succedendo, perfettamente innocenti, e questo pochi minuti prima che un tribunale straordinario si riunisse per giudicare otto fanti accusati di «abbandono di posto dinanzi al nemico». Il processo era stato imposto da un classico generale fanatico e, con gli occhi di poi, ridicolo: «una specie di "puro folle" della guerra», con «una grande barba da apostolo e celesti occhi paterni», che sfidava la morte e «passava nelle trincee a fronte alta, sorridente e patriarcale, e ogni tanto, se gli avveniva di scoprire una testa, vi calava sopra un randellata: senza scomporsi, con aria ispirata, come se compiesse un rito». Al colonnello che aveva convocato Calamandrei, questo generale aveva chiesto che «almeno uno per l'esempio bisogna fucilarlo».
«Per l'esempio» è una formula ben nota ai tribunali militari di tutti i fronti e di tutte le guerre. Gli otto accusati, «tutti meridionali, quasi tutti di classe anziana», erano stati sbarcati tempo prima, quando erano ancora in dodici, da un autocarro nottetempo durante un'avanzata, vicino alla linea di combattimento, e spediti a raggiungere un paese, senza guida e senza mai aver visto quei luoghi. Si erano perduti, ma erano stati ritrovati all'alba, e avevano preso parte a combattimenti durante i quali due di loro erano morti e due erano moribondi. Gli altri otto, «colpevoli di essere rimasti vivi» , erano stati posti sotto processo dal «puro folle» per dare un «pronto esempio di militare giustizia».
È quest'assurdo processo a dei poveri cristi storditi e "trasognati", di fronte a cinque giudici rimediati, che venne celebrato nella convinzione della certa condanna a morte di almeno uno degli accusati – non fosse che il giovane Calamandrei fresco di studi trovò un cavillo che metteva in discussione il «pronto esempio»: i fatti erano successi tre settimane prima, l'urgenza dell'esempio non c'era più, bisognava dunque deferire il processo ad altro tribunale «stabile e regolarmente costituito». È per fortuna quello che accade, grazie alla inattesa complicità del pubblico accusatore, che aveva pratica di leggi militari e che prese le parti di Calamandrei appoggiando la sua tesi, con grande smacco del «puro folle». Il processo venne dunque rinviato a chi di dovere, ad altro luogo e giorno, e lì gli imputati, saprà più tardi il loro difensore, vennero assolti. Ma per il giovane Calamandrei si sarebbe messa male se il suo colonnello non lo avesse difeso di fronte al «puro folle» che, «per ristabilire la disciplina», chiese che venisse messo lui sotto processo, per insubordinazione. Per salvarlo il colonnello, fece passare Calamandrei per una sorta di «malato di mente». «Allora, se è malato di mente, lo porterò con me a fare una giratina fuori dai reticolati, e così rinsavirà». Ma due giorni dopo il reggimento fu trasferito, e il «puro folle» perse di vista il giovane «malato di mente».
Questo racconto perfetto – di straordinaria intensità morale, narrativa, visiva e dove pathos e ironia si compenetrano va messo accanto, in quest'anno 2014 a un secolo dall'inizio dell'assurdo massacro del '14-'18, a quello "inventato" di De Roberto, La paura e a Un anno sull'altipiano di Lussu, alle poesie di Rebora, alle pagine di Addio alle armi sulla ritirata di Caporetto. È una storia da leggere e far leggere proprio per «dare un esempio» – non quello previsto dalla giustizia militare, bensì un esempio dell'assurdo della guerra e di un'idea astratta e fanatica di giustizia.
sabato 21 giugno 2014
Invocazioni poetiche alla luna
Eugène Chigot, Clair de lune |
Johann Wolfgang Goethe
An den Mond, 1777
Di nuovo inondi la cara valle
silente di luminosa bruma,
e questa volta sciogli alfine
tutta l'anima mia
sopra i miei campi diffondi
il tuo sguardo mitigante,
tenero come l'occhio dell'amica
di fronte alla mia sorte
quello che sai così mutevole
questo cuore in fiamme,
voi lo tenete come uno spettro
relegato al fiume,
quando nella squallida notte
d'inverno si gonfia di morte,
o nel fulgore della vita a primavera
scorre sopra le gemme.
Beato chi senza alcun odio
si segrega dal mondo,
tiene al petto un essere amico
insieme con lui godendo
di quello che gli uomini ignorano
o forse disprezzano,
e che pei labirinti del cuore
di notte va errando.
-------------------------------------------
Giacomo Leopardi
Alla luna (1819)
1
O graziosa luna, io mi rammento
2
che, or volge l’anno, sovra questo colle
3
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
4
e tu pendevi allor su quella selva
5
siccome or fai, che tutta la rischiari.
6
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
7
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
8
il tuo volto apparia, che travagliosa
9
era mia vita: ed è, né cangia stile,
10
o mia diletta luna. E pur mi giova
11
la ricordanza, e il noverar l’etate
12
del mio dolore. Oh come grato occorre
13
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
14
la speme e breve ha la memoria il corso,
15
il rimembrar delle passate cose,
16
ancor che triste, e che l’affanno duri!
Il tema del ricordo ricorre molto spesso nella produzione letteraria di Leopardi. Il ricordo – come l’illusione e come il sogno – esalta la contemporanea presenza, nell’animo umano, del dolore e del piacere, i quali, pur non conciliandosi, sembrano confondersi nell’alternanza in un unico sentimento che esprime la condizione esistenziale dell’uomo.
L’apertura è sul versante della gioia: “O graziosa luna”. E “graziosa” significa sia “bella e leggiadra”, sia “benigna”. Ma subito (v. 3) irrompe il dolore: “io venia pien d’angoscia”. Quindi di nuovo la luce che sempre emana dalla Luna e illumina la terra. Poi il ricordo del dolore passato, che, però, sembra addolcirsi: fra le lacrime – è vero –, ma pur sempre è luce quella che appare agli occhi (luci anch’essi) del poeta. A questo punto la sferzata della ragione, in forma quasi eleatica: “è, né cangia stile” (v. 9), il dolore come l’Essere. Ma subito dopo una sorta di riconciliazione con la Natura: “o mia diletta luna”. E segue il piacere (“mi giova”) del ricordo, anche se è ricordo di cose dolorose e, pertanto, rinnova la tristezza.
Dopo
il l835, su una copia dell’ultima edizione a stampa, Leopardi
aggiunge i versi l3 e l4: una riflessione sulle sue convinzioni
giovanili e una presa di distanza da esse, che sottolinea però la
portata della funzione del ricordo, legandolo alla speranza. Di
fronte alla morte incombente (e quasi presentita dal poeta) le
certezze della ragione non sono piú scalfite dal sogno,
dall’illusione o dal ricordo; ma quando la vita – seppure con
tutto il suo bagaglio di dolore – appariva una via in gran parte da
percorrere, allora il ricordo non solo saldava il passato al
presente, ma offriva anche una prospettiva di speranza per il futuro.
Una sorta di dilatazione del presente verso l’eterno (e l’infinito)
che rammenta il tema nicciano dell’eterno ritorno. (filosofico.net)
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Felice Romani
Norma, 1831
Casta Diva che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel.
Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancor lo zelo audace,
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.
venerdì 20 giugno 2014
Vendola, l'esaurimento di un ruolo
Simone Lorenzati
Giovanni Carpinelli
La partita del futuro per Sel
Sembrerebbe l'ennesima riedizione di un copione già noto nella storia della sinistra italiana. Da Turati e Gramsci fino a Migliore e Fratoianni (eviteremmo imbarazzanti paragoni) c'è sempre stato chi voleva essere più a sinistra. Certo le situazioni non sono paragonabili ma il futuro di Sel pare fosse già scritto nel suo dna. Nata da una costola di destra di Rifondazione e da una di sinistra dei Ds (con un pezzo dei Verdi fedeli a Cento) Sel ha vissuto stretta tra l'altalenante amore per il proprio leader Vendola e un interesse marcato per il Pd. Quello che sembra esser semplice a livello di amministrazioni locali (ossia l'alleanza con il più grande partito di centrosinistra) diventa difficile a livello nazionale. A maggior ragione, poi, se il Pd e il governo vivono sulle spalle carismatiche e sfavillanti di Matteo Renzi. Vendola sembra aver puntato sul mantenimento di una collocazione incerta. E da ultimo ha perso. La sua stessa leaderhip ha subito con questo un colpo dal quale difficilmente si risolleverà. Già nelle recenti elezioni europee il dilemma si era ripresentato, con una parte dei vendoliani favorevole ad entrare nel Pse (e che aveva mal digerito il progetto Tsipras) ed un'altra schierata per l'ingresso nel Gue (e che mai avrebbe detto sì a Schultz). In mezzo, o in una posizione centrista, proprio il governatore pugliese impegnato nel tentativo di tenere unito un partito che, pur avendo con la lista Tsipras superato il quorum al 4%, oscillava assai (ed il caso Spinelli con Furfaro, esponente proprio di Sel, che doveva cederle il posto non ha certamente aiutato). L'impressione è che il decreto Irpef sui famosi 80 euro (per inciso una misura di redistribuzione, qualunque sia il giudizio che se ne voglia dare) sia stata solamente la scintilla che ha fatto scoppiare l'incendio. Il postino suona sempre due volte, si dice. Nella storia della sinistra italiana il messaggio dell'unità è stato spedito molte volte. Nel 1924, nel 1946, nel 1956 (Pralognan), nel 1968... Tanto per smentire la frase fatta, il postino ha parecchie volte bussato alla porta senza che nessuno rispondesse veramente all'appello. Per l'unità più vasta ci saranno forse altre occasioni, intanto c'è sempre qualcuno che pensa di preservare meglio il futuro nella distinzione e nella solitudine.
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LA FINE DI UN CICLO A SINISTRA
Stefano Folli
Dal debole antagonismo di Vendola alla sinistra «renziana» di governo
La secessione di Migliore è l'effetto, non la causa della crisi. Il premier oggi come una calamita
Il Sole 24 ore, 20 giugno 2014
Va rispettato il «profondo dolore» di Nichi Vendola, ma la vera causa della sua amarezza non può essere l'addio di Gennaro Migliore e di altri tre che hanno abbandonato Sinistra&Libertà. Il dolore di Vendola va riferito alla chiusura di un ciclo. Perché di questo realmente si tratta. Il capogruppo Migliore che se ne va è l'effetto, non la causa della crisi. E se ci sono «errori politici», come pensa il leader storico della sinistra ex antagonista, è un po' ingeneroso attribuirli tutti agli scissionisti di oggi. Gli errori li hanno commessi in tanti negli ultimi anni, a cominciare da Vendola stesso.
In fondo l'ambizione iniziale era generosa, nutrita di utopia, ma aveva un senso: creare una sorta di movimento "arcobaleno" alla sinistra del Partito Democratico in cui far confluire diversi filoni, ciascuno con le proprie delusioni e frustrazioni. Ecologisti e verdi di varie sfumature, ex comunisti (ma non tutti), pacifisti, una parte dei seguaci di Fausto Bertinotti, l'uomo che per anni aveva dato spessore e una prospettiva a quell'area politica e il cui abbandono aveva provocato, esso sì, uno strappo doloroso.
Tutto doveva essere filtrato e rigenerato dal leader Vendola con le sue qualità di affabulatore, padrone di un linguaggio forbito e narcisista, certo un po' fumoso. Si avvertiva un'ambiguità di fondo che partiva dal modo di comunicare e arrivava in un attimo alla linea politica. Pochi possono dire di aver capito con precisione cosa volesse Sel. Negli enti locali il partito vendoliano è stato ed è un partner del Pd in innumerevoli giunte. Ma sul piano nazionale è rimasto a metà strada. Né realmente antagonista né davvero determinato a far valere le sue proposte al tavolo del governo.
L'Italia cambiava, ma il leader sembrava prigioniero dei suoi schemi astratti, senza riuscire a dar voce a una classica sinistra «di classe» e tanto meno a una sinistra riformista. E il fatto che il caso dell'Ilva di Taranto sia esploso proprio nella Puglia di Vendola vuol dire qualcosa, anche sul piano simbolico. Si è accreditato il capo di Sel di un rapporto sotterraneo con Renzi, e magari sarà vero, ma i risultati non devono essere granché soddisfacenti, se si è arrivati alla spaccatura di ieri.
Ora Migliore e il gruppetto che lo segue, forse destinato a ingrossarsi nel tempo, tenteranno di costituire la sinistra del «renzismo». Non è importante se entreranno o meno nel Pd (probabilmente non lo faranno adesso), è interessante capire se riusciranno a occupare uno spazio politico che in effetti esiste. Perché se Renzi vuole essere una specie di Tony Blair all'italiana e quindi tende a rappresentare i ceti moderati, nonostante la presenza del Ncd di Alfano nel governo, è evidente che ci sono margini per un'ala sinistra che serva anche a coprire il "renzismo" su quel versante.
L'operazione può riuscire o forse no, vedremo. Quel che è certo, qualcosa si è messo in moto nel campo della sinistra. Soprattutto quella che un tempo vedeva se stessa come antagonista e oggi si è accorta che, almeno in questa fase storica, lo spazio si è ristretto: a meno di non andare sul terreno dei populismi, il cui sbocco però è a destra, come si vede nel caso Grillo-Farage. Il fenomeno Renzi è un'enorme calamita che attira a sé vecchi e nuovi soggetti, scompaginando gli schieramenti precostituiti. Di questa ondata Vendola è la vittima più recente, ma forse non l'ultima.
Giovanni Carpinelli
La partita del futuro per Sel
Sembrerebbe l'ennesima riedizione di un copione già noto nella storia della sinistra italiana. Da Turati e Gramsci fino a Migliore e Fratoianni (eviteremmo imbarazzanti paragoni) c'è sempre stato chi voleva essere più a sinistra. Certo le situazioni non sono paragonabili ma il futuro di Sel pare fosse già scritto nel suo dna. Nata da una costola di destra di Rifondazione e da una di sinistra dei Ds (con un pezzo dei Verdi fedeli a Cento) Sel ha vissuto stretta tra l'altalenante amore per il proprio leader Vendola e un interesse marcato per il Pd. Quello che sembra esser semplice a livello di amministrazioni locali (ossia l'alleanza con il più grande partito di centrosinistra) diventa difficile a livello nazionale. A maggior ragione, poi, se il Pd e il governo vivono sulle spalle carismatiche e sfavillanti di Matteo Renzi. Vendola sembra aver puntato sul mantenimento di una collocazione incerta. E da ultimo ha perso. La sua stessa leaderhip ha subito con questo un colpo dal quale difficilmente si risolleverà. Già nelle recenti elezioni europee il dilemma si era ripresentato, con una parte dei vendoliani favorevole ad entrare nel Pse (e che aveva mal digerito il progetto Tsipras) ed un'altra schierata per l'ingresso nel Gue (e che mai avrebbe detto sì a Schultz). In mezzo, o in una posizione centrista, proprio il governatore pugliese impegnato nel tentativo di tenere unito un partito che, pur avendo con la lista Tsipras superato il quorum al 4%, oscillava assai (ed il caso Spinelli con Furfaro, esponente proprio di Sel, che doveva cederle il posto non ha certamente aiutato). L'impressione è che il decreto Irpef sui famosi 80 euro (per inciso una misura di redistribuzione, qualunque sia il giudizio che se ne voglia dare) sia stata solamente la scintilla che ha fatto scoppiare l'incendio. Il postino suona sempre due volte, si dice. Nella storia della sinistra italiana il messaggio dell'unità è stato spedito molte volte. Nel 1924, nel 1946, nel 1956 (Pralognan), nel 1968... Tanto per smentire la frase fatta, il postino ha parecchie volte bussato alla porta senza che nessuno rispondesse veramente all'appello. Per l'unità più vasta ci saranno forse altre occasioni, intanto c'è sempre qualcuno che pensa di preservare meglio il futuro nella distinzione e nella solitudine.
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LA FINE DI UN CICLO A SINISTRA
Stefano Folli
Dal debole antagonismo di Vendola alla sinistra «renziana» di governo
La secessione di Migliore è l'effetto, non la causa della crisi. Il premier oggi come una calamita
Il Sole 24 ore, 20 giugno 2014
Va rispettato il «profondo dolore» di Nichi Vendola, ma la vera causa della sua amarezza non può essere l'addio di Gennaro Migliore e di altri tre che hanno abbandonato Sinistra&Libertà. Il dolore di Vendola va riferito alla chiusura di un ciclo. Perché di questo realmente si tratta. Il capogruppo Migliore che se ne va è l'effetto, non la causa della crisi. E se ci sono «errori politici», come pensa il leader storico della sinistra ex antagonista, è un po' ingeneroso attribuirli tutti agli scissionisti di oggi. Gli errori li hanno commessi in tanti negli ultimi anni, a cominciare da Vendola stesso.
In fondo l'ambizione iniziale era generosa, nutrita di utopia, ma aveva un senso: creare una sorta di movimento "arcobaleno" alla sinistra del Partito Democratico in cui far confluire diversi filoni, ciascuno con le proprie delusioni e frustrazioni. Ecologisti e verdi di varie sfumature, ex comunisti (ma non tutti), pacifisti, una parte dei seguaci di Fausto Bertinotti, l'uomo che per anni aveva dato spessore e una prospettiva a quell'area politica e il cui abbandono aveva provocato, esso sì, uno strappo doloroso.
Tutto doveva essere filtrato e rigenerato dal leader Vendola con le sue qualità di affabulatore, padrone di un linguaggio forbito e narcisista, certo un po' fumoso. Si avvertiva un'ambiguità di fondo che partiva dal modo di comunicare e arrivava in un attimo alla linea politica. Pochi possono dire di aver capito con precisione cosa volesse Sel. Negli enti locali il partito vendoliano è stato ed è un partner del Pd in innumerevoli giunte. Ma sul piano nazionale è rimasto a metà strada. Né realmente antagonista né davvero determinato a far valere le sue proposte al tavolo del governo.
L'Italia cambiava, ma il leader sembrava prigioniero dei suoi schemi astratti, senza riuscire a dar voce a una classica sinistra «di classe» e tanto meno a una sinistra riformista. E il fatto che il caso dell'Ilva di Taranto sia esploso proprio nella Puglia di Vendola vuol dire qualcosa, anche sul piano simbolico. Si è accreditato il capo di Sel di un rapporto sotterraneo con Renzi, e magari sarà vero, ma i risultati non devono essere granché soddisfacenti, se si è arrivati alla spaccatura di ieri.
Ora Migliore e il gruppetto che lo segue, forse destinato a ingrossarsi nel tempo, tenteranno di costituire la sinistra del «renzismo». Non è importante se entreranno o meno nel Pd (probabilmente non lo faranno adesso), è interessante capire se riusciranno a occupare uno spazio politico che in effetti esiste. Perché se Renzi vuole essere una specie di Tony Blair all'italiana e quindi tende a rappresentare i ceti moderati, nonostante la presenza del Ncd di Alfano nel governo, è evidente che ci sono margini per un'ala sinistra che serva anche a coprire il "renzismo" su quel versante.
L'operazione può riuscire o forse no, vedremo. Quel che è certo, qualcosa si è messo in moto nel campo della sinistra. Soprattutto quella che un tempo vedeva se stessa come antagonista e oggi si è accorta che, almeno in questa fase storica, lo spazio si è ristretto: a meno di non andare sul terreno dei populismi, il cui sbocco però è a destra, come si vede nel caso Grillo-Farage. Il fenomeno Renzi è un'enorme calamita che attira a sé vecchi e nuovi soggetti, scompaginando gli schieramenti precostituiti. Di questa ondata Vendola è la vittima più recente, ma forse non l'ultima.
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giovedì 19 giugno 2014
Un ricordo che supera la morte
Picasso, Ritratto di Apollinaire |
Ci
sarebbe da parlare a lungo di questa semplice poesia che va ben al di
là del suo oggetto apparente e immediato. Grandi temi la attraversano e la
sorreggono, la vita e la morte, la luce e l'ombra, la presenza e il
ricordo. Ciò che non è più può essere vivo per noi, quando i
pensieri arrivano a popolare tutto lo spazio intorno. Perfino l'eternità allora
acquista una misura ridotta da Dio che si umilia. Questo forse ha
voluto dire l'autore e molto altro che scoprirete leggendo.
OMBRA
Eccovi ancora con me
Ricordi dei miei compagni morti in guerra
Oliva del tempo
Ricordi che ormai siete un ricordo solo
Come cento pellicce una pelliccia
Come mille ferite fanno un articolo di giornale
Impalpabile oscura presenza avete preso
La forma mutevole della mia ombra
Indiano per sempre all'agguato
E mi strisciate accanto
Ma senza più sentirmi
Non sapendo più nulla delle divine poesie che canto
Mentre io vi sento io vi vedo ancora
Destini
Multipla ombra vi conservi il sole
Voi che mi amate tanto da non lasciarmi mai
E senza alzare polvere ballate nel sole
Ombra inchiostro del sole
Scrittura della mia luce
Cassone di rimpianti
Dio che si umilia
traduzione di Giovanni Raboni
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Vous voilà de nouveau près de moi
Souvenirs de mes compagnons morts à la guerre
L'olive du temps
Souvenirs qui n'en faites plus qu'un
Comme cent fourrures ne font qu'un manteau
Comme ces milliers de blessures ne font qu'un article de journal
Apparence impalpable et sombre qui avez pris
La forme changeante de mon ombre
Un Indien à l'affût pendant l'éternité
Ombre vous rampez près de moi
Mais vous ne m'entendez plus
Vous ne connaîtrez plus les poèmes divins que je chante
Tandis que moi je vous entends je vous vois encore
Destinées
Ombre multiple que le soleil vous garde
Vous qui m'aimez assez pour ne jamais me quitter
Et qui dansez au soleil sans faire de poussière
Ombre encre du soleil
Ecriture de ma lumière
Caisson de regrets
Un dieu qui s'humilie
Guillaume Apollinaire
Ombre (1916)
da Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre (1913-1916)
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Fin dalla sua fondazione la scrittura letteraria intrattiene un rapporto con i morti convocandoli nel testo, tentando un dialogo con essi o rivolgendosi loro come a un destinatario privilegiato. Dai celebri episodi omerici e virgiliano corre attraverso i secoli, nei generi più diversi e nelle varie letterature, un filo continuo che arriva fino al Novecento. Nel corso del XX secolo sono numerosissimi gli episodi di questo tema dalla vasta campitura antropologica sia nella prosa narrativa (Proust, Joyce, ad esempio) che nella poesia (Lee Masters, Eliot, Frénaud e, in Italia, Montale, Sereni, Caproni con tanti altri).
Enrico Testa, Eroi e figuranti, Einaudi, Torino 2009, capitolo 6: La narrazione dell'ombra, incipit.
mercoledì 18 giugno 2014
Mazzini sulla musica di Rossini
E
venne Rossini.
Rossini è un titano. Titano di potenza e d' audacia. Rossini è il Napoleone d' un' epoca musicale. Rossini, a chi ben guarda, ha compíto nella musica ciò che il romanticismo ha compìto in letteratura. Ha sancito l' indipendenza musicale: negato il principio d'autorità che i mille inetti a creare volevano imporre a chi crea, e dichiarata l' onnipotenza del genio. Quand' egli venne le vecchie regole pesavano sul cranio all' artista, come le teoriche d'imitazione, e le viete unità aristoteliche del classicismo inceppavan la mano a qualunque s' attentava di scriver drammi, o poemi. Ed egli si pose vendicatore di quanti gemevano, ma non osavano d' emanciparsene, di quella tirannide; gridò rivolta, e osò. Codesta è lode suprema; forse s' ei non osava -- se ai vecchi che gracchiavano: non fate, ei non si sentiva l' animo di rispondere: fo -- non rimarrebbe a quest'ora speranza di risorgimento alla musica, dal languore che minacciava occuparla ed isterilirla. Rossini, ispirandosi ad un bel tentativo di Mayer, e al genio che gli fremeva nell'anima, ruppe i sonni e l' incanto. Per lui la musica è salva. Per lui, parliamo oggi d' iniziativa musicale europea. Per lui, possiamo, senza presumere, aver fede che questa iniziativa escirà d'Italia e non d'altrove. Non però giova esagerare o frantendere la parte che spetta a Rossini ne' progressi dell' arte; la missione ch'egli s' assunse, è missione che non esce da' confini dell'epoca ch'oggi gridiamo spenta o vicina a spegnersi. È missione di genio compendiatore, non iniziatore. Non mutò, non distrusse la caratteristica antica della scuola italiana: la riconsacrò. Non introdusse un nuovo elemento che cancellasse o modificasse potentemente l' antico: promosse l' elemento dominatore al piú alto grado di sviluppo possibile; lo spinse all'ultima conseguenza: lo ridusse a formola, e lo ricollocò su quel trono d' onde i pedanti l'avevan cacciato senza pur pensare, che chi strugge un potere, ha debito di sostituirne un migliore. E i molti che guardano anch'oggi in Rossini, come in un creatore di scuola e di epoca musicale, come nel capo di una rivoluzione radicale nella tendenza e ne' destini dell'arte, travedono, dimenticano le condizioni nelle quali, poco innanzi a Rossini, si stava la musica, commettono lo stesso errore che s' è commesso intorno al romanticismo letterario da quanti han voluto trovarvi una fede, una teorica organica, una nuova sintesi di letteratura, e -- quel che è peggio -- perpetuano il passato, pur gridando avvenire. Rossini non creò, restaurò. Protestò -- ma non contro l' elemento generatore, non contro il concetto primitivo fondamentale della musica italiana; bensì a favore di quel concetto obliato per impotenza, contro la dittatura de' professori, contro la servilità dei discepoli, contro il vuoto che gli uni e gli altri facevano. Innovò, ma piú nella forma che nell' idea, piú ne' modi di sviluppo e d' applicazione che nel principio. Trovò nuove manifestazioni al pensiero dell' epoca; lo tradusse in mille guise diverse; lo incoronò di cosí minuto intaglio, di tanta fecondità d'accessorii, di tanto fiore d' ornato, che taluno potrà forse sederglisi a fianco, non superarlo: lo espose, lo svolse, lo tormentò fin che l' ebbe esaurito. Non lo varcò. Piú potente di fantasia che di profondo pensiero, o di profondo sentimento, genio di libertà e non di sintesi, intravvide forse, non abbracciò l' avvenire. Fors'anche privo di quella costanza e di quell'alterezza d' animo che non guarda, se non dietro le esequie, alle mille generazioni vegnenti, anziché a quell' una che si spegne con noi, cercò fama, non gloria; sacrificò all' idolo il Dio; adorò l' effetto, non l' intento, non la missione; però gli rimase potenza a costituire una setta, non a fondare una fede. Dov' è in Rossini l' elemento nuovo? Dove un fondamento di nuova scuola? Dove un concetto unico, dominatore di tutta la sua vita artistica, che armonizzi a epopea la serie delle sue composizioni? Chiedetelo ad ogni scena, o meglio ad ogni pezzo, ad ogni motivo delle sue musiche; non al sistema, non all'opere, non ad un' opera intera. L' edificio ch'egli ha innalzato, come quel di Nembrotte, ferisce il cielo; ma v' è dentro, come in quel di Nembrotte, confusione di lingue. L' individualità siede sulla cima: libera, sfrenata, bizzarra, rappresentata da una melodia brillante, determinata, evidente, come la sensazione che l' ha suggerita. Tutto in Rossini è appariscente, definito, saliente; l'indefinito, lo sfumato, l'aereo, che parrebbero appartenere piú specialmente all'indole della musica, han dato luogo, quasi fuggenti dinanzi all'invasione d' uno stile avventato, tagliente, d'una espressione musicale positiva, risentita, materialista. Diresti le melodie rossiniane scolpite a basso-rilievo. Diresti fossero sgorgate tutte dalla fantasia dell'artista sotto un cielo d' estate di Napoli, in sul meriggio, quando il sole inonda su tutte cose, quando batte verticalmente, e sopprime l' ombra de' corpi. È musica senz'ombra, senza misteri, senza crepuscolo. Esprime passioni decise, energicamente sentite, ira, dolore, amore, vendetta, giubilo, disperazione -- e tutte definite per modo che l' anima di chi ascolta è interamente passiva: soggiogata, trascinata, inattiva: -- gradazioni d' affetti intermedi, concomitanti, non sono o poche: aura del mondo invisibile che ci circonda, nessuna. Spesso l'istrumentazione accenna un eco di questo mondo e par si affacci all' infinito; ma quasi sempre retrocede, s' individualizza, e diventa anch' essa melodia - Rossini, e la scuola italiana di che egli ha riassunto e fuso in uno i diversi tentativi, i diversi sistemi, rappresentano l' uomo senza Dio, le potenze individuali non armonizzate da una legge suprema, non ordinate a un intento, non consacrate da una fede eterna.
Filosofia della musica, 1836
domenica 15 giugno 2014
Nečaev, Il catechismo del rivoluzionario
David Bidussa
Bakunin
Il lato oscuro del rivoluzionario
Chi abbraccia la lotta armata non mostra mai la propria personalità: dalla sua figura devono guardarsi gli amici prima che gli avversari
Il Sole 24 ore, 15 giugno 2014
Nel 1972 Franco Venturi, ripubblicando venti anni dopo la prima edizione La storia del populismo russo – il testo sul movimento rivoluzionario russo più noto e documentato nella storiografia internazionale del secondo dopoguerra – inserisce una lunga premessa in cui torna sulla figura Sergej Nečaev («un revenant che non si riesce a esorcizzare» scrive l'autore). In particolare Venturi si sofferma su Il catechismo del rivoluzionario, un normario stringato (10 pagine in tutto) che ci consegna la fisionomia del terrorista, una figura per il quale gli altri individui, compresi i propri compagni, sono solo mezzi per conseguire il fine. Con quella precisazione Venturi rende omaggio a uno storico Michael Confino (1926-2010), che pochi anni prima ha pubblicato quel testo (ma già aveva dedicato pagine alle ricerche di Confino sulla trasformazione economica del mondo rurale russo). Nel 1973 Confino raccoglie in volume altri documenti insieme al Catechismo, facendoli precedere da un saggio critico di grande qualità. La prima edizione esce in Francia per Maspero, casa editrice di nuova sinistra, in una collana che si chiama «Bibliothèque socialiste» (diretta da un grande storico del socialismo europeo, Georges Haupt). E suscita una discussione accesa. In Italia esce per Adelphi nel 1976, passa sotto silenzio o comunque ne discutono solo gli specialisti. Peccato, perché negli anni in cui la lotta armata ha un peso nella definizione dello stato d'animo collettivo, non sarebbe stato fuori luogo prenderlo in mano e analizzarlo con attenzione. Non lo fanno né la sinistra né la destra. Forse sarà possibile oggi, con questa nuova ristampa che significativamente non aggiunge niente a quella edizione del lontano 1976 (il saggio di Confino ha la stessa freschezza di allora). Di che si tratta dunque? L'episodio copre un tempo di un anno scarso. Nel 1869 irrompe nella vita del glorioso, ma ormai anziano capo dell'anarchismo, Bakunin, un giovane di ventidue anni, Sergej Nečaev, che arriva dalla Russia accompagnato da voci disparate: secondo alcuni il più radicale e puro dei rivoluzionari, per altri un abietto mistificatore. Bakunin ne rimarrà affascinato, a differenza di Alexander Herzen* da subito diffidente, e solo dopo alcuni mesi uscirà da questa sua convinzione sanzionando la rottura con con una lettera drammatica, lunga, tormentata che spedisce a Necvaev il 2 giugno 1870 (pagg. 133-187). In quella lettera scrive Bakunin: «Vi siete messo a giocare al gesuitismo come un bambino gioca alle bambole». Non senza rimproverare se stesso: «credendo incondizionatamente in voi mi sono dimostrato uno stupido» (pagg. 174 e 180). In mezzo ci sono questioni di soldi, di fiducia malriposta, di violenza, di doppiezza, di uso della malafede. In breve tutta la gamma delle sensibilità su cui lavora il "terrorista", figura votata a non dare mai mostra integrale della propria personalità. A giocare con gli avversari, ma anche pronto a servirsi e a sfruttare le debolezze dei propri compagni. Una fisionomia che Dostoevskij riproduce ne I demoni non solo in rapporto al tema della violenza, ma soprattutto rispetto al tema della finzione. Un mondo, quello del terrorista, fondato sulla finzione, ritenuta vera attraverso l'ambiguità (per esempio Piotr Verchovenskij, uno che finge come molti altri). I rivoluzionari di Dostoevskij non sono superiori alla società che contestano, ma una copia conforme. Aspetto che Camus descrive con precisione ne L'uomo in rivolta: lì Nečaev è la figura che sancisce il divorzio tra rivoluzione e amicizia, un sentimento che, da Cromwell in poi, ha fondato l'etica dei rivoluzionari. Con Nečaev il vincolo di protezione reciproca che aveva salvato i rivoluzionari si dissolve: ciò che ora va protetto è la rivoluzione, anche a costo della vita dei propri compagni. Essa va salvaguardata non solo da loro, ma anche contro di loro. Essa diviene la cosa che vale di più e per la quale tutto è lecito. È la partita che si gioca nell'estate di 150 anni fa. Una storia appassionante e inquietante. Confino ha il merito di darci una radiografia, ma soprattutto di illustrarci il costrutto concettuale ed emozionale (sbaglieremmo a pensare che ci sia solo freddezza in Nečaev) di ciò che ora è il rivoluzionario in missione. Una figura da cui devono guardarsi gli amici, prima ancora che gli avversari.
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(*) Campione della giustizia e dell' uguaglianza, Herzen non avrebbe capito o accettato una contrapposizione di questi valori alla liberta' e alla personalità, poiché sapeva che ogni uguaglianza senza libertà personale è falsa e ingiusta, portando alla peggiore gerarchia tra "uguali" sottoposti e sovrastanti guardiani di questo stato, mentre solo la libertà può aprire la via verso un' uguaglianza non utopica, ma reale. E la libertà di Herzen fu tale che egli seppe non rinnegare, bensi' ripensare e rifiutare suoi vecchi convincimenti, sottoponendo a critica se stesso e i suoi compagni di un tempo. Il suo scritto culminante e illuminante, oggi piu' attuale che mai, è A un vecchio compagno (edito anni fa da Einaudi), in cui, polemizzando anche con l' amico Bakunin, rimette in questione la dialettica rivoluzionaria, vedendone orrore e terrore. Libro profetico, A un vecchio compagno, dove la veggenza è frutto delle due qualita' herzeniane, senso della realta' e senso della libertà, che lo resero unico tra i rivoluzionari. Vittorio Strada, Herzen, rivoluzione e libertà, CdS, 2 aprile 1994
Bakunin
Il lato oscuro del rivoluzionario
Chi abbraccia la lotta armata non mostra mai la propria personalità: dalla sua figura devono guardarsi gli amici prima che gli avversari
Il Sole 24 ore, 15 giugno 2014
Nel 1972 Franco Venturi, ripubblicando venti anni dopo la prima edizione La storia del populismo russo – il testo sul movimento rivoluzionario russo più noto e documentato nella storiografia internazionale del secondo dopoguerra – inserisce una lunga premessa in cui torna sulla figura Sergej Nečaev («un revenant che non si riesce a esorcizzare» scrive l'autore). In particolare Venturi si sofferma su Il catechismo del rivoluzionario, un normario stringato (10 pagine in tutto) che ci consegna la fisionomia del terrorista, una figura per il quale gli altri individui, compresi i propri compagni, sono solo mezzi per conseguire il fine. Con quella precisazione Venturi rende omaggio a uno storico Michael Confino (1926-2010), che pochi anni prima ha pubblicato quel testo (ma già aveva dedicato pagine alle ricerche di Confino sulla trasformazione economica del mondo rurale russo). Nel 1973 Confino raccoglie in volume altri documenti insieme al Catechismo, facendoli precedere da un saggio critico di grande qualità. La prima edizione esce in Francia per Maspero, casa editrice di nuova sinistra, in una collana che si chiama «Bibliothèque socialiste» (diretta da un grande storico del socialismo europeo, Georges Haupt). E suscita una discussione accesa. In Italia esce per Adelphi nel 1976, passa sotto silenzio o comunque ne discutono solo gli specialisti. Peccato, perché negli anni in cui la lotta armata ha un peso nella definizione dello stato d'animo collettivo, non sarebbe stato fuori luogo prenderlo in mano e analizzarlo con attenzione. Non lo fanno né la sinistra né la destra. Forse sarà possibile oggi, con questa nuova ristampa che significativamente non aggiunge niente a quella edizione del lontano 1976 (il saggio di Confino ha la stessa freschezza di allora). Di che si tratta dunque? L'episodio copre un tempo di un anno scarso. Nel 1869 irrompe nella vita del glorioso, ma ormai anziano capo dell'anarchismo, Bakunin, un giovane di ventidue anni, Sergej Nečaev, che arriva dalla Russia accompagnato da voci disparate: secondo alcuni il più radicale e puro dei rivoluzionari, per altri un abietto mistificatore. Bakunin ne rimarrà affascinato, a differenza di Alexander Herzen* da subito diffidente, e solo dopo alcuni mesi uscirà da questa sua convinzione sanzionando la rottura con con una lettera drammatica, lunga, tormentata che spedisce a Necvaev il 2 giugno 1870 (pagg. 133-187). In quella lettera scrive Bakunin: «Vi siete messo a giocare al gesuitismo come un bambino gioca alle bambole». Non senza rimproverare se stesso: «credendo incondizionatamente in voi mi sono dimostrato uno stupido» (pagg. 174 e 180). In mezzo ci sono questioni di soldi, di fiducia malriposta, di violenza, di doppiezza, di uso della malafede. In breve tutta la gamma delle sensibilità su cui lavora il "terrorista", figura votata a non dare mai mostra integrale della propria personalità. A giocare con gli avversari, ma anche pronto a servirsi e a sfruttare le debolezze dei propri compagni. Una fisionomia che Dostoevskij riproduce ne I demoni non solo in rapporto al tema della violenza, ma soprattutto rispetto al tema della finzione. Un mondo, quello del terrorista, fondato sulla finzione, ritenuta vera attraverso l'ambiguità (per esempio Piotr Verchovenskij, uno che finge come molti altri). I rivoluzionari di Dostoevskij non sono superiori alla società che contestano, ma una copia conforme. Aspetto che Camus descrive con precisione ne L'uomo in rivolta: lì Nečaev è la figura che sancisce il divorzio tra rivoluzione e amicizia, un sentimento che, da Cromwell in poi, ha fondato l'etica dei rivoluzionari. Con Nečaev il vincolo di protezione reciproca che aveva salvato i rivoluzionari si dissolve: ciò che ora va protetto è la rivoluzione, anche a costo della vita dei propri compagni. Essa va salvaguardata non solo da loro, ma anche contro di loro. Essa diviene la cosa che vale di più e per la quale tutto è lecito. È la partita che si gioca nell'estate di 150 anni fa. Una storia appassionante e inquietante. Confino ha il merito di darci una radiografia, ma soprattutto di illustrarci il costrutto concettuale ed emozionale (sbaglieremmo a pensare che ci sia solo freddezza in Nečaev) di ciò che ora è il rivoluzionario in missione. Una figura da cui devono guardarsi gli amici, prima ancora che gli avversari.
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(*) Campione della giustizia e dell' uguaglianza, Herzen non avrebbe capito o accettato una contrapposizione di questi valori alla liberta' e alla personalità, poiché sapeva che ogni uguaglianza senza libertà personale è falsa e ingiusta, portando alla peggiore gerarchia tra "uguali" sottoposti e sovrastanti guardiani di questo stato, mentre solo la libertà può aprire la via verso un' uguaglianza non utopica, ma reale. E la libertà di Herzen fu tale che egli seppe non rinnegare, bensi' ripensare e rifiutare suoi vecchi convincimenti, sottoponendo a critica se stesso e i suoi compagni di un tempo. Il suo scritto culminante e illuminante, oggi piu' attuale che mai, è A un vecchio compagno (edito anni fa da Einaudi), in cui, polemizzando anche con l' amico Bakunin, rimette in questione la dialettica rivoluzionaria, vedendone orrore e terrore. Libro profetico, A un vecchio compagno, dove la veggenza è frutto delle due qualita' herzeniane, senso della realta' e senso della libertà, che lo resero unico tra i rivoluzionari. Vittorio Strada, Herzen, rivoluzione e libertà, CdS, 2 aprile 1994
Il libretto rosso di Mao
Guido Vitiello
Fulminati da Mao. L'elettrizzante storia del libretto rosso
Il Foglio quotidiano, 15 giugno 2014
Se per le vie di Roma vi capitasse di avvistare un tizio leggermente bruciacchiato che deambula con lo sguardo perso e i capelli da istrice, niente paura, quello sono io. Ma non state in pensiero per me, è solo che ho avuto l’imprudenza di infilare le dita in un libro ad alta tensione e sono state trecento pagine di scosse e cortocircuiti senza tregua. S’intitola Mao’s Little Red Book. A Global History, lo ha curato lo storico americano Alexander C. Cook e lo ha pubblicato da poco più di un mese la Cambridge University Press. È un primo tentativo di tracciare una storia planetaria del Libretto rosso di Mao a cinquant’anni dalla sua apparizione, e d’inseguirne gli usi e gli abusi in Cina, in Unione Sovietica, in India, in Tanzania, in Jugoslavia, in Francia, in Albania, nelle due Germanie, in Perù e ovviamente in Italia (è l’inserto comico del libro), tutti paesi in cui è stato trasformato di volta in volta in “retorica, arte, canzone, performance, accessorio, simbolo, talismano, distintivo e arma”. Richiuse le pagine, dopo un’ultima vampa, la mia testa friggeva come un fusibile bruciato, ma se pensiamo che il generale Lin Biao prestò al Libretto la più minacciosa metafora di “una bomba atomica spirituale di infinita potenza”, si può dire che mi è andata bene.
Il primo cortocircuito s’innesca già nel Libretto di Mao, tra due generi lontanissimi: uno moderno e d’importazione, il manuale d’indottrinamento ideologico marxista-leninista; l’altro antichissimo e autoctono, la raccolta di massime sapienziali o religiose. Fu lo stesso Mao, che amava vestire i paramenti del saggio venerando, a paragonare il Libretto rosso agli Analetti di Confucio e al Tao tê ching, e a suggerire che questo formato gnomico (il cosiddetto yulu) fosse da privilegiare perché, diceva, “gli scritti di Marx, Engels e Lenin sono troppo lunghi”. I successivi cortocircuiti derivano dalla fiammata di questo strano contatto originario, e si producono a catena quando il Libretto, varcati con qualche resistenza i confini cinesi (entro i quali in origine avrebbe dovuto restare, per servire all’istruzione dei militari, tanto che era vietato persino menzionarlo in presenza di stranieri), approda finalmente in Occidente. Qui si sprigiona un nuovo ronzio elettrico quando lo stile tradizionale della massima confuciana, adattata al credo marxista-leninista, incontra lo stile moderno dello slogan (sessantottino o pubblicitario), le citazioni di Mao si disseminano ovunque e non si capisce più, dice Cook, se la popolarità del Libretto sia il segno che la rivoluzione si sta appropriando della forma-merce o che la forma-merce si sta appropriando della rivoluzione. L’unica cosa certa è che la collisione tra i due mondi crea un ulteriore cortocircuito, quello tra le formule della liturgia rivoluzionaria e i tormentoni della musica pop. Nel capitolo più originale, “Quotation songs”, Andrew F. Jones parla delle canzoni che in Cina, dal 1966, mettevano in musica le citazioni di Mao per offrire un supporto mnemotecnico, e vi trova una inaspettata analogia con la ricerca del motivetto accattivante, ipnotico come un mantra, che animava il coevo rock occidentale.
Dal trattato ideologico alla massima sapienziale, dalla massima allo slogan, dallo slogan al mantra, ed è così che al termine di una sequela di cortocircuiti quel che resta nell’aria è come il ronzio di una sacra sillaba, e un bruciaticcio d’incenso cerimoniale. Ma questo in verità non l’ho imparato dal libro di Cook, come farebbe una persona seria, bensì dalla commedia italiana più negletta e infrequentabile, che aveva capito per tempo quanto vi fosse di bigotto e catechistico nel maoismo nostrano: l’ho imparato dal Ciccio Ingrassia dell’Esorciccio (1975), che liberava l’indemoniata non già con il Vangelo ma con il Libretto rosso (“In nome di Mao ti espello!”); e dal film più sfortunato di Monicelli, To’, è morta la nonna (1969), dove un nipote comunicava medianicamente con il cadavere della cara nonna tramite citazioni del Grande Timoniere. A proposito, la vecchia nel film moriva fulminata dalla corrente elettrica.
Fulminati da Mao. L'elettrizzante storia del libretto rosso
Il Foglio quotidiano, 15 giugno 2014
Se per le vie di Roma vi capitasse di avvistare un tizio leggermente bruciacchiato che deambula con lo sguardo perso e i capelli da istrice, niente paura, quello sono io. Ma non state in pensiero per me, è solo che ho avuto l’imprudenza di infilare le dita in un libro ad alta tensione e sono state trecento pagine di scosse e cortocircuiti senza tregua. S’intitola Mao’s Little Red Book. A Global History, lo ha curato lo storico americano Alexander C. Cook e lo ha pubblicato da poco più di un mese la Cambridge University Press. È un primo tentativo di tracciare una storia planetaria del Libretto rosso di Mao a cinquant’anni dalla sua apparizione, e d’inseguirne gli usi e gli abusi in Cina, in Unione Sovietica, in India, in Tanzania, in Jugoslavia, in Francia, in Albania, nelle due Germanie, in Perù e ovviamente in Italia (è l’inserto comico del libro), tutti paesi in cui è stato trasformato di volta in volta in “retorica, arte, canzone, performance, accessorio, simbolo, talismano, distintivo e arma”. Richiuse le pagine, dopo un’ultima vampa, la mia testa friggeva come un fusibile bruciato, ma se pensiamo che il generale Lin Biao prestò al Libretto la più minacciosa metafora di “una bomba atomica spirituale di infinita potenza”, si può dire che mi è andata bene.
Il primo cortocircuito s’innesca già nel Libretto di Mao, tra due generi lontanissimi: uno moderno e d’importazione, il manuale d’indottrinamento ideologico marxista-leninista; l’altro antichissimo e autoctono, la raccolta di massime sapienziali o religiose. Fu lo stesso Mao, che amava vestire i paramenti del saggio venerando, a paragonare il Libretto rosso agli Analetti di Confucio e al Tao tê ching, e a suggerire che questo formato gnomico (il cosiddetto yulu) fosse da privilegiare perché, diceva, “gli scritti di Marx, Engels e Lenin sono troppo lunghi”. I successivi cortocircuiti derivano dalla fiammata di questo strano contatto originario, e si producono a catena quando il Libretto, varcati con qualche resistenza i confini cinesi (entro i quali in origine avrebbe dovuto restare, per servire all’istruzione dei militari, tanto che era vietato persino menzionarlo in presenza di stranieri), approda finalmente in Occidente. Qui si sprigiona un nuovo ronzio elettrico quando lo stile tradizionale della massima confuciana, adattata al credo marxista-leninista, incontra lo stile moderno dello slogan (sessantottino o pubblicitario), le citazioni di Mao si disseminano ovunque e non si capisce più, dice Cook, se la popolarità del Libretto sia il segno che la rivoluzione si sta appropriando della forma-merce o che la forma-merce si sta appropriando della rivoluzione. L’unica cosa certa è che la collisione tra i due mondi crea un ulteriore cortocircuito, quello tra le formule della liturgia rivoluzionaria e i tormentoni della musica pop. Nel capitolo più originale, “Quotation songs”, Andrew F. Jones parla delle canzoni che in Cina, dal 1966, mettevano in musica le citazioni di Mao per offrire un supporto mnemotecnico, e vi trova una inaspettata analogia con la ricerca del motivetto accattivante, ipnotico come un mantra, che animava il coevo rock occidentale.
Dal trattato ideologico alla massima sapienziale, dalla massima allo slogan, dallo slogan al mantra, ed è così che al termine di una sequela di cortocircuiti quel che resta nell’aria è come il ronzio di una sacra sillaba, e un bruciaticcio d’incenso cerimoniale. Ma questo in verità non l’ho imparato dal libro di Cook, come farebbe una persona seria, bensì dalla commedia italiana più negletta e infrequentabile, che aveva capito per tempo quanto vi fosse di bigotto e catechistico nel maoismo nostrano: l’ho imparato dal Ciccio Ingrassia dell’Esorciccio (1975), che liberava l’indemoniata non già con il Vangelo ma con il Libretto rosso (“In nome di Mao ti espello!”); e dal film più sfortunato di Monicelli, To’, è morta la nonna (1969), dove un nipote comunicava medianicamente con il cadavere della cara nonna tramite citazioni del Grande Timoniere. A proposito, la vecchia nel film moriva fulminata dalla corrente elettrica.
sabato 14 giugno 2014
Quello che Berlinguer aveva capito
Marcello Sorgi
Il partito diviso e l’eredità di Berlinguer
La Stampa, 14 giugno 2014
Matteo Renzi affronta oggi la direzione del Pd cercando di costruire un assetto unitario del partito che gli consentirebbe di affrontare meglio di quanto è accaduto nell’ultima settimana - tra franchi tiratori e dissidenti espulsi e auto sospesi al Senato - le scadenze che lo attendono. Finora lo scontro tra il premier e i suoi oppositori interni è stato rappresentato come una prosecuzione della lunga battaglia che lo ha portato alla segreteria al posto di Bersani e poi a Palazzo Chigi. In sintesi, il braccio di ferro finale tra il giovane leader cattolico e post-democristiano e quel che resta degli ultimi post-comunisti. Uno schema fin troppo chiaramente semplificatorio, dal momento che gran parte degli ex-Pci sono schierati con il segretario e Renzi stesso non può essere considerato erede diretto della tradizione Dc. A una rappresentazione del genere hanno contribuito anche alcune superficialità (poi corrette dal segretario) dei renziani sulle distinzioni tra vecchio e nuovo nel Pd. Renzi avrebbe invece una carta importante da giocare, proprio recuperando alcune delle più innovative - e inascoltate - proposte fatte dal Pci nella seconda fase della segreteria berlingueriana, dopo la fine del compromesso storico e prima del corpo a corpo, negli anni della presidenza socialista, tra Craxi e il leader comunista. Le ha ricordate Emanuele Macaluso, commemorando alla Camera il leader scomparso trent’anni fa. Ai post-comunisti della commissione lavoro di Montecitorio, schierati contro la riforma del lavoro del ministro Poletti, e pronti alla resistenza al «Jobs Act», Renzi potrebbe opporre il Berlinguer che proponeva «la riforma della struttura del salario, per stabilire un legame più diretto delle retribuzioni con la professionalità e la produttività». E ai senatori contrari alla riforma del Senato potrebbe rammentare il Berlinguer favorevole al «superamento del bicameralismo», al rafforzamento «dell’efficienza e dei poteri dell’esecutivo», e al cambiamento «dei criteri di nomina negli enti pubblici per por fine alla lottizzazione». Per concludere con il Berlinguer della «questione morale». Un allarme rivolto a tutti, Pci compreso: «La questione morale s’è aperta in Italia perché gli interessi di partito sono diventati così predominanti da correre contro l’interesse generale. Questo è lo stato delle cose da cambiare, per evitare una rivolta contro tutti i partiti». Queste cose diceva Berlinguer nell’83: dieci anni prima di Tangentopoli e trenta prima di Renzi, Grillo e del gorgo che, dopo la Prima, sta inghiottendo anche la Seconda Repubblica.
Il partito diviso e l’eredità di Berlinguer
La Stampa, 14 giugno 2014
Matteo Renzi affronta oggi la direzione del Pd cercando di costruire un assetto unitario del partito che gli consentirebbe di affrontare meglio di quanto è accaduto nell’ultima settimana - tra franchi tiratori e dissidenti espulsi e auto sospesi al Senato - le scadenze che lo attendono. Finora lo scontro tra il premier e i suoi oppositori interni è stato rappresentato come una prosecuzione della lunga battaglia che lo ha portato alla segreteria al posto di Bersani e poi a Palazzo Chigi. In sintesi, il braccio di ferro finale tra il giovane leader cattolico e post-democristiano e quel che resta degli ultimi post-comunisti. Uno schema fin troppo chiaramente semplificatorio, dal momento che gran parte degli ex-Pci sono schierati con il segretario e Renzi stesso non può essere considerato erede diretto della tradizione Dc. A una rappresentazione del genere hanno contribuito anche alcune superficialità (poi corrette dal segretario) dei renziani sulle distinzioni tra vecchio e nuovo nel Pd. Renzi avrebbe invece una carta importante da giocare, proprio recuperando alcune delle più innovative - e inascoltate - proposte fatte dal Pci nella seconda fase della segreteria berlingueriana, dopo la fine del compromesso storico e prima del corpo a corpo, negli anni della presidenza socialista, tra Craxi e il leader comunista. Le ha ricordate Emanuele Macaluso, commemorando alla Camera il leader scomparso trent’anni fa. Ai post-comunisti della commissione lavoro di Montecitorio, schierati contro la riforma del lavoro del ministro Poletti, e pronti alla resistenza al «Jobs Act», Renzi potrebbe opporre il Berlinguer che proponeva «la riforma della struttura del salario, per stabilire un legame più diretto delle retribuzioni con la professionalità e la produttività». E ai senatori contrari alla riforma del Senato potrebbe rammentare il Berlinguer favorevole al «superamento del bicameralismo», al rafforzamento «dell’efficienza e dei poteri dell’esecutivo», e al cambiamento «dei criteri di nomina negli enti pubblici per por fine alla lottizzazione». Per concludere con il Berlinguer della «questione morale». Un allarme rivolto a tutti, Pci compreso: «La questione morale s’è aperta in Italia perché gli interessi di partito sono diventati così predominanti da correre contro l’interesse generale. Questo è lo stato delle cose da cambiare, per evitare una rivolta contro tutti i partiti». Queste cose diceva Berlinguer nell’83: dieci anni prima di Tangentopoli e trenta prima di Renzi, Grillo e del gorgo che, dopo la Prima, sta inghiottendo anche la Seconda Repubblica.
venerdì 13 giugno 2014
La Cina venticinque anni dopo Tienanmen
Piero Fornara
Capire l'ascesa della Cina da Mao a oggi, 25 anni dopo piazza Tienanmen
Il Sole 24 ore, 4 giugno 2014
Il 4 giugno 1989 a Pechino, nelle prime ore del mattino, la speranza di una "primavera democratica" cinese si spegneva nel sangue, tra lo sdegno dell'opinione pubblica mondiale e la condanna (più formale che reale) dei governi occidentali. A distanza di venticinque anni non è possibile stabilire con precisione il numero dei caduti sotto i colpi dei soldati, che sparavano anche con le mitragliatrici, o travolti dai carri armati (le stime delle vittime vanno da alcune centinaia ad alcune migliaia).
In vista dell'anniversario della strage di piazza Tienanmen, nelle ultime settimane sarebbero stati arrestati una ventina di accademici, avvocati e artisti vicini alla dissidenza. Anche numerosi siti internet di Google sono stati bloccati dalle autorità cinesi. Lo ha reso noto un gruppo di monitoraggio della censura, "GreatFire.org", secondo cui risultano bloccate le versioni oltreoceano di Google, accessibili in Cina dopo che il gigante di internet aveva abbandonato il continente nel 2010 proprio per la censura.
Nel 1989 la scintilla che avrebbe acceso la rivolta era scoppiata
nella seconda metà di aprile, durante il funerale del "riformista" Hu
Yaobang, una delle menti più aperte della leadership cinese dell'epoca,
epurato per le sue posizioni liberali. La notizia della sua morte per
infarto aveva creato grande emozione tra gli studenti e tra coloro che -
in un Paese che già da un decennio aveva iniziato a seguire
l'esortazione di Deng Xiaoping ("arricchitevi!") - oltre alla libertà
economica avevano a cuore anche quella politica. Hu, ex delfino di Mao
Zedong, esponente illuminato del Partito comunista, del quale era stato
segretario generale, incarnava l'ideale del leader moderno che avrebbe
potuto imprimere un passo nuovo all'impetuoso sviluppo della Cina.
Quanti volevano ricordarlo iniziarono a radunarsi in piazza Tienanmen a Pechino. Allora non esistevano i telefoni cellulari o i social media e non c'era Weibo, il mix cinese tra Facebook e Twitter, che oggi le autorità comuniste tentano di tenere sotto controllo: si faceva affidamento sul passaparola. I manifestanti chiedevano al Partito di assumere una posizione ufficiale nei confronti di Hu, che già tre anni prima, nel 1986, aveva sostenuto le proteste degli studenti, pagando il prezzo dell'emarginazione politica.
Come ricorda Linda Benson nel libro «La Cina dal 1949 a oggi», pubblicato di recente nelle edizioni del Mulino, «il Pcc doveva affrontare chiaramente una situazione difficile, che si complicò ulteriormente in vista dell'arrivo a Pechino di Michail Gorbaciov, l'architetto delle riforme sovietiche: a metà maggio infatti, per la prima volta dal 1959, un capo di Stato dell'Urss avrebbe visitato la Cina. (…) Alla fine la visita di Gorbaciov si svolse come da programma, ma i consueti cerimoniali di benvenuto in piazza Tienanmen dovettero essere sospesi, mentre le televisioni internazionali riprendevano gli studenti che esponevano cartelli inneggianti alla "perestrojka" e alla "glasnost", con grande imbarazzo da parte dei dirigenti del Partito».
Dopo che Deng Xiaoping (artefice delle riforme economiche e dell'apertura della Cina verso l'Occidente) aveva dichiarato che bisognava fermare la protesta degli studenti e degli intellettuali, il 20 maggio a Pechino veniva proclamata la legge marziale. «Nel comitato centrale del Partito – prosegue l'autrice del nostro libro - solo Zhao Ziyang, che sembrava essere il successore designato di Deng, votò contro, ma questo atto gli costò il posto: il 24 maggio fu destituito dalla carica di segretario generale e in seguito posto agli arresti domiciliari (dove rimarrà fino alla sua morte nel 2006)». Il 3 giugno le truppe giunte a Pechino dalle altre regioni della Cina cominciarono a convergere verso il centro della città. Nella notte aprirono il fuoco sui manifestanti.
Soltanto i negoziati dell'ultimo minuto fra le forze armate e gli ultimi dimostranti rimasti nel lato sud di piazza Tienanmen permisero a questi di ritirarsi. Il controllo del Paese resterà nelle mani degli uomini di Deng, Li Peng e Jiang Zemin, ma il sogno di una Cina democratica diventerà molto più lontano.
La traiettoria del libro di Linda Benson, che insegna Storia cinese presso la Oakland University negli Stati Uniti, prende le mosse dall'instaurarsi del regime comunista di Mao nel 1949 per concludersi con un'analisi delle grandi sfide che il paese si trova oggi ad affrontare, al proprio interno e nell'arena internazionale.
Lo spettacolare emergere della Cina come potenza economica mondiale è uno dei fenomeni più rilevanti dell'epoca attuale. Nella prima metà del Novecento milioni di cinesi vivevano ancora in povertà, nelle campagne come nelle città. Grazie alla crescita tecnologica e industriale la società cinese può godere di un benessere mai sinora sperimentato. Alla fine di aprile uno studio della Banca mondiale, elaborato nell'ambito dell'International Comparison Program, ha persino stimato che entro la fine di quest'anno il Pil cinese – valutato a parità di potere d'acquisto – potrebbe già superare quello americano.
Contestualmente sono però cresciuti anche i timori sul modello di "sviluppo pacifico" della Cina come prossima superpotenza. «L'Occidente – scrive la Benson nel capitolo conclusivo – continua a guardare con sospetto al ruolo del Pcc e al suo controllo sul governo cinese (…) inconciliabile con l'idea di buon governo e di rispetto dei diritti umani fondamentali». Nel suo ultimo numero, il settimanale «The Economist» scrive che la Cina, dai fatti di piazza Tienanmen a oggi, ha vissuto un periodo di prolungata stabilità e che la leadership dell'attuale presidente Xi Jinping può essere considerata altrettanto forte quanto quella di cui disponeva allora Deng Xiaoping.
Tuttavia non mancano le incognite. «Il divario fra la realtà urbana e quella rurale rimane uno dei problemi più gravi che il governo deve affrontare, perché la grande maggioranza della popolazione non ha ancora beneficiato delle nuove ricchezze». Vi sono poi all'interno dell'opinione pubblica tendenze di altra natura, «come la mancanza di trasparenza che ha permesso quelle forme di corruzione che hanno fatto accumulare fortune personali a chi era ben inserito nel sistema». Se nel prossimo futuro il governo di Pechino non riuscirà ad assicurare un tenore di vita accettabile per la maggior parte della popolazione e se le pratiche di corruzione dovessero continuare, «il Partito potrebbe avere difficoltà nel mantenersi al potere come legittima autorità».
Linda Benson
«La Cina dal 1949 a oggi»
Il Mulino, Bologna, pagg. 223, € 15,00
Capire l'ascesa della Cina da Mao a oggi, 25 anni dopo piazza Tienanmen
Il Sole 24 ore, 4 giugno 2014
Il 4 giugno 1989 a Pechino, nelle prime ore del mattino, la speranza di una "primavera democratica" cinese si spegneva nel sangue, tra lo sdegno dell'opinione pubblica mondiale e la condanna (più formale che reale) dei governi occidentali. A distanza di venticinque anni non è possibile stabilire con precisione il numero dei caduti sotto i colpi dei soldati, che sparavano anche con le mitragliatrici, o travolti dai carri armati (le stime delle vittime vanno da alcune centinaia ad alcune migliaia).
In vista dell'anniversario della strage di piazza Tienanmen, nelle ultime settimane sarebbero stati arrestati una ventina di accademici, avvocati e artisti vicini alla dissidenza. Anche numerosi siti internet di Google sono stati bloccati dalle autorità cinesi. Lo ha reso noto un gruppo di monitoraggio della censura, "GreatFire.org", secondo cui risultano bloccate le versioni oltreoceano di Google, accessibili in Cina dopo che il gigante di internet aveva abbandonato il continente nel 2010 proprio per la censura.
Quanti volevano ricordarlo iniziarono a radunarsi in piazza Tienanmen a Pechino. Allora non esistevano i telefoni cellulari o i social media e non c'era Weibo, il mix cinese tra Facebook e Twitter, che oggi le autorità comuniste tentano di tenere sotto controllo: si faceva affidamento sul passaparola. I manifestanti chiedevano al Partito di assumere una posizione ufficiale nei confronti di Hu, che già tre anni prima, nel 1986, aveva sostenuto le proteste degli studenti, pagando il prezzo dell'emarginazione politica.
Come ricorda Linda Benson nel libro «La Cina dal 1949 a oggi», pubblicato di recente nelle edizioni del Mulino, «il Pcc doveva affrontare chiaramente una situazione difficile, che si complicò ulteriormente in vista dell'arrivo a Pechino di Michail Gorbaciov, l'architetto delle riforme sovietiche: a metà maggio infatti, per la prima volta dal 1959, un capo di Stato dell'Urss avrebbe visitato la Cina. (…) Alla fine la visita di Gorbaciov si svolse come da programma, ma i consueti cerimoniali di benvenuto in piazza Tienanmen dovettero essere sospesi, mentre le televisioni internazionali riprendevano gli studenti che esponevano cartelli inneggianti alla "perestrojka" e alla "glasnost", con grande imbarazzo da parte dei dirigenti del Partito».
Dopo che Deng Xiaoping (artefice delle riforme economiche e dell'apertura della Cina verso l'Occidente) aveva dichiarato che bisognava fermare la protesta degli studenti e degli intellettuali, il 20 maggio a Pechino veniva proclamata la legge marziale. «Nel comitato centrale del Partito – prosegue l'autrice del nostro libro - solo Zhao Ziyang, che sembrava essere il successore designato di Deng, votò contro, ma questo atto gli costò il posto: il 24 maggio fu destituito dalla carica di segretario generale e in seguito posto agli arresti domiciliari (dove rimarrà fino alla sua morte nel 2006)». Il 3 giugno le truppe giunte a Pechino dalle altre regioni della Cina cominciarono a convergere verso il centro della città. Nella notte aprirono il fuoco sui manifestanti.
Soltanto i negoziati dell'ultimo minuto fra le forze armate e gli ultimi dimostranti rimasti nel lato sud di piazza Tienanmen permisero a questi di ritirarsi. Il controllo del Paese resterà nelle mani degli uomini di Deng, Li Peng e Jiang Zemin, ma il sogno di una Cina democratica diventerà molto più lontano.
La traiettoria del libro di Linda Benson, che insegna Storia cinese presso la Oakland University negli Stati Uniti, prende le mosse dall'instaurarsi del regime comunista di Mao nel 1949 per concludersi con un'analisi delle grandi sfide che il paese si trova oggi ad affrontare, al proprio interno e nell'arena internazionale.
Lo spettacolare emergere della Cina come potenza economica mondiale è uno dei fenomeni più rilevanti dell'epoca attuale. Nella prima metà del Novecento milioni di cinesi vivevano ancora in povertà, nelle campagne come nelle città. Grazie alla crescita tecnologica e industriale la società cinese può godere di un benessere mai sinora sperimentato. Alla fine di aprile uno studio della Banca mondiale, elaborato nell'ambito dell'International Comparison Program, ha persino stimato che entro la fine di quest'anno il Pil cinese – valutato a parità di potere d'acquisto – potrebbe già superare quello americano.
Contestualmente sono però cresciuti anche i timori sul modello di "sviluppo pacifico" della Cina come prossima superpotenza. «L'Occidente – scrive la Benson nel capitolo conclusivo – continua a guardare con sospetto al ruolo del Pcc e al suo controllo sul governo cinese (…) inconciliabile con l'idea di buon governo e di rispetto dei diritti umani fondamentali». Nel suo ultimo numero, il settimanale «The Economist» scrive che la Cina, dai fatti di piazza Tienanmen a oggi, ha vissuto un periodo di prolungata stabilità e che la leadership dell'attuale presidente Xi Jinping può essere considerata altrettanto forte quanto quella di cui disponeva allora Deng Xiaoping.
Tuttavia non mancano le incognite. «Il divario fra la realtà urbana e quella rurale rimane uno dei problemi più gravi che il governo deve affrontare, perché la grande maggioranza della popolazione non ha ancora beneficiato delle nuove ricchezze». Vi sono poi all'interno dell'opinione pubblica tendenze di altra natura, «come la mancanza di trasparenza che ha permesso quelle forme di corruzione che hanno fatto accumulare fortune personali a chi era ben inserito nel sistema». Se nel prossimo futuro il governo di Pechino non riuscirà ad assicurare un tenore di vita accettabile per la maggior parte della popolazione e se le pratiche di corruzione dovessero continuare, «il Partito potrebbe avere difficoltà nel mantenersi al potere come legittima autorità».
Linda Benson
«La Cina dal 1949 a oggi»
Il Mulino, Bologna, pagg. 223, € 15,00
giovedì 12 giugno 2014
Non è sempre la stessa corruzione
Giovanni De Luna«Contro la corruzione dare nuova forza alla democrazia»
l'Unità, 12 giugno 2014
«Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno…». Si potrebbe cominciare risalendo molto in là negli anni. La corruzione in Italia si presenta con una storia lunga che può arricchirsi ogni giorno di nuovi capitoli. La corruzione come un male“ nostrum”? Lo chiediamo a Giovanni De Luna, storico che insegna all’Università di Torino, di cui si possono leggere a proposito delle nostre vicende più vicine «Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria» e «La Repubblica del dolore. Le memorie di una Italia divisa» (entrambi pubblicati da Feltrinelli).
Insomma, professore,dobbiamo considerare la corruzione come qualcosa cui la nostra cultura, delle élite ma non solo ,è indissolubilmente legata? Insuperabile anche per un decisionista come Renzi? Dai petroli alla Lockheed, da tangentopoli al Mose…
«Credo ci sia una trappola da fuggire: immaginare la corruzione di questi giorni come prova dell’eterno ritorno di una corruzione endemica. È vero, ma è anche vero che non è sempre la stessa corruzione. La corruzione, nella discontinuità, cambia faccia e cambiando rivela anche le mutazioni del sistema politico e delle sue patologie. È il termometro di malattie diverse. Prima era la mancanza di alternative di governo, con la Dc fissa al potere, ad aprire il varco al malaffare, nell’opacità e nella immobilità che garantiscono connivenza e impunità. I casi degli anni ottanta segnalano l’emergere di una logica spartitoria che il sistema dei partiti condivide, quella logica che aveva denunciato Enrico Berlinguer. Dagli anni ottanta la novità consiste nella sovrapposizione di comportamenti privati e di comportamenti pubblici. Una cosa diventa l’altra. Arcore e Palazzo Grazioli vengono elevate a sedi istituzionali e il territorio pubblico viene utilizzato come il campo di soddisfazione di interessi privati…».
Siamo arrivati a Berlusconi e a certi suoi seguaci, tipo Scajola…
«Negli ultimi tempi però si sono visti passi avanti su questa strada. Ne sono esempi eclatanti i partiti che si dissolvono e si rappresentano come costellazioni di feudi tenuti assieme da una leadership, tanti feudi, comunali regionali nazionali, che sono riferimento e punto di raccolta di espressioni diverse: si sono superate le correnti, sono spuntati come funghi, per ragioni trasversali, apparati partitici frammentati, in ciascuno dei quali si insediano banchieri, finanzieri, commercianti, mediatori, profittatori di ogni genere».
Questo è il disegno. Il “che fare?” è la vera questione, di fronte alla ripetizione degli scandali, che chiama in causa la politica.
«Purché la politica si presenti con un progetto, purché la politica torni ad essere confronto di idee. Mi pare che abbia qualche merito Renzi, quando decide di smontare nel Pd quella rete di feudi, di rompere certi assetti, di superare la frammentazione. Però questo è un aspetto. L’altro sta nel ricostruire un rapporto non solo formale tra un vertice e la base, fare in modo che lo scambio e il controllo siano continui, dare nuova forza alle democrazia. È giusto esultare per il quaranta per cento alle Europee, ma Renzi dovrebbe porsi anche qualche interrogativo di fronte ai quaranta o ai cinquanta cittadini su cento che non sono andati a votare e che non andranno a votare neppure la prossima volta».
Forse è anche colpa loro, forse qualche colpa di tanto disastro è anche di chi rinuncia. Forse proprio la rinuncia di tanti conferma l’esistenza di un morbo così profondo da risultare qualcosa che appartiene alla natura di un paese e diventa inguaribile…
«Certo, ma è un pensiero che ti lascia nell’impotenza. La guerra appartiene all’animo dell’uomo, ma si può provare ad evitarla. La norma sul falso in bilancio non sta nel solco della corruzione endemica, appartiene ad un certo agire di governo votato all’interesse privato di alcuni».
Anche la nomina di Cantone a commissario anti corruzione appartiene ad un certo agire di governo?
«Come davanti alla catastrofi naturali la nomina di Bertolaso o contro la mafia la nomina del prefetto Mori. Però stiamo sempre dentro una logica emergenziale, che non può e non deve funzionare in eterno. A lungo dovrebbe funzionare un’articolazione della democrazia che riconnetta élite e popolo. Equi torniamo a Renzi: quella che mi sembra la sua battaglia contro quei feudi interni, se si ferma alla creazione di una leadership forte, rischia di restituirci la sostanza di un populismo ottocentesco. Il suo obiettivo dovrebbe essere quello di rendere più funzionale il rapporto tra il momento della decisione politica e quello della formulazione dal basso della domanda. Senza andare troppo oltre: ridare al paese il valore della partecipazione democratica».
C’è un movimento nel paese, Grillo e non solo Grillo, che ad ogni scandalo si gode una boccata d’ossigeno. Sarà determinante nella lotta alla corruzione?
«Grillo è il sintomo della malattia, più che la medicina. La sua democrazia in rete semplicemente mi spaventa, perché scioglie ogni individuo che fa clic sul computer da qualsiasi patto di cittadinanza, che consiste in una condivisione di diritti e di doveri, di culture, di storie, anche nella prossimità fisica. Che basti schiacciare un tasto ‘sì’ ‘no’, nella tua stanza, con la tua tastiera, per decidere mi sembra assurdo. Certo ti può far sentire un dio, ma dove stanno gli altri? È una democrazia ridotta nella forma di un consumismo occasionale e irresponsabile. Irresponsabile, appunto: si sono scritti nella rete e si sono letti insulti all’indirizzo di donne, parlamentari o giornaliste, che nessuno si sognerebbe di pronunciare in pubblico. Ma è questa una conquista, è questa democrazia?».
l'Unità, 12 giugno 2014
«Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno…». Si potrebbe cominciare risalendo molto in là negli anni. La corruzione in Italia si presenta con una storia lunga che può arricchirsi ogni giorno di nuovi capitoli. La corruzione come un male“ nostrum”? Lo chiediamo a Giovanni De Luna, storico che insegna all’Università di Torino, di cui si possono leggere a proposito delle nostre vicende più vicine «Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria» e «La Repubblica del dolore. Le memorie di una Italia divisa» (entrambi pubblicati da Feltrinelli).
Insomma, professore,dobbiamo considerare la corruzione come qualcosa cui la nostra cultura, delle élite ma non solo ,è indissolubilmente legata? Insuperabile anche per un decisionista come Renzi? Dai petroli alla Lockheed, da tangentopoli al Mose…
«Credo ci sia una trappola da fuggire: immaginare la corruzione di questi giorni come prova dell’eterno ritorno di una corruzione endemica. È vero, ma è anche vero che non è sempre la stessa corruzione. La corruzione, nella discontinuità, cambia faccia e cambiando rivela anche le mutazioni del sistema politico e delle sue patologie. È il termometro di malattie diverse. Prima era la mancanza di alternative di governo, con la Dc fissa al potere, ad aprire il varco al malaffare, nell’opacità e nella immobilità che garantiscono connivenza e impunità. I casi degli anni ottanta segnalano l’emergere di una logica spartitoria che il sistema dei partiti condivide, quella logica che aveva denunciato Enrico Berlinguer. Dagli anni ottanta la novità consiste nella sovrapposizione di comportamenti privati e di comportamenti pubblici. Una cosa diventa l’altra. Arcore e Palazzo Grazioli vengono elevate a sedi istituzionali e il territorio pubblico viene utilizzato come il campo di soddisfazione di interessi privati…».
Siamo arrivati a Berlusconi e a certi suoi seguaci, tipo Scajola…
«Negli ultimi tempi però si sono visti passi avanti su questa strada. Ne sono esempi eclatanti i partiti che si dissolvono e si rappresentano come costellazioni di feudi tenuti assieme da una leadership, tanti feudi, comunali regionali nazionali, che sono riferimento e punto di raccolta di espressioni diverse: si sono superate le correnti, sono spuntati come funghi, per ragioni trasversali, apparati partitici frammentati, in ciascuno dei quali si insediano banchieri, finanzieri, commercianti, mediatori, profittatori di ogni genere».
Questo è il disegno. Il “che fare?” è la vera questione, di fronte alla ripetizione degli scandali, che chiama in causa la politica.
«Purché la politica si presenti con un progetto, purché la politica torni ad essere confronto di idee. Mi pare che abbia qualche merito Renzi, quando decide di smontare nel Pd quella rete di feudi, di rompere certi assetti, di superare la frammentazione. Però questo è un aspetto. L’altro sta nel ricostruire un rapporto non solo formale tra un vertice e la base, fare in modo che lo scambio e il controllo siano continui, dare nuova forza alle democrazia. È giusto esultare per il quaranta per cento alle Europee, ma Renzi dovrebbe porsi anche qualche interrogativo di fronte ai quaranta o ai cinquanta cittadini su cento che non sono andati a votare e che non andranno a votare neppure la prossima volta».
Forse è anche colpa loro, forse qualche colpa di tanto disastro è anche di chi rinuncia. Forse proprio la rinuncia di tanti conferma l’esistenza di un morbo così profondo da risultare qualcosa che appartiene alla natura di un paese e diventa inguaribile…
«Certo, ma è un pensiero che ti lascia nell’impotenza. La guerra appartiene all’animo dell’uomo, ma si può provare ad evitarla. La norma sul falso in bilancio non sta nel solco della corruzione endemica, appartiene ad un certo agire di governo votato all’interesse privato di alcuni».
Anche la nomina di Cantone a commissario anti corruzione appartiene ad un certo agire di governo?
«Come davanti alla catastrofi naturali la nomina di Bertolaso o contro la mafia la nomina del prefetto Mori. Però stiamo sempre dentro una logica emergenziale, che non può e non deve funzionare in eterno. A lungo dovrebbe funzionare un’articolazione della democrazia che riconnetta élite e popolo. Equi torniamo a Renzi: quella che mi sembra la sua battaglia contro quei feudi interni, se si ferma alla creazione di una leadership forte, rischia di restituirci la sostanza di un populismo ottocentesco. Il suo obiettivo dovrebbe essere quello di rendere più funzionale il rapporto tra il momento della decisione politica e quello della formulazione dal basso della domanda. Senza andare troppo oltre: ridare al paese il valore della partecipazione democratica».
C’è un movimento nel paese, Grillo e non solo Grillo, che ad ogni scandalo si gode una boccata d’ossigeno. Sarà determinante nella lotta alla corruzione?
«Grillo è il sintomo della malattia, più che la medicina. La sua democrazia in rete semplicemente mi spaventa, perché scioglie ogni individuo che fa clic sul computer da qualsiasi patto di cittadinanza, che consiste in una condivisione di diritti e di doveri, di culture, di storie, anche nella prossimità fisica. Che basti schiacciare un tasto ‘sì’ ‘no’, nella tua stanza, con la tua tastiera, per decidere mi sembra assurdo. Certo ti può far sentire un dio, ma dove stanno gli altri? È una democrazia ridotta nella forma di un consumismo occasionale e irresponsabile. Irresponsabile, appunto: si sono scritti nella rete e si sono letti insulti all’indirizzo di donne, parlamentari o giornaliste, che nessuno si sognerebbe di pronunciare in pubblico. Ma è questa una conquista, è questa democrazia?».
mercoledì 11 giugno 2014
Nuove frontiere per la sinistra: Bobbio e oltre
Mario Lavia
Rileggere Bobbio e cercare ancora
L'ultimo numero di Lettera Internazionale dedicato al "cantiere Europa"
Europa, 11 giugno 2014
... Qui si riprende una bellissima intervista che gli fece uno dei fondatori di Lettera Internazionale, un intellettuale socialista la cui memoria resta negli studiosi ma forse non nel grado che gli spetterebbe, Federico Coen, che pone al grande intellettuale torinese domande acute sulla fine del comunismo, la crisi dello stesso socialismo, e sulla necessità di disegnare «nuove frontiere» per la sinistra – e quali. Bobbio risponde con pacatezza, di solito con frasi brevi ma densissime di pensiero, lungo un filo di coerenza robusta di liberale e di socialista – liberale sui generis, socialista sui generis.
Siamo a una manciata di mesi dalla caduta del Muro, cioè del fallimento dell’esperienza storica chiamata comunismo, esperienza che il liberalsocialista Bobbio aveva combattuto per una vita anche attraverso memorabili battaglie delle idee (fondamentale quella con Togliatti sul rapporto tra politica e cultura nei primi anni Cinquanta): ed ecco che nel 1989 il crollo del comunismo rischia di trascinare con sé anche l’idea socialista e finanche qualsivoglia tensione progressiva figlia della Rivoluzione francese. Un colpo gigantesco all’idea di far scorrere il Progresso dentro i canali della Politica.
Ma nella grande crisi del progressismo Bobbio scorge invece i barlumi di un ulteriore riscatto: «Gran parte dei problemi a cui il comunismo pretendeva di dare soluzione una volta per tutte ce li troviamo davanti intatti. Dobbiamo cercare nuove risposte, altro che celebrare il trionfo del capitalismo!». Sta qui l’intima contraddizione fra tensione anticapitalistica e evoluzione della democrazia, come apparirà anche a molti intellettuali di sinistra qualche lustro più tardi.
Non solo. Il filosofo torinese si rende conto come la classe operaia, ormai «largamente minoritaria», non possa più ragionevolmente essere vista come il soggetto “liberante”, né che gli schemi politici della sinistra italiana riescano a reggere ancora: «La formula che più mi convince – dice Bobbio, abbastanza in sintonia con le prime analisi del nuovo Pds sorto dalle ceneri del Pci – è quella di una “sinistra dei diritti”».
Già, una nuova sinistra. «Resta il fatto che oggi richiamarsi alla sinistra ha una sua giustificazione – spiega il filosofo – in quanto la “sinistra” comprende i socialisti ma comprende anche tutti quei movimenti nuovi che sono sorti da situazioni di fatto che i partiti socialisti non avevano previsto. È vero che oggi la dicotomia sinistra/destra è molto contestata (su questo, Bobbio scriverà più tardi un libretto famosissimo, peraltro riedito in questi ultimi mesi-ndr), ma io ritengo che abbia ancora un valore distintivo profondo».
Nuova sinistra, nuovi diritti. Non più solo quelli “classici”, inerenti alle problematiche del lavoro o sociali ma pure quelle nuove, l’ambiente, i temi etici, la riservatezza. Più l’individuo che la classe. E qui si ritorna al più genuino filone liberale – quello che sa dialogare con la cultura “alta” del cattolicesimo – che in Norberto Bobbio ha uno dei suoi punti più alti, da rileggere sempre.
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Per il testo originale dell'articolo in questione si veda Norberto Bobbio, Le nuove frontiere della sinistra. Intervista di Federico Coen, Lettera Internazionale, n. 30, IV trimestre 1991.
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Su ciò che rimane irrisolto dopo la caduta del comunismo si è espresso anche François Furet ne Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano, 1995. Ecco cosa scriveva in proposito Jean Birnbaum (Le Monde, 20 août 2008):
Rileggere Bobbio e cercare ancora
L'ultimo numero di Lettera Internazionale dedicato al "cantiere Europa"
Europa, 11 giugno 2014
... Qui si riprende una bellissima intervista che gli fece uno dei fondatori di Lettera Internazionale, un intellettuale socialista la cui memoria resta negli studiosi ma forse non nel grado che gli spetterebbe, Federico Coen, che pone al grande intellettuale torinese domande acute sulla fine del comunismo, la crisi dello stesso socialismo, e sulla necessità di disegnare «nuove frontiere» per la sinistra – e quali. Bobbio risponde con pacatezza, di solito con frasi brevi ma densissime di pensiero, lungo un filo di coerenza robusta di liberale e di socialista – liberale sui generis, socialista sui generis.
Siamo a una manciata di mesi dalla caduta del Muro, cioè del fallimento dell’esperienza storica chiamata comunismo, esperienza che il liberalsocialista Bobbio aveva combattuto per una vita anche attraverso memorabili battaglie delle idee (fondamentale quella con Togliatti sul rapporto tra politica e cultura nei primi anni Cinquanta): ed ecco che nel 1989 il crollo del comunismo rischia di trascinare con sé anche l’idea socialista e finanche qualsivoglia tensione progressiva figlia della Rivoluzione francese. Un colpo gigantesco all’idea di far scorrere il Progresso dentro i canali della Politica.
Ma nella grande crisi del progressismo Bobbio scorge invece i barlumi di un ulteriore riscatto: «Gran parte dei problemi a cui il comunismo pretendeva di dare soluzione una volta per tutte ce li troviamo davanti intatti. Dobbiamo cercare nuove risposte, altro che celebrare il trionfo del capitalismo!». Sta qui l’intima contraddizione fra tensione anticapitalistica e evoluzione della democrazia, come apparirà anche a molti intellettuali di sinistra qualche lustro più tardi.
Non solo. Il filosofo torinese si rende conto come la classe operaia, ormai «largamente minoritaria», non possa più ragionevolmente essere vista come il soggetto “liberante”, né che gli schemi politici della sinistra italiana riescano a reggere ancora: «La formula che più mi convince – dice Bobbio, abbastanza in sintonia con le prime analisi del nuovo Pds sorto dalle ceneri del Pci – è quella di una “sinistra dei diritti”».
Già, una nuova sinistra. «Resta il fatto che oggi richiamarsi alla sinistra ha una sua giustificazione – spiega il filosofo – in quanto la “sinistra” comprende i socialisti ma comprende anche tutti quei movimenti nuovi che sono sorti da situazioni di fatto che i partiti socialisti non avevano previsto. È vero che oggi la dicotomia sinistra/destra è molto contestata (su questo, Bobbio scriverà più tardi un libretto famosissimo, peraltro riedito in questi ultimi mesi-ndr), ma io ritengo che abbia ancora un valore distintivo profondo».
Nuova sinistra, nuovi diritti. Non più solo quelli “classici”, inerenti alle problematiche del lavoro o sociali ma pure quelle nuove, l’ambiente, i temi etici, la riservatezza. Più l’individuo che la classe. E qui si ritorna al più genuino filone liberale – quello che sa dialogare con la cultura “alta” del cattolicesimo – che in Norberto Bobbio ha uno dei suoi punti più alti, da rileggere sempre.
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Per il testo originale dell'articolo in questione si veda Norberto Bobbio, Le nuove frontiere della sinistra. Intervista di Federico Coen, Lettera Internazionale, n. 30, IV trimestre 1991.
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Su ciò che rimane irrisolto dopo la caduta del comunismo si è espresso anche François Furet ne Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano, 1995. Ecco cosa scriveva in proposito Jean Birnbaum (Le Monde, 20 août 2008):
... Le vrai enjeu était ailleurs, et nous voici revenus à la conclusion du livre. Une chose est de constater le désastre auquel a abouti la "mythologie" soviétique, en effet, autre chose est de décréter que l'idée même d'une autre société est désormais épuisée. Cette objection a été formulée par Claude Lefort dans La Complication (Fayard, 1999). Le philosophe y posait la question : peut-on vraiment faire du communisme une "illusion", une simple "divagation de l'esprit", sans prendre en compte le réel social et politique des luttes idéologiques ? "La première tâche est de revenir au concret", tranchait Claude Lefort, ajoutant qu'alors, si "le communisme appartient au passé, (...) en revanche la question du communisme reste au coeur de notre temps".
Sur ce point comme sur bien d'autres, pourtant, Le Passé d'une illusion apparaît moins arrogant que ne l'ont dit ses détracteurs, fustigeant la morgue d'un manifeste "néolibéral". Bien plus contradictoire, aussi, que ne l'ont prétendu ses admirateurs, célébrant "l'audace" d'un brûlot anticommuniste. Car, loin d'être satisfait, le libéralisme de l'historien apparaissait plutôt "mélancolique", selon une jolie formule de Pierre Hassner. Lui-même ancien militant stalinien (de 1945 à 1949), François Furet savait de quoi il parlait. Cette dimension autobiographique donne au livre une fragilité et un mystère qui restent entiers.
A la toute fin de son ouvrage, du reste, il admettait que la fin de l'URSS laissait intact "le besoin d'un monde postérieur à la bourgeoisie et au Capital, où pourrait s'épanouir une véritable communauté humaine". Là est la différence entre l'auteur du Passé d'une illusion et certains de ses héritiers autoproclamés. François Furet a retracé les tragédies de la passion révolutionnaire, il a écrit l'histoire de ses emballements et de ses crimes. Mais il ne haïssait pas l'espérance. Jusque dans l'effroi, il continuait d'en témoigner.
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martedì 10 giugno 2014
Mauro Calise: Renzi profeta disarmato
Lina Palmerini
Il politologo Mauro Calise
Media e magistratura: i «rischi» del premier senza più opposizioni
Il Sole 24 ore, 10 giugno 2014
Un premier senza più opposizioni o almeno con opposizioni assai deboli: debole è il suo stesso partito, deboli sono gli altri partiti, deboli le parti sociali, debole perfino quel partito dei sindaci che tanto ha pesato nella storia della sinistra. È una novità che Matteo Renzi ha anche reso più evidente con quella frase "Ci metto la faccia" che scalza il rapporto con i cosiddetti corpi intermedi per un corpo a corpo solo con l'elettorato. Di questo inedito momento politico parliamo con Mauro Calise professore di scienza della politica e autore di libri tra cui "Il partito personale".
«La sua domanda sull'assenza di opposizioni è legittima ma fa riferimento a una fase passata. Non siamo più in un sistema classico in cui ciascun partito si definiva nella relazione con l'altro. Con populismo e personalizzazione della politica si è superata la contrapposizione tra partiti fondata su fratture storiche: non c'è più, quindi, destra/sinistra perché il populismo tende alla trasversalità degli elettorati mentre il personalismo carica di aspettative e responsabilità solo il leader».
In sintesi: se Renzi è arrivato al 41% pescando tra i voti moderati di Scelta civica, ma anche tra i delusi berlusconiani e i grillini pentiti questo è dovuto a un populismo che diluisce i confini tra partiti e a una leadership forte che carica solo su di sè le attese dell'elettorato. Punti di forza che hanno però le loro trappole. E non solo quelle che si vedono a occhio nudo: cioè che l'assenza di alternative azzera gli alibi e identifica con chiarezza la responsabilità del leader. Non a caso Renzi nel suo "patto" con gli elettori mette sul tavolo la sua stessa poltrona e dice: «Posso andare a casa domani». Oltre a questo ci sono fattori di rischio che Calise chiama "fattori M".
«Il fattore media e il fattore magistratura. Le spiego. L'esposizione personale del leader crea molte attese alimentate dai media che, però, con la facilità con cui si innamorano riescono a disinnamorarsi. Si ricordi, poi, che Berlusconi aveva ed ha i suoi media di riferimento, Renzi no».
E l'altro?
«È il fattore magistratura. La personalizzazione della politica espone un leader all'azione investigativa molto più di prima anche perchè privo dello scudo-partito. Uno scudo che ha avuto sempre la sinistra ma che Renzi non ha più».
Insomma, spariscono gli alibi e compare l'insidia di diventare «preda» dei "fattori M". Con qualche contromisura che Renzi può – o forse deve assolutamente – prendere.
«Direi che i punti di fragilità sono due: da un lato quella carica di aspettative che deve indurre il premier alla formazione di una squadra solida che lavori sui tanti e complicati dossier. Il presidente americano si prende qualche mese per la definizione del team. Sull'altra fragilità, quella che lo rende preda della magistratura, serve una corazza istituzionale. Non è un caso che sistemi di personalizzazione della politica abbiano assetti costituzionali coerenti: parlo di presidenzialismo, semipresidenzialismo o premierato forte. Se Sarkozy fosse stato in Italia sarebbe finito in galera e se Hollande fosse stato italiano con il 16% delle ultime europee a quest'ora staremmo già discutendo di elezioni a ottobre».
Esempi chiarissimi, che hanno una logica, ma che è stata sempre stata rifiutata.
«Guardi quando sento parlare di deriva autoritaria mi viene da ridere. C'è invece una responsabilità chiara, imputabile e dunque serve autorità. Ma siamo ancora in un dibattito vetero-costituzionalista mentre già tutto è cambiato: i partiti si sono sgretolati, l'elettorato è diventato volatile e trasversale catturato da quello che chiamiamo populismo e leaderismo».
E del resto la prova del nove sta proprio in quel balzo del Pd fatto solo in un anno, dal 25% circa al 41% circa.
«Renzi ha fatto approdare la sinistra a una fase post-sistemica in cui il punto politico non è la contrapposizione – berlusconismo e anti-berlusconismo – ma la capacità operativa del leader».
E che dice a Susanna Camusso che chiede un partito unico della sinistra?
«Auguri».
°°°
Marco Damilano
Matteo Renzi il populismo di governo che predilige Checco Zalone alle élites di sinistra
l'Espresso, 11 gennaio 2016
Morto il re, viva il re. È morto il partito, torna il sovrano. Il leader è il nuovo re, potentissimo e vulnerabile, nudo. E l’Italia di Matteo Renzi è laboratorio privilegiato di questo processo, scrive Mauro Calise, politologo dell’università di Napoli Federico II, inventore negli anni Novanta del “partito personale”, in libreria con il saggio “La democrazia del leader” (Laterza), destinato a far discutere. La spiegazione di sé che il renzismo non ha mai trovato (e che non ha mai voluto). Ma anche la denuncia dei limiti della leadership personale, la sua debolezza: «I cittadini chiedono sempre al leader di turno molto di più di quanto potrà fare».
La fine dei partiti è un fenomeno italiano?
«No. In tutta Europa siamo di fronte al tramonto dell’ultimo grande corpo collettivo, il partito. Una costruzione millenaria: per spersonalizzare il potere del sovrano ci sono voluti secoli, ora siamo al processo inverso. I partiti non hanno più il monopolio della rappresentanza e non fanno più sistema. In Inghilterra, patria del bipolarismo, ci sono ormai almeno cinque partiti. In Francia siamo al tutti contro Marine Le Pen. In Spagna le nuove liste come Podemos sono cresciute in maniera impetuosa e imprevista. In Germania mi chiedo cosa resterà dopo Angela Merkel. Si è segretolato il sistema».
Al suo posto cosa c’è?
«C’è il ritorno del potere monocratico. Un processo che è nato prima nella società: l’individuo, l’io narcisista, l’io che si esprime nella Rete. In questo habitat individualistico hanno trovato posto le leadership personalizzate. L’Italia ha avuto una forte accelerazione con Silvio Berlusconi, una forma vitalistica, anti-istituzionale, iper-comunicativa: il peggiore dei modi. Alla Francia è andata molto meglio, con la Quinta Repubblica De Gaulle ha trasformato la spinta della leadership carismatica in istituzione. Da noi Berlusconi non ha mai neppure provato a farlo. Sul piano storico Berlusconi non ha fallito per il bunga bunga, ma per non aver mutato la sua leadership da personale a istituzionale».
Renzi è l’erede di Berlusconi nella personalizzazione della leadership?
«Tra i due ci sono differenze enormi. Berlusconi primo ministro non è mai esistito, non ha lasciato traccia, non è stato per nulla decisionista. Berlusconi, più che un premier, è rimasto un capopartito, con la tendenza a fare il capopopolo. Renzi invece fa solo il primo ministro, dalla mattina alla sera. Lei che fa il giornalista può scrivere che lo fa bene o male, io che sono uno studioso devo far notare che lo spostamento della leadership sulla guida del governo è un fenomeno inedito. In altri Paesi sarebbe una non-notizia, qui da noi non era mai successo».
Renzi fa il premier, certo, ma non è immune da quello che lei definisce il «demone populista». «Un vortice di promesse» per conquistare un elettorato mutevole.
«Ovunque il populismo è la forma che si manifesta con la crisi della democrazia. È la forma egemone della politica contemporanea. Il punto è: come riesci a governarlo? E come si comporta il populismo quando vince le elezioni e arriva alla prova del governo. Renzi è senza dubbio un leader che conosce la retorica del populismo. Se la deve vedere, d’altra parte, con Beppe Grillo e con Matteo Salvini, che quanto a populismo non sono secondi a nessuno. Chi lo critica per questo dovrebbe poi spiegare con chi intende sconfiggere avversari di quella statura. Con Mario Monti? Con Enrico Letta? Il populismo va cavalcato senza farsi divorare».
C’è stato un momento in cui Renzi si è perso in questo labirinto? In cui il gioco di guidare dall’alto la rivolta anti-establishment gli si è ritorto contro?
«Il punto critico è l’operazione sulle banche di queste settimane. Contro il governo c’è una reazione tipicamente populista, la difesa dei risparmiatori truffati. E su questo Renzi è in evidente difficoltà, fatica a smarcarsi».
Chi sono i nemici del premier?
«Nessuno. È un’altra differenza con Berlusconi. Il capo di Forza Italia spaccava il Paese, o con lui o contro di lui, o berlusconiani o anti-berlusconiani. Renzi insegue consensi trasversali, vorrebbe parlare a tutti. Non divide, si identifica con tutto il popolo, il suo bersaglio sono i gufi, quelli che non vogliono il bene del Paese: le élites, meglio se di sinistra. E rappresenta gli italiani che vogliono le riforme, moderatamente. Sa chi rappresenta meglio di tutti questo stato d’animo? Checco Zalone. Sono andato a vedere il suo film il primo giorno. Sono uno zaloniano convinto, da sempre. C’è l’impiegato travolto dal taglio delle province che tutti volevano purché non toccasse a loro. Dentro ci trovi una fotografia. La Prima Repubblica, come dice l’inno del film, non si scorda mai...»
Per il 2016, però, il premier vuole che il referendum sia sulla Costituzione, ma anche sul suo operato. Sì o no: sulla riforma del Senato e su Renzi. L’atto di nascita del renzismo (e dell’anti-renzismo).
«Io credo che sia soprattutto un modo per bypassare le elezioni amministrative, molto difficili per lui. E sta scegliendo come terreno di confronto un tema, la riforma del Senato, che forse in altri tempi avrebbe appassionato, ma che oggi riscalda poco. Farà una campagna elettorale con pochi slogan e poco divisivi. Il cambiamento contro chi vuole frenare. Certo, è una competizione che all’improvviso può complicarsi, se ad esempio le amministrative dovessero andare molto male...».
I pericoli per Renzi vanno cercati fuori dal Parlamento. Lei lo definisce fattore M: magistratura e media.
«Governo e Parlamento sono le componenti del sistema legittimate dal voto dei cittadini. Le caratteristiche della magistratura e dell’informazione sono l’autonomia e l’indipendenza dagli altri poteri. Ma in presenza della crisi democratica la magistratura e l’informazione hanno esteso il loro potere. Pensi soltanto alle sentenze della Corte costituzionale che hanno cancellato la legge elettorale Porcellum o riscritto la riforma delle pensioni. Per non parlare delle inchieste della magistratura ordinaria, da Tangentopoli in poi. Sia chiaro: non chiedo una subordinazione della magistratura al potere politico, segnalo che il fattore M è per ogni leader il rischio da cui deve sapersi difendere».
Cosa significa il fatto che Renzi affidi molto potere al magistrato più popolare d’Italia, Raffaele Cantone?
«Credo che Cantone rappresenti un compromesso tra Renzi e il fattore M. Anche in questo vedo un parallelismo. Di Pietro era un capopopolo, come Berlusconi, e come lui fondò un partito personale. Cantone è, come Renzi, un uomo che si gioca la sua partita nelle istituzioni. Personalizza l’organismo che presiede. Non è un’authority impersonale, è una persona credibile con un capitale inestimabile: la fiducia».
I media sono la benzina nel motore del leader, nel momento della scalata. Poi, a potere conquistato, cominciano le lamentazioni: i talk parlano male del Paese, i giornalisti non mi capiscono...
«È il ciclo del carisma, Renzi non ne è esente. Il linguaggio dei media è individualistico, creano il leader e poi lo distruggono. Media e magistratura sono portati a concentrarsi sul leader. E quando le cose vanno male, quando il leader va sotto assedio, viene salvato da una corazza istituzionale o dal suo partito. Che nel caso italiano mancano completamente. È questo il tallone di Renzi, la sua debolezza».
Il Pd, il partito di cui Renzi è segretario, rischia di perdere le amministrative a Roma e a Napoli, dove si ripresenta Antonio Bassolino di cui lei fu consigliere. È lì che nel 2016 si rivelerà fragile?
«Su Roma Renzi poteva lasciare che se ne occupassero i romani o metterci la faccia. Invece ha fatto fuori Ignazio Marino senza avere soluzioni di ricambio in mano, un’operazione improvvisata. Su Napoli le idee sono ancora più confuse. Non gli fa piacere la candidatura di Bassolino, ma neppure la prospettiva di confezionare un’alternativa contro De Magistris che magari si rivelerà perdente. In questo c’è la solitudine del leader. I partiti erano sistemi fiduciari. Ma ora chi gli racconta come vanno le cose fuori da Roma? Dov’è la sua intelligence? Il suo Ponte delle spie? Film per film, meglio Zalone».
http://machiave.blogspot.it/2014/06/mauro-calise-renzi-profeta-disarmato.html
Il politologo Mauro Calise
Media e magistratura: i «rischi» del premier senza più opposizioni
Il Sole 24 ore, 10 giugno 2014
Un premier senza più opposizioni o almeno con opposizioni assai deboli: debole è il suo stesso partito, deboli sono gli altri partiti, deboli le parti sociali, debole perfino quel partito dei sindaci che tanto ha pesato nella storia della sinistra. È una novità che Matteo Renzi ha anche reso più evidente con quella frase "Ci metto la faccia" che scalza il rapporto con i cosiddetti corpi intermedi per un corpo a corpo solo con l'elettorato. Di questo inedito momento politico parliamo con Mauro Calise professore di scienza della politica e autore di libri tra cui "Il partito personale".
«La sua domanda sull'assenza di opposizioni è legittima ma fa riferimento a una fase passata. Non siamo più in un sistema classico in cui ciascun partito si definiva nella relazione con l'altro. Con populismo e personalizzazione della politica si è superata la contrapposizione tra partiti fondata su fratture storiche: non c'è più, quindi, destra/sinistra perché il populismo tende alla trasversalità degli elettorati mentre il personalismo carica di aspettative e responsabilità solo il leader».
In sintesi: se Renzi è arrivato al 41% pescando tra i voti moderati di Scelta civica, ma anche tra i delusi berlusconiani e i grillini pentiti questo è dovuto a un populismo che diluisce i confini tra partiti e a una leadership forte che carica solo su di sè le attese dell'elettorato. Punti di forza che hanno però le loro trappole. E non solo quelle che si vedono a occhio nudo: cioè che l'assenza di alternative azzera gli alibi e identifica con chiarezza la responsabilità del leader. Non a caso Renzi nel suo "patto" con gli elettori mette sul tavolo la sua stessa poltrona e dice: «Posso andare a casa domani». Oltre a questo ci sono fattori di rischio che Calise chiama "fattori M".
«Il fattore media e il fattore magistratura. Le spiego. L'esposizione personale del leader crea molte attese alimentate dai media che, però, con la facilità con cui si innamorano riescono a disinnamorarsi. Si ricordi, poi, che Berlusconi aveva ed ha i suoi media di riferimento, Renzi no».
E l'altro?
«È il fattore magistratura. La personalizzazione della politica espone un leader all'azione investigativa molto più di prima anche perchè privo dello scudo-partito. Uno scudo che ha avuto sempre la sinistra ma che Renzi non ha più».
Insomma, spariscono gli alibi e compare l'insidia di diventare «preda» dei "fattori M". Con qualche contromisura che Renzi può – o forse deve assolutamente – prendere.
«Direi che i punti di fragilità sono due: da un lato quella carica di aspettative che deve indurre il premier alla formazione di una squadra solida che lavori sui tanti e complicati dossier. Il presidente americano si prende qualche mese per la definizione del team. Sull'altra fragilità, quella che lo rende preda della magistratura, serve una corazza istituzionale. Non è un caso che sistemi di personalizzazione della politica abbiano assetti costituzionali coerenti: parlo di presidenzialismo, semipresidenzialismo o premierato forte. Se Sarkozy fosse stato in Italia sarebbe finito in galera e se Hollande fosse stato italiano con il 16% delle ultime europee a quest'ora staremmo già discutendo di elezioni a ottobre».
Esempi chiarissimi, che hanno una logica, ma che è stata sempre stata rifiutata.
«Guardi quando sento parlare di deriva autoritaria mi viene da ridere. C'è invece una responsabilità chiara, imputabile e dunque serve autorità. Ma siamo ancora in un dibattito vetero-costituzionalista mentre già tutto è cambiato: i partiti si sono sgretolati, l'elettorato è diventato volatile e trasversale catturato da quello che chiamiamo populismo e leaderismo».
E del resto la prova del nove sta proprio in quel balzo del Pd fatto solo in un anno, dal 25% circa al 41% circa.
«Renzi ha fatto approdare la sinistra a una fase post-sistemica in cui il punto politico non è la contrapposizione – berlusconismo e anti-berlusconismo – ma la capacità operativa del leader».
E che dice a Susanna Camusso che chiede un partito unico della sinistra?
«Auguri».
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Marco Damilano
Matteo Renzi il populismo di governo che predilige Checco Zalone alle élites di sinistra
l'Espresso, 11 gennaio 2016
Morto il re, viva il re. È morto il partito, torna il sovrano. Il leader è il nuovo re, potentissimo e vulnerabile, nudo. E l’Italia di Matteo Renzi è laboratorio privilegiato di questo processo, scrive Mauro Calise, politologo dell’università di Napoli Federico II, inventore negli anni Novanta del “partito personale”, in libreria con il saggio “La democrazia del leader” (Laterza), destinato a far discutere. La spiegazione di sé che il renzismo non ha mai trovato (e che non ha mai voluto). Ma anche la denuncia dei limiti della leadership personale, la sua debolezza: «I cittadini chiedono sempre al leader di turno molto di più di quanto potrà fare».
La fine dei partiti è un fenomeno italiano?
«No. In tutta Europa siamo di fronte al tramonto dell’ultimo grande corpo collettivo, il partito. Una costruzione millenaria: per spersonalizzare il potere del sovrano ci sono voluti secoli, ora siamo al processo inverso. I partiti non hanno più il monopolio della rappresentanza e non fanno più sistema. In Inghilterra, patria del bipolarismo, ci sono ormai almeno cinque partiti. In Francia siamo al tutti contro Marine Le Pen. In Spagna le nuove liste come Podemos sono cresciute in maniera impetuosa e imprevista. In Germania mi chiedo cosa resterà dopo Angela Merkel. Si è segretolato il sistema».
Al suo posto cosa c’è?
«C’è il ritorno del potere monocratico. Un processo che è nato prima nella società: l’individuo, l’io narcisista, l’io che si esprime nella Rete. In questo habitat individualistico hanno trovato posto le leadership personalizzate. L’Italia ha avuto una forte accelerazione con Silvio Berlusconi, una forma vitalistica, anti-istituzionale, iper-comunicativa: il peggiore dei modi. Alla Francia è andata molto meglio, con la Quinta Repubblica De Gaulle ha trasformato la spinta della leadership carismatica in istituzione. Da noi Berlusconi non ha mai neppure provato a farlo. Sul piano storico Berlusconi non ha fallito per il bunga bunga, ma per non aver mutato la sua leadership da personale a istituzionale».
Renzi è l’erede di Berlusconi nella personalizzazione della leadership?
«Tra i due ci sono differenze enormi. Berlusconi primo ministro non è mai esistito, non ha lasciato traccia, non è stato per nulla decisionista. Berlusconi, più che un premier, è rimasto un capopartito, con la tendenza a fare il capopopolo. Renzi invece fa solo il primo ministro, dalla mattina alla sera. Lei che fa il giornalista può scrivere che lo fa bene o male, io che sono uno studioso devo far notare che lo spostamento della leadership sulla guida del governo è un fenomeno inedito. In altri Paesi sarebbe una non-notizia, qui da noi non era mai successo».
Renzi fa il premier, certo, ma non è immune da quello che lei definisce il «demone populista». «Un vortice di promesse» per conquistare un elettorato mutevole.
«Ovunque il populismo è la forma che si manifesta con la crisi della democrazia. È la forma egemone della politica contemporanea. Il punto è: come riesci a governarlo? E come si comporta il populismo quando vince le elezioni e arriva alla prova del governo. Renzi è senza dubbio un leader che conosce la retorica del populismo. Se la deve vedere, d’altra parte, con Beppe Grillo e con Matteo Salvini, che quanto a populismo non sono secondi a nessuno. Chi lo critica per questo dovrebbe poi spiegare con chi intende sconfiggere avversari di quella statura. Con Mario Monti? Con Enrico Letta? Il populismo va cavalcato senza farsi divorare».
C’è stato un momento in cui Renzi si è perso in questo labirinto? In cui il gioco di guidare dall’alto la rivolta anti-establishment gli si è ritorto contro?
«Il punto critico è l’operazione sulle banche di queste settimane. Contro il governo c’è una reazione tipicamente populista, la difesa dei risparmiatori truffati. E su questo Renzi è in evidente difficoltà, fatica a smarcarsi».
Chi sono i nemici del premier?
«Nessuno. È un’altra differenza con Berlusconi. Il capo di Forza Italia spaccava il Paese, o con lui o contro di lui, o berlusconiani o anti-berlusconiani. Renzi insegue consensi trasversali, vorrebbe parlare a tutti. Non divide, si identifica con tutto il popolo, il suo bersaglio sono i gufi, quelli che non vogliono il bene del Paese: le élites, meglio se di sinistra. E rappresenta gli italiani che vogliono le riforme, moderatamente. Sa chi rappresenta meglio di tutti questo stato d’animo? Checco Zalone. Sono andato a vedere il suo film il primo giorno. Sono uno zaloniano convinto, da sempre. C’è l’impiegato travolto dal taglio delle province che tutti volevano purché non toccasse a loro. Dentro ci trovi una fotografia. La Prima Repubblica, come dice l’inno del film, non si scorda mai...»
Per il 2016, però, il premier vuole che il referendum sia sulla Costituzione, ma anche sul suo operato. Sì o no: sulla riforma del Senato e su Renzi. L’atto di nascita del renzismo (e dell’anti-renzismo).
«Io credo che sia soprattutto un modo per bypassare le elezioni amministrative, molto difficili per lui. E sta scegliendo come terreno di confronto un tema, la riforma del Senato, che forse in altri tempi avrebbe appassionato, ma che oggi riscalda poco. Farà una campagna elettorale con pochi slogan e poco divisivi. Il cambiamento contro chi vuole frenare. Certo, è una competizione che all’improvviso può complicarsi, se ad esempio le amministrative dovessero andare molto male...».
I pericoli per Renzi vanno cercati fuori dal Parlamento. Lei lo definisce fattore M: magistratura e media.
«Governo e Parlamento sono le componenti del sistema legittimate dal voto dei cittadini. Le caratteristiche della magistratura e dell’informazione sono l’autonomia e l’indipendenza dagli altri poteri. Ma in presenza della crisi democratica la magistratura e l’informazione hanno esteso il loro potere. Pensi soltanto alle sentenze della Corte costituzionale che hanno cancellato la legge elettorale Porcellum o riscritto la riforma delle pensioni. Per non parlare delle inchieste della magistratura ordinaria, da Tangentopoli in poi. Sia chiaro: non chiedo una subordinazione della magistratura al potere politico, segnalo che il fattore M è per ogni leader il rischio da cui deve sapersi difendere».
Cosa significa il fatto che Renzi affidi molto potere al magistrato più popolare d’Italia, Raffaele Cantone?
«Credo che Cantone rappresenti un compromesso tra Renzi e il fattore M. Anche in questo vedo un parallelismo. Di Pietro era un capopopolo, come Berlusconi, e come lui fondò un partito personale. Cantone è, come Renzi, un uomo che si gioca la sua partita nelle istituzioni. Personalizza l’organismo che presiede. Non è un’authority impersonale, è una persona credibile con un capitale inestimabile: la fiducia».
I media sono la benzina nel motore del leader, nel momento della scalata. Poi, a potere conquistato, cominciano le lamentazioni: i talk parlano male del Paese, i giornalisti non mi capiscono...
«È il ciclo del carisma, Renzi non ne è esente. Il linguaggio dei media è individualistico, creano il leader e poi lo distruggono. Media e magistratura sono portati a concentrarsi sul leader. E quando le cose vanno male, quando il leader va sotto assedio, viene salvato da una corazza istituzionale o dal suo partito. Che nel caso italiano mancano completamente. È questo il tallone di Renzi, la sua debolezza».
Il Pd, il partito di cui Renzi è segretario, rischia di perdere le amministrative a Roma e a Napoli, dove si ripresenta Antonio Bassolino di cui lei fu consigliere. È lì che nel 2016 si rivelerà fragile?
«Su Roma Renzi poteva lasciare che se ne occupassero i romani o metterci la faccia. Invece ha fatto fuori Ignazio Marino senza avere soluzioni di ricambio in mano, un’operazione improvvisata. Su Napoli le idee sono ancora più confuse. Non gli fa piacere la candidatura di Bassolino, ma neppure la prospettiva di confezionare un’alternativa contro De Magistris che magari si rivelerà perdente. In questo c’è la solitudine del leader. I partiti erano sistemi fiduciari. Ma ora chi gli racconta come vanno le cose fuori da Roma? Dov’è la sua intelligence? Il suo Ponte delle spie? Film per film, meglio Zalone».
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