Eugène Chigot, Clair de lune |
Johann Wolfgang Goethe
An den Mond, 1777
Di nuovo inondi la cara valle
silente di luminosa bruma,
e questa volta sciogli alfine
tutta l'anima mia
sopra i miei campi diffondi
il tuo sguardo mitigante,
tenero come l'occhio dell'amica
di fronte alla mia sorte
quello che sai così mutevole
questo cuore in fiamme,
voi lo tenete come uno spettro
relegato al fiume,
quando nella squallida notte
d'inverno si gonfia di morte,
o nel fulgore della vita a primavera
scorre sopra le gemme.
Beato chi senza alcun odio
si segrega dal mondo,
tiene al petto un essere amico
insieme con lui godendo
di quello che gli uomini ignorano
o forse disprezzano,
e che pei labirinti del cuore
di notte va errando.
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Giacomo Leopardi
Alla luna (1819)
1
O graziosa luna, io mi rammento
2
che, or volge l’anno, sovra questo colle
3
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
4
e tu pendevi allor su quella selva
5
siccome or fai, che tutta la rischiari.
6
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
7
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
8
il tuo volto apparia, che travagliosa
9
era mia vita: ed è, né cangia stile,
10
o mia diletta luna. E pur mi giova
11
la ricordanza, e il noverar l’etate
12
del mio dolore. Oh come grato occorre
13
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
14
la speme e breve ha la memoria il corso,
15
il rimembrar delle passate cose,
16
ancor che triste, e che l’affanno duri!
Il tema del ricordo ricorre molto spesso nella produzione letteraria di Leopardi. Il ricordo – come l’illusione e come il sogno – esalta la contemporanea presenza, nell’animo umano, del dolore e del piacere, i quali, pur non conciliandosi, sembrano confondersi nell’alternanza in un unico sentimento che esprime la condizione esistenziale dell’uomo.
L’apertura è sul versante della gioia: “O graziosa luna”. E “graziosa” significa sia “bella e leggiadra”, sia “benigna”. Ma subito (v. 3) irrompe il dolore: “io venia pien d’angoscia”. Quindi di nuovo la luce che sempre emana dalla Luna e illumina la terra. Poi il ricordo del dolore passato, che, però, sembra addolcirsi: fra le lacrime – è vero –, ma pur sempre è luce quella che appare agli occhi (luci anch’essi) del poeta. A questo punto la sferzata della ragione, in forma quasi eleatica: “è, né cangia stile” (v. 9), il dolore come l’Essere. Ma subito dopo una sorta di riconciliazione con la Natura: “o mia diletta luna”. E segue il piacere (“mi giova”) del ricordo, anche se è ricordo di cose dolorose e, pertanto, rinnova la tristezza.
Dopo
il l835, su una copia dell’ultima edizione a stampa, Leopardi
aggiunge i versi l3 e l4: una riflessione sulle sue convinzioni
giovanili e una presa di distanza da esse, che sottolinea però la
portata della funzione del ricordo, legandolo alla speranza. Di
fronte alla morte incombente (e quasi presentita dal poeta) le
certezze della ragione non sono piú scalfite dal sogno,
dall’illusione o dal ricordo; ma quando la vita – seppure con
tutto il suo bagaglio di dolore – appariva una via in gran parte da
percorrere, allora il ricordo non solo saldava il passato al
presente, ma offriva anche una prospettiva di speranza per il futuro.
Una sorta di dilatazione del presente verso l’eterno (e l’infinito)
che rammenta il tema nicciano dell’eterno ritorno. (filosofico.net)
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Felice Romani
Norma, 1831
Casta Diva che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel.
Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancor lo zelo audace,
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.
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