Lina Palmerini
Il politologo Mauro Calise
Media e magistratura: i «rischi» del premier senza più opposizioni
Il Sole 24 ore, 10 giugno 2014
Un premier senza più opposizioni o almeno con opposizioni assai deboli:
debole è il suo stesso partito, deboli sono gli altri partiti, deboli le
parti sociali, debole perfino quel partito dei sindaci che tanto ha
pesato nella storia della sinistra. È una novità che Matteo Renzi ha
anche reso più evidente con quella frase "Ci metto la faccia" che scalza
il rapporto con i cosiddetti corpi intermedi per un corpo a corpo solo
con l'elettorato. Di questo inedito momento politico parliamo con Mauro
Calise professore di scienza della politica e autore di libri tra cui
"Il partito personale".
«La sua domanda sull'assenza di opposizioni è
legittima ma fa riferimento a una fase passata. Non siamo più in un
sistema classico in cui ciascun partito si definiva nella relazione con
l'altro. Con populismo e personalizzazione della politica si è superata
la contrapposizione tra partiti fondata su fratture storiche: non c'è
più, quindi, destra/sinistra perché il populismo tende alla
trasversalità degli elettorati mentre il personalismo carica di
aspettative e responsabilità solo il leader».
In sintesi: se Renzi è
arrivato al 41% pescando tra i voti moderati di Scelta civica, ma
anche tra i delusi berlusconiani e i grillini pentiti questo è dovuto a un
populismo che diluisce i confini tra partiti e a una leadership forte
che carica solo su di sè le attese dell'elettorato. Punti di forza che
hanno però le loro trappole. E non solo quelle che si vedono a occhio
nudo: cioè che l'assenza di alternative azzera gli alibi e identifica
con chiarezza la responsabilità del leader. Non a caso Renzi nel suo
"patto" con gli elettori mette sul tavolo la sua stessa poltrona e dice:
«Posso andare a casa domani». Oltre a questo ci sono fattori di rischio
che Calise chiama "fattori M".
«Il fattore media e il fattore
magistratura. Le spiego. L'esposizione personale del leader crea molte
attese alimentate dai media che, però, con la facilità con cui si
innamorano riescono a disinnamorarsi. Si ricordi, poi, che Berlusconi
aveva ed ha i suoi media di riferimento, Renzi no».
E l'altro?
«È il
fattore magistratura. La personalizzazione della politica espone un
leader all'azione investigativa molto più di prima anche perchè privo
dello scudo-partito. Uno scudo che ha avuto sempre la sinistra ma che
Renzi non ha più».
Insomma, spariscono gli alibi e compare l'insidia di diventare «preda» dei "fattori M". Con qualche contromisura
che Renzi può – o forse deve assolutamente – prendere.
«Direi che i
punti di fragilità sono due: da un lato quella carica di aspettative che
deve indurre il premier alla formazione di una squadra solida che
lavori sui tanti e complicati dossier. Il presidente americano si prende
qualche mese per la definizione del team. Sull'altra fragilità, quella
che lo rende preda della magistratura, serve una corazza istituzionale.
Non è un caso che sistemi di personalizzazione della politica abbiano
assetti costituzionali coerenti: parlo di presidenzialismo,
semipresidenzialismo o premierato forte. Se Sarkozy fosse stato in
Italia sarebbe finito in galera e se Hollande fosse stato italiano con
il 16% delle ultime europee a quest'ora staremmo già discutendo di
elezioni a ottobre».
Esempi chiarissimi, che hanno una logica, ma
che è stata sempre stata rifiutata.
«Guardi quando sento parlare di
deriva autoritaria mi viene da ridere. C'è invece una responsabilità
chiara, imputabile e dunque serve autorità. Ma siamo ancora in un
dibattito vetero-costituzionalista mentre già tutto è cambiato: i
partiti si sono sgretolati, l'elettorato è diventato volatile e
trasversale catturato da quello che chiamiamo populismo e leaderismo».
E
del resto la prova del nove sta proprio in quel balzo del Pd fatto solo
in un anno, dal 25% circa al 41% circa.
«Renzi ha fatto approdare la
sinistra a una fase post-sistemica in cui il punto politico non è la
contrapposizione – berlusconismo e anti-berlusconismo – ma la capacità
operativa del leader».
E che dice a Susanna Camusso che chiede un
partito unico della sinistra?
«Auguri».
°°°
Marco Damilano
Matteo Renzi il populismo di governo che predilige Checco Zalone alle élites di sinistra
l'Espresso, 11 gennaio 2016
Morto il re, viva il re. È morto il partito, torna il sovrano. Il leader
è il nuovo re, potentissimo e vulnerabile, nudo. E l’Italia di Matteo
Renzi è laboratorio privilegiato di questo processo, scrive Mauro
Calise, politologo dell’università di Napoli Federico II, inventore
negli anni Novanta del “partito personale”, in libreria con il saggio
“La democrazia del leader” (Laterza), destinato a far discutere. La
spiegazione di sé che il renzismo non ha mai trovato (e che non ha mai
voluto). Ma anche la denuncia dei limiti della leadership personale, la
sua debolezza: «I cittadini chiedono sempre al leader di turno molto di
più di quanto potrà fare».
La fine dei partiti è un fenomeno italiano?
«No. In tutta Europa siamo di fronte al tramonto dell’ultimo grande
corpo collettivo, il partito. Una costruzione millenaria: per
spersonalizzare il potere del sovrano ci sono voluti secoli, ora siamo
al processo inverso. I partiti non hanno più il monopolio della
rappresentanza e non fanno più sistema. In Inghilterra, patria del
bipolarismo, ci sono ormai almeno cinque partiti. In Francia siamo al
tutti contro Marine Le Pen. In Spagna le nuove liste come Podemos sono
cresciute in maniera impetuosa e imprevista. In Germania mi chiedo cosa
resterà dopo Angela Merkel. Si è segretolato il sistema».
Al suo posto cosa c’è?
«C’è il ritorno del potere monocratico. Un processo che è nato prima
nella società: l’individuo, l’io narcisista, l’io che si esprime nella
Rete. In questo habitat individualistico hanno trovato posto le
leadership personalizzate. L’Italia ha avuto una forte accelerazione con
Silvio Berlusconi, una forma vitalistica, anti-istituzionale,
iper-comunicativa: il peggiore dei modi. Alla Francia è andata molto
meglio, con la Quinta Repubblica De Gaulle ha trasformato la spinta
della leadership carismatica in istituzione. Da noi Berlusconi non ha
mai neppure provato a farlo. Sul piano storico Berlusconi non ha fallito
per il bunga bunga, ma per non aver mutato la sua leadership da
personale a istituzionale».
Renzi è l’erede di Berlusconi nella personalizzazione della leadership?
«Tra i due ci sono differenze enormi. Berlusconi primo ministro non è
mai esistito, non ha lasciato traccia, non è stato per nulla
decisionista. Berlusconi, più che un premier, è rimasto un capopartito,
con la tendenza a fare il capopopolo. Renzi invece fa solo il primo
ministro, dalla mattina alla sera. Lei che fa il giornalista può
scrivere che lo fa bene o male, io che sono uno studioso devo far notare
che lo spostamento della leadership sulla guida del governo è un
fenomeno inedito. In altri Paesi sarebbe una non-notizia, qui da noi non
era mai successo».
Renzi fa il premier, certo, ma non è immune da quello che lei
definisce il «demone populista». «Un vortice di promesse» per
conquistare un elettorato mutevole.
«Ovunque il populismo è la forma che si manifesta con la crisi della
democrazia. È la forma egemone della politica contemporanea. Il punto è:
come riesci a governarlo? E come si comporta il populismo quando vince
le elezioni e arriva alla prova del governo. Renzi è senza dubbio un
leader che conosce la retorica del populismo. Se la deve vedere, d’altra
parte, con Beppe Grillo e con Matteo Salvini, che quanto a populismo
non sono secondi a nessuno. Chi lo critica per questo dovrebbe poi
spiegare con chi intende sconfiggere avversari di quella statura. Con
Mario Monti? Con Enrico Letta? Il populismo va cavalcato senza farsi
divorare».
C’è stato un momento in cui Renzi si è perso in questo
labirinto? In cui il gioco di guidare dall’alto la rivolta
anti-establishment gli si è ritorto contro?
«Il punto critico è l’operazione sulle banche di queste settimane.
Contro il governo c’è una reazione tipicamente populista, la difesa dei
risparmiatori truffati. E su questo Renzi è in evidente difficoltà,
fatica a smarcarsi».
Chi sono i nemici del premier?
«Nessuno. È un’altra differenza con Berlusconi. Il capo di Forza Italia
spaccava il Paese, o con lui o contro di lui, o berlusconiani o
anti-berlusconiani. Renzi insegue consensi trasversali, vorrebbe parlare
a tutti. Non divide, si identifica con tutto il popolo, il suo
bersaglio sono i gufi, quelli che non vogliono il bene del Paese: le
élites, meglio se di sinistra. E rappresenta gli italiani che vogliono
le riforme, moderatamente. Sa chi rappresenta meglio di tutti questo
stato d’animo? Checco Zalone. Sono andato a vedere il suo film il primo
giorno. Sono uno zaloniano convinto, da sempre. C’è l’impiegato travolto
dal taglio delle province che tutti volevano purché non toccasse a
loro. Dentro ci trovi una fotografia. La Prima Repubblica, come dice
l’inno del film, non si scorda mai...»
Per il 2016, però, il premier vuole che il referendum sia sulla
Costituzione, ma anche sul suo operato. Sì o no: sulla riforma del
Senato e su Renzi. L’atto di nascita del renzismo (e
dell’anti-renzismo).
«Io credo che sia soprattutto un modo per bypassare le elezioni
amministrative, molto difficili per lui. E sta scegliendo come terreno
di confronto un tema, la riforma del Senato, che forse in altri tempi
avrebbe appassionato, ma che oggi riscalda poco. Farà una campagna
elettorale con pochi slogan e poco divisivi. Il cambiamento contro chi
vuole frenare. Certo, è una competizione che all’improvviso può
complicarsi, se ad esempio le amministrative dovessero andare molto
male...».
I pericoli per Renzi vanno cercati fuori dal Parlamento. Lei lo definisce fattore M: magistratura e media.
«Governo e Parlamento sono le componenti del sistema legittimate dal
voto dei cittadini. Le caratteristiche della magistratura e
dell’informazione sono l’autonomia e l’indipendenza dagli altri poteri.
Ma in presenza della crisi democratica la magistratura e l’informazione
hanno esteso il loro potere. Pensi soltanto alle sentenze della Corte
costituzionale che hanno cancellato la legge elettorale Porcellum o
riscritto la riforma delle pensioni. Per non parlare delle inchieste
della magistratura ordinaria, da Tangentopoli in poi. Sia chiaro: non
chiedo una subordinazione della magistratura al potere politico, segnalo
che il fattore M è per ogni leader il rischio da cui deve sapersi
difendere».
Cosa significa il fatto che Renzi affidi molto potere al magistrato più popolare d’Italia, Raffaele Cantone?
«Credo che Cantone rappresenti un compromesso tra Renzi e il fattore M.
Anche in questo vedo un parallelismo. Di Pietro era un capopopolo, come
Berlusconi, e come lui fondò un partito personale. Cantone è, come
Renzi, un uomo che si gioca la sua partita nelle istituzioni.
Personalizza l’organismo che presiede. Non è un’authority impersonale, è
una persona credibile con un capitale inestimabile: la fiducia».
I media sono la benzina nel motore del leader, nel momento della
scalata. Poi, a potere conquistato, cominciano le lamentazioni: i talk
parlano male del Paese, i giornalisti non mi capiscono...
«È il ciclo del carisma, Renzi non ne è esente. Il linguaggio dei media è
individualistico, creano il leader e poi lo distruggono. Media e
magistratura sono portati a concentrarsi sul leader. E quando le cose
vanno male, quando il leader va sotto assedio, viene salvato da una
corazza istituzionale o dal suo partito. Che nel caso italiano mancano
completamente. È questo il tallone di Renzi, la sua debolezza».
Il Pd, il partito di cui Renzi è segretario, rischia di perdere
le amministrative a Roma e a Napoli, dove si ripresenta Antonio
Bassolino di cui lei fu consigliere. È lì che nel 2016 si rivelerà
fragile?
«Su Roma Renzi poteva lasciare che se ne occupassero i romani o metterci
la faccia. Invece ha fatto fuori Ignazio Marino senza avere soluzioni
di ricambio in mano, un’operazione improvvisata. Su Napoli le idee sono
ancora più confuse. Non gli fa piacere la candidatura di Bassolino, ma
neppure la prospettiva di confezionare un’alternativa contro De
Magistris che magari si rivelerà perdente. In questo c’è la solitudine
del leader. I partiti erano sistemi fiduciari. Ma ora chi gli racconta
come vanno le cose fuori da Roma? Dov’è la sua intelligence? Il suo
Ponte delle spie? Film per film, meglio Zalone».
http://machiave.blogspot.it/2014/06/mauro-calise-renzi-profeta-disarmato.html
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