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lunedì 25 agosto 2025

Il poeta assassinato

 

Orazione di Alberto Moravia ai funerali di Pasolini  

trascrizione dell’orazione di Moravia ai funerali di Pasolini, il 5 novembre 1975

«Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo (applausi). Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro.

Poi abbiamo perduto anche un romanziere. Il romanziere delle borgate, il romanziere dei ragazzi di vita, della vita violenta. Un romanziere che aveva scritto due romanzi anch’essi esemplari, nei quali, accanto a un’osservazione molto realistica, c’erano delle soluzioni linguistiche, delle soluzioni, diciamo così, tra il dialetto e la lingua italiana che erano anch’esse stranamente nuove.

Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, no? Pasolini fu la lezione dei giapponesi, fu la lezione del cinema migliore europeo. Ha fatto poi una serie di film alcuni dei quali sono così ispirati a quel suo realismo che io chiamo romanico, cioè un realismo arcaico, un realismo gentile e al tempo stesso misterioso. Altri ispirati ai miti, il mito di Edipo per esempio. Poi ancora al grande suo mito, il mito del sottoproletariato, il quale era portatore, secondo Pasolini, e questo l’ha spiegato in tutti i suoi film e i suoi romanzi, era portatore di una umiltà che potrebbe riportare a una palingenesi del mondo.
Questo mito lui l’ha illustrato anche per esempio nell’ultimo film, che si chiama Il fiore delle Mille e una notte. Lì si vede come questo schema del sottoproletariato, questo schema dell’umiltà dei poveri, Pasolini l’aveva esteso in fondo a tutto il Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. 

Infine, abbiamo perduto un saggista. Vorrei dire due parole particolari su questo saggista. Ora il saggista era anche quello una nuova attività, e a cosa corrispondeva questa nuova attività? Corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene a un altro aspetto di Pasolini. Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo Paese come Pasolini stesso avrebbe voluto (applausi)».

Renzo Paris 
Io, Pier Paolo Pasolini e quella mattina all'Idroscalo 
La Repubblica Venerdì, 22 agosto 2025

Alle otto di un mattino del 2 novembre 1975, giorno dei morti, squillò il telefono. Era una domenica nuvolosa. Sono stato sempre mattiniero e ricordo che avevo già portato in giardino il mio gatto, chiamato “micio”, per farlo divagare un po’. Gli avevo raccomandato di non filare dietro le gattine. Quelle, per farsi inseguire, sarebbero uscite dal cancello e avrebbero attraversato la strada sempre molto trafficata. Raccomandazione inutile, di lì a qualche giorno una macchina lo investì, uccidendolo. La voce nella cornetta era quella del mio amico Franco Cordelli. Senza aggiungere altro mi comunicò che avevano ammazzato Pasolini all’Idroscalo di Ostia. Sulle prime non ci credetti e volli indagare. “Chi te l’ha detto?”. Franco ripeté la notizia funebre e seccato aggiunse che lo aveva saputo da Daniele Del Giudice, che lo aveva subito avvertito. Esterrefatto, abbassai la cornetta e chiamai Moravia. “Coraggio” mi disse “se vieni sotto casa mia andiamo insieme all’Idroscalo con la macchina di Glauco”.

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Dunque, avevano ammazzato Pasolini. E l’assassino era un ragazzo di diciassette anni, fermato dai carabinieri mentre guidava contromano l’Alfa di Pasolini sulla Ostia-Roma. Montai sulla mia Cinquecento e in pochi minuti raggiunsi il Lungotevere della Vittoria. Sul marciapiede non mi raccapezzavo, ero in stato confusionale. Pasolini non c’era più. Di lì a poco arrivò la Volkswagen di Glauco. Moravia si mise accanto al guidatore e io ed Elio Pecora nei sedili di dietro. Ero diventato di colpo muto. Un ragazzino che uccide un adulto forte e sportivo come Pasolini. E poi, per sfregio, gli passa sopra con la macchina. Che orrore! Sembrò inverosimile proprio a tutti. “Chi sa se Susanna l’hanno avvisata” disse Glauco, e Moravia rispose che il telefono era sempre occupato. “Ma Enzo dov’è?” chiesi. Elio sapeva che stava al Vertano, nella casa dei suoi fine settimana. Ma a che ora era stato ucciso? E come mai il telegiornale della notte non aveva detto nulla? Farneticavo. Moravia si voltava, cercava di capire come l’avevamo presa io e Pecora. Tamburellava con le dita sul cruscotto. Anche a lui sembrava inverosimile. “Ci aveva avvertiti da un pezzo” dissi. “La violenza sale dalle periferie e presto raggiungerà anche le case dei borghesi”.

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Ripercorro oggi il tragitto di allora. Alla Magliana, dopo San Paolo, con un occhio alla trattoria Biondo Tevere, sfreccio con la mia Toyota verso la via del mare. È agosto, fa caldo. Quest’anno l’estate sembra sia arrivata con ritardo. Abbiamo trascorso una primavera piovosa e fredda, come non capitava da decenni. Sulla via del mare, trafficatissima nei due sensi, immagino di morire in uno scontro frontale. Ho paura. Rallento e mi fermo dove posso. Sono ormai vicino a Ostia, ma non credo di aver fatto questa strada allora. Nella memoria è come se fossimo usciti per una via più piccola e fossimo andati per campi. Ricordo che ci fermammo in un bar dove stazionavano due brutti ceffi con giubbotti di pelle nera, a guardia delle loro Kawasaki. Avranno avuto una trentina d’anni. Che ci facevamo lì a quell’ora? Che cosa dovevano controllare? Dopo aver preso indicazioni dal barista, quei due ci seguirono per un bel tratto. Forse avevano riconosciuto Moravia, chissà. Dissi ai miei amici che quei due non mi piacevano per niente. Sembravano seduti lì per vedere chi accorreva, i personaggi famosi che avrebbero riconosciuto. Anche Alberto guardò nello specchietto retrovisore quando ancora ci seguivano. Forse erano loro i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, amici di Pino Pelosi, come si evince dall’ultima sua confessione. L’assassino però, da ultimo, ha parlato di una Gilera con i due fratelli sopra il sellino e di una macchina mille e cinque, da cui erano scesi altri brutti ceffi. “Volevano dare una lezione al comunista o al gay o a tutti e due” aveva detto Pelosi di recente, quando i fratelli Borsellino erano ormai morti di Aids e non potevano più nuocergli. So che Moravia raccontò di quei due all’avvocato Nino Marazzita, che avrebbe voluto farmi interrogare dal magistrato, ma alla fine non se ne fece nulla. Mentre sto fermo e guardo alla mia destra un paesaggio brullo, mi viene in mente Moravia che voltandosi dalla mia parte canticchiò: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” e subito dopo gridò: “Ma perché non se l’è portato a casa?! Non era nemmeno lontano dall’Eur… perché non ha fatto come Visconti?”. Era disperato, voleva stemperare la tensione accumulata con quelle battute, come un ragazzino che non sa se credere o no a una tragedia. Poi si ammutolì.

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In un racconto che inserii nel volume Cattivi soggetti (Iacobelli, 2013), sotto il titolo Il poeta assassinato, scrissi: Arrivammo allo spiazzo recintato dove notammo numerose impronte di scarpe. Terra smossa e delle pietre a sottolineare la zona del ritrovamento del corpo martoriato e oltre il recinto le baracchette. La piccola folla, che si era radunata lì prima che arrivassimo, era scomparsa. Incontrammo allora un giornalista del Corriere della Sera che volle subito intervistare Alberto. Vidi i legnetti, un paio, quelli che secondo le prime notizie sarebbero stati usati per la colluttazione mortale. I segni delle ruote della macchina che l’aveva sfigurato erano ancora visibili. Ma non mi pare che, almeno in quello spiazzo, ci fossero segni di una seconda macchina. Allora si parlava soltanto della macchina di Pasolini, dove avevano ritrovato un plantare non suo, un maglione verde e schizzi di sangue. I carabinieri dissero che sotto la macchina c’era materia cerebrale e capelli di Pier Paolo. Era cominciato così l’aggiustamento del set di quella morte. Doveva sembrare, come del resto sembrò subito a tutti, una morte pasoliniana quante altre mai. Chi l’aveva architettata non doveva essere il gruppetto che lo massacrò e gli fece scoppiare il cuore (pag. 70). Mi abbandonai a una sottile malinconia, a un dolore che mi colpì al cuore. Quell’uomo così vispo e vitale, che stava facendo uscire il suo ultimo film intitolato Salò e che avevo incontrato qualche mese prima, mentre acquistava una poltroncina proprio per usarla in quel film, dunque non c’era più.

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Tutto questo lo rimugino dentro la Toyota ferma sul lungomare Duilio di Ostia, dove i carabinieri avevano fermato la macchina sportiva che andava contromano a forte velocità. Avrei dovuto fare tutto il lungomare fino alla fine, poi imboccare una strada molto stretta, che in alcuni punti diventa un rigagnolo fangoso e girare a sinistra, in uno dei tanti viottoli che conducono alla spiaggia. Non più di una trentina di metri e sarei giunto sul posto. Antonio Padellaro scrisse sul Corriere del 3 novembre: Il punto esatto dove giaceva il corpo sono pochi metri quadrati di sabbia. Calpestato dal viavai dei carabinieri e dei curiosi, quel piccolo spazio ha già assorbito il sangue che vi è stato versato sopra. È rimasto un pezzo di vetro e una sigaretta consumata. Proprio accanto a quel pezzo di sabbia c’è una staccionata verniciata di rosa, serve a stabilire il confine delle tante piccole proprietà abusive in cui è stata lottizzata la zona. La terra è demaniale, e teoricamente chiunque può recintarsi la sua fetta. Chi ancora non ha costruito stabilisce il proprio diritto illegale sul suolo stendendo una rete di filo spinato o piantando una serie di paletti di legno. Con uno di questi paletti Pasolini è stato colpito a morte. Al centro di uno di questi recinti, per rendere ancora più evidente l’occupazione avvenuta, qualcuno ha lasciato un tavolo di legno tutto smozzicato e alcune vecchie sedie in ferro battuto. Il corpo di Pasolini è stato ritrovato riverso a pochi metri di lì… Si tratta di un rudimentale campo di calcio: le porte sono state innalzate utilizzando vecchi tubolari di ferro, per terra non vi è alcun segno che delimiti l’area del gioco. L’auto di Pasolini deve essersi fermata tra la porta di sinistra e alcuni sacchi di spazzatura… L’occhio spazia sulle casupole abusive, alcune di legno, altre di tufo, tutte a un piano, molte senza vetri alle finestre. Le casupole vengono abitate solo d’estate. Maria Teresa Lollobrigida, 46 anni, è la donna che ha scoperto il corpo di Pasolini alle sei e mezzo…

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“Sono un suo amico, gli ero molto attaccato” dice Moravia. Dunque sotto la GT di Pasolini, secondo i carabinieri, come ho accennato, furono rinvenuti sangue, capelli e materia cerebrale. Pelosi lamentava la perdita di un anello d’oro, che poi fu ritrovato accanto al corpo di Pasolini; disse anche che sotto il tappetino della vettura c’erano tre milioni di lire. L’aveva ammazzato perché non era stato ai patti. Assurdo, trattandosi di un marchettaro. I giornali accettarono da subito la confessione di Pelosi e solo qualcuno cominciò a scrivere che non doveva essere solo. D’altronde se Pasolini era forte anche Pelosi lo era, no?

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Con la macchina di Glauco facemmo il percorso da sonnambuli, con la volontà di raggiungere sì il luogo del delitto, ma anche di evitarlo, pur sapendo che il corpo di Pier Paolo era stato rimosso e portato all’obitorio. C’è un buco di tre ore e mezzo dalle tre di notte, quando Pelosi era ormai nelle mani dei carabinieri, fino alle sei e mezzo, quando una borgatara trovò il corpo del poeta. Spengo il mio smart, non ho nessuna voglia di proseguire. Di quell’assassinio è rimasto ormai lo scheletro di Pasolini nel cimitero di Casarsa, nemmeno la GT c’è più, fu ritrovata parcheggiata sulla Casilina e rottamata. C’è un sole che spacca. Esco dalla macchina e cammino, cammino, fino alla rotonda, per sfogare l’ansia. Nessuno di noi pensò che Pelosi potesse esser da solo quella notte; di sicuro aveva dei complici, di cui non poteva parlare, a rischio di morte. Al ritorno Moravia tornò a ripetere, con la voce rotta, che avrebbe dovuto fare come Visconti. “Una grande, enorme perdita” diceva, salutandoci sotto casa sua. Rientrai nella Cinquecento. Mi sembrò che tutto quello che avevo visto l’avessi già vissuto. Mi capitava sempre quando l’emozione debordava. O era perché pensavo spesso che un mattino sarebbe tornato all’Eur tutto insanguinato, e sarebbe morto tra le braccia di sua madre. Sono combattuto. Non ho più voglia di rivisitare quel luogo dove la poesia morì. Entro in un bar e sorseggio un ginseng. Torno a Roma, non voglio ripercorrere quello spiazzo, dove c’è una scultura in ricordo del grande poeta. Ho il cuore in gola. A casa sfoglio le sue ultime interviste, nervosissime, gridate.

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Prendo il 492 e mi reco a largo Arenula. Fa un caldo terribile, è il primo pomeriggio del 10 agosto. Turiste mezze nude con cappellini di paglia, la bottiglietta dell’acqua in una mano e il ventaglio dall’altra, camminano trasognate. Un ombrellino copre il capo delle visitatrici orientali. Evitano il sole, camminano dalla parte dell’ombra. Scendendo da via Barberini, al largo della svolta per la Fontana di Trevi, alla fermata dell’autobus incontro una ventina di ragazzi del Bangladesh con bottigliette e cappelli di varia forma, che ostruiscono il passaggio per captare l’attenzione di chi scende dagli autobus affollati. Chiedo al portiere del numero 8 di via Arenula dove era ubicata la Casa della Cultura, se ricorda quei locali. Lui nega con la testa, senza rispondermi. Accenno ai funerali di Pasolini. Pasolini chi? La Casa della Cultura? E che è? Entro in un negozio storico di matite e pennarelli e dopo aver pagato ottantacinque centesimi una matita chiedo alla commessa se sa della Casa della Cultura, proprio qui accanto, e se ha mai sentito parlare di Pasolini. No, mi risponde come se fosse logica la sua risposta negativa, essendo lei appena trentenne, praticamente una fanciulla. Lascio perdere. Getto uno sguardo alla libreria ambulante dell’usato all’ingresso del giardino. Trovo la prima edizione della Vita di Pasolini di Enzo Siciliano a sei euro. La compro. Mi siedo nel giardino e inizio a rileggerla.

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Enzo racconta quello che sapeva della morte del suo grande amico. Con il fiato in gola corre verso la morte, partendo dalla stazione Termini, dalla GT grigio metallizzata, dai marchettari, da Pelosi e giù giù fino al benzinaio e alla trattoria Biondo Tevere, e subito all’Idroscalo, dove in quello sterrato accanto a un campetto di calcio fu sfigurato il suo grande amico. Pelosi aveva confessato, era lui l’assassino, una marchetta inviperita perché il cliente non stava ai patti. Quello per ventimila lire voleva anche incularlo. E così lo aveva ammazzato di botte e poi c’era passato sopra come si fa con le cicche delle sigarette, per spegnerle del tutto sotto la suola delle scarpe. Si apprestava a pagare con il carcere: di che cianciava Laura Betti? Pasolini per Pelosi era solo un frocio che dimostrava quaranta-cinquant’anni, che era finito sotto le ruote della sua stessa macchina, mentre lui guidava fuggendo da tutto quel buio. Salvo poi farsi prendere dai carabinieri, andando contromano nella notte, come forse gli avevano suggerito i fratelli Borsellino. Siciliano non si dà pace e ricomincia daccapo, quando in Friuli Pier Paolo scriveva le poesie in dialetto e fu espulso dal PCI per indegnità, denunciato da un suo amico.

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Mi alzo dalla panchina quando un gabbiano inferocito tenta di beccarmi i sandali. Bei tempi quelli del bestseller La gabbianella! I gabbiani sono ferocissimi anche con gli umani, dopo piccioni e cornacchie. Nel giorno dei funerali, la folla iniziava qui e finiva a Campo de’ Fiori, accumulandosi anche per le vie limitrofe. Adesso vedo soltanto una piccola folla di turisti, che guardano annoiati le vetrine, e qualche tossico che chiede l’obolo. Sono le tre del pomeriggio e la piazza è disseminata di cassette e di sacchi di rifiuti. C’è un olezzo che certo lambisce anche le narici di quelli che si sono seduti all’aperto, nelle trattorie che ormai occupano quasi tutta la piazza. Fuggo verso piazza Farnese, mi spingo verso il muretto dell’ambasciata francese. Entrambi i muretti, che partono dal grande portone, sono occupati da gente seminuda, che suda e si agita e si sventaglia o beve a canna dalle bottigliette. Durante i funerali la gente era finita anche qui. Davanti al cinema Farnese, dove adesso staziona la monnezza, c’era il palco che la FGCI aveva innalzato accanto al furgone della bara. C’era mezza Roma a Campo de’ Fiori, attorno al palco, dove parlò Gianni Borgna, mentre Moravia preferì fare l’elogio funebre tra la folla, gridando che di poeti come il suo amico ne nascevano pochi, due o tre in un secolo, e Pasolini era certo uno dei più grandi poeti del Novecento. La piazza era piena di bandiere rosse. Ascoltai Elsa Morante gridare: “Viva la poesia!”. E per me finì lì.

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Accanto al furgone che lo avrebbe trasportato a Casarsa, in mezzo a quella folla, non me la sentii di avvicinarmi ai miei amici. Stetti lontano anche da Enzo Siciliano, accompagnato da sua moglie Flaminia, entrambi addolorati. Salutai Laura Betti, che mi convocò a casa sua. “Ti devo parlare di una cosa importante” mi disse. Prima di raggiungere la Casa della Cultura, sperando di entrare nella piazza da lì, attraversando la strada, fui quasi investito da una macchina. I due giovani mi gridarono all’unisono: “Guarda che te famo come a Pasolini!”. Ero così stralunato che sarei volentieri finito sotto quelle gomme. Quando il furgone con la bara di Pasolini si allontanò dalla piazza, fuggii. Non sopportavo quella tragedia. A piedi attraversai piazza Navona e mi inoltrai verso Castel Sant’Angelo. Sotto gli angioloni barocchi mi affacciai sul Tevere e mi ricordai del barcone del Ciriola, sempre pieno di ragazzi di vita e molto frequentato da Pasolini negli anni Cinquanta. Era il nostro night all’aperto. C’erano lampadine accese come una luminaria paesana e sembrava sempre che fosse festa. Nel giardino di Castel Sant’Angelo, mi sedetti su una panchina per regolare le emozioni che erano state fortissime. Me lo vidi davanti, come quella volta che andai nella sua casa all’Eur con le bozze di Nuovi Argomenti in mano. Erano gruppi di poesie, note, brani di tragedie in versi. Per urgenti motivi tipografici, doveva correggere tutto davanti a me e riconsegnarmele. Sarei andato a portarle da certi fratelli tipografi che stavano alla Balduina. Ero seduto davanti al suo tavolo di lavoro, dove troneggiava alla sua destra un candelabro ebraico. Era vestito con un jeans e una camicia a quadretti. Mi colpì la nudità della stanza e un finestrone che dava in un giardino da cui proveniva una luce soffusa, chiara. Vedendolo correggere, assorto, tra me e me recitavo “Alba pratalia araba, negro semen seminaba”. Come se fossi in una biblioteca medievale e Pasolini fosse un priore. Corresse le carte e me le riconsegnò. Alzandosi mi fece delle domande sul mio mezzo di trasporto. Mi indicò l’autobus del ritorno. Non gli dissi che avevo la Cinquecento, gli lasciai credere che ero più povero di quanto non fossi. Sempre a via Eufrate, lo incontrai con Dario Bellezza. Seduti in salotto, ci raccomandò ancora una volta di dimenticare l’avanguardia, che ci avrebbe fatti diventare dei veri mostri. Ed era come se sapesse che subivamo il fascino della neoavanguardia e volesse prenderci in castagna. Io e Dario eravamo due dei nuovi autori che Nuovi Argomenti aveva scoperto contro il negativismo del Gruppo 63. La rivista cercava autori, quando nessuno credeva che ce ne fossero più. Inutile dire che io e Dario andavamo fieri dei due direttori della rivista. Fu in quella occasione che strinsi la mano alla madre e a Graziella Chiarcossi. Anche quel pomeriggio Pasolini ci salutò per una “partitella” a pallone. Dario tentò di abbracciarlo forte e Pasolini esclamò: “Embè?” sorridendogli.

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Laura Betti diceva che Pier Paolo non si sapeva fare un uovo al tegamino. Dalle parole di Laura il suo grande amico veniva fuori via via come un gigante della poesia, ma anche come l’uccellino indifeso che aveva bisogno di protezione materna, quello che allora si chiamava “maternage”. Il libro che scrisse su di lui, riprendendo una delle prime espressioni infantili del poeta, si intitolava Teta veleta (Garzanti, 1979), e raccontava dell’amore materno che nutriva per un uomo ferito da innumerevoli processi e attacchi subiti da tutti i lati della politica. All’uscita dalla casa di via Eufrate, sedendoci sugli scalini del Palazzo del Lavoro, mi stupivo della risata di Dario. “Lo sai che Pier Paolo è un ragazzino? Hai visto come si comporta quando sta con la mamma e i parenti, come un professorino che deve dire la sua sui suoi allievi. Era felice di essere ascoltato dalla madre… ma poi quando esce diventa un’altra persona, si traveste da ragazzo a vita e cerca i marchettari più feroci. Ti assicuro che è proprio il contrario del pedagogo, alla rovescia”. Dario rideva sullo sdoppiamento di Pasolini perché già allora lo aveva visto rivestire entrambi i ruoli. Ma io non volli credere che Pasolini non fosse sempre l’intellettuale pedagogo, il polemista dei suoi scritti. A me bastava così.

venerdì 15 agosto 2025

Soldati. La morte di Bertrand


Nel corso della Grande Guerra, al fronte, in prima linea, la morte era un evento banale. Non parliamo del primo soldato caduto, che suscitava una particolare emozione tra i suoi compagni. Parliamo di ciò che accadeva quando la permanenza al fronte era diventata un fatto abituale. Nel caso di un assalto, i morti in un solo giorno potevano anche essere centinaia o addirittura migliaia; furono 22mila i soldati britannici caduti il primo luglio 1916, nella battaglia della Somme. Si sa che i grandi numeri alla fine lasciano sussistere un sentimento di indifferenza; commuove di più l'evocazione di un singolo dramma che non lo snocciolamento di cifre che racchiudono e cancellano al tempo stesso una molteplicità indistinta di storie individuali. Tuttavia anche i morti a migliaia della Somme hanno trovato uno storico capace di restituire la gravità del massacro. Nel suo fondamentale saggio Il volto della battaglia, John Keegan ha scritto: "Si era però trattato di una enorme tragedia umana. I tedeschi che avevano schierato contro gli inglesi sul fronte della Somme una sessantina di battaglioni [...] avevano avuto seimila perdite tra morti e feriti. Certo non erano poche, ma l'entità della tragedia va vista nell'enorme disparità tra le loro e le perdite inglesi [...]. In totale, gli inglesi avevano perso circa sessantamila uomini, di cui ventimila uccisi durante la prima ora di attacco, fors'anche durante i primissimi minuti. "Le trincee", scrisse Robert Kee cinquant'anni dopo, "furono i campi di concentramento della Prima guerra mondiale"; e benché l'analogia sia di quelle che un accademico definirebbe "antistoriche" è indubbio che in quasi tutte queste testimonianze sul 1° luglio vi sia qualcosa che ricorda Treblinka: le lunghe, docili file di giovani infagottati nelle divise, gravati di fardelli, con un numero al collo, che avanzavano in un paesaggio sconvolto verso lo sterminio che li attendeva tra i reticolati. I resoconti della battaglia della Somme risvegliano, nei lettori e negli ascoltatori, emozioni assai simili a quelle destate dalla corsa alla morte ad Auschwitz - fascino frammisto a senso di colpa, incredulità, orrore, disgusto, pietà e collera -, e ciò non soltanto nel pacifista dal cuore tenero, e neppure soltanto nello storico militare [...], ma anche nei militari di professione". Libro pubblicato nel 1976. Sessant'anni dopo il terribile evento. Il tempo non ha cancellato lo scandalo. 
Detto questo riguardo ai massacri, resta il fatto che la morte dei singoli nelle memorie e nelle testimonianze di guerra come nei romanzi lascia le tracce più impressionanti. Più che le distese di cadaveri, la visione di un singolo corpo straziato e repellente. Più che l'anonima scomparsa di tanti, la perdita di una persona cara o di un riferimento prezioso. 
Uno scrittore che si segnala per la sua rappresentazione atroce della morte è Henri Barbusse. Egli non è mai tenero nel descrivere i cadaveri, c'è in lui un certo compiacimento nel soffermarsi sul tema. Il suo voleva essere un romanzo di denuncia, egli voleva sicuramente mostrare la guerra in tutto il suo orrore. Certamente ha esagerato. Quello che ha prodotto è una visione espressionistica della realtà, non una descrizione attenta e consona. Prendiamo un esempio. Il soldato  Poterloo sta andando alla ricerca del suo villaggio e della sua casa dietro le linee tedesche. A un certo punto si imbatte in due cadaveri: 

E quello cos'è? Una pietra miliare? No, che non lo è: è una testa, una testa, una testa nera, conciata e spelacchiata- La bocca è tutta storta, e ai lati si vedono i resti dei baffi: sembra la testa di un grosso gatto carbonizzato Il resto del cadavere - un tedesco - è sottoterra, sepolto in verticale.
"E questo?".
È una lugubre composizione, formata a un capo da un cranio tutto bianco e all'altro, a due metri di distanza, da un paio di anfibi: in mezzo c'è una catena di cinghie sfilacciate e di stracci cementati da fango scuro.

L'intento polemico o la provocazione appaiono più chiari quando il morto è un personaggio noto del romanzo e non una figura anonima incrociata di sorpresa. ll caporale Bertrand nel romanzo rappresenta un decisivo punto di riferimento, la guida spirituale. Esprime tra l'altro il punto di vista dell'autore, è un suo alter ego: "Queste cose le ho sempre pensate", mormoro. "Ah!", fa Bertrand. Il caporale viene raffigurato come una sorta di monumento in carne ed ossa: "se ne sta sempre un po' appartato, ritto e zitto, la bella faccia volitiva dallo sguardo penetrante". [...] La posa tranquilla di quell'uomo che guarda davanti a sé e pensa, è statuaria e mi colpisce". 
Ed ecco ora l'immagine dell'eroe morto: 

E così [Volpatte] va e viene, spinto verso i morti da una strana curiosità. Indifferenti, quelli se lo rimpallano l'un l'altro, e lui guarda per terra a ogni passo. All'improvviso lancia un grido d'angoscia. Ci chiama con la mano e si inginocchia accanto a un morto.
"Bertrand!".
Siamo colti da una commozione profonda, acuta. Ah!, è stato ucciso anche lui che con la sua energia e la sua lucidità riusciva a dominarci meglio di chiunque altro. Si è fatto uccidere, ha finito per farsi uccidere, a furia di far sempre il suo dovere. [Un personaggio così esemplare non può morire contro la sua volontà, osservazione mia]. Ha finito per andare incontro alla morte!
... Il trauma della sua scomparsa è aggravato dallo spettacolo offerto dalle sue spoglie. È una vista abominevole. La morte ha dato un aspetto grottesco a quest'uomo così bello e pacato. Con i capelli sparpagliati sugli occhi, i baffi spioventi in bocca, la faccia gonfia, ride. Ha un occhio spalancato, l'altro chiuso e la sua lingua fuori. Le braccia sono stese e incrociate, le mani aperte, le dita discoste. La gamba destra è stesa di lato; la sinistra, spezzata da una scheggia dalla quale è uscita l'emorragia che lo ha fatto morire, è girata ad arco, slogata, molle, disossata. Una lugubre ironia ha conferito agli ultimi soprassalti della sua agonia l'aspetto di una posa da pagliaccio.

Il profeta, la voce della verità sul significato della guerra e del sacrificio imposto alla truppa si converte in una figura comica, ridicola. Forse è un modo per sottolineare il carattere improprio di una guerra destinata nelle intenzioni dell'autore come in un sentimento allora diffuso tra i soldati ad essere l'ultima delle guerre: la der des der, la dernière des dernières, l'ultima delle ultime, un mito che doveva rivelarsi ingannevole e fallace. 
Un altra orribile morte nel romanzo si incontra qualche pagina più in là.
 È quella del soldato Poterloo. Viene richiamata a cose fatte per via di una scena successiva. Il narratore vede passare dei portaferiti che reagiscono a una esplosione deponendo una barella e sollevando qualcosa di inerte: "mi rievoca - nota - l'indimenticabile visione della notte in cui il mio compagno d'armi Poterloo, con il cuore pieno di speranza, s'è come involato, a braccia spalancate, nella fiammata prodotta dal proiettile di un obice". Una sorta di crocifisso proiettato in aria. Ancora una immagine portatrice di un messaggio simbolico.

Cambiamo registro. Nella letteratura francese di guerra c'è un'altra morte che interrompe il corso del racconto e configura un episodio di grande risonanza emotiva. Il personaggio colpito è l'amico più caro del narratore. Qui non ci vengono offerti particolari sullo stato del cadavere. Prevale di gran lunga la manifestazione piena del sentimento. Per tutto un tempo, la morte sospende ogni cosa, esclude ogni altra preoccupazione, producendo l'effetto di una distruzione totale:

La cosa non mi ha afferrato che molto tempo dopo, nel cavo di argilla dove ero tornato a sedermi, tra Lardin e Bouaré: una freddezza dura, una indifferenza disgustata per tutte le cose che vedevo, per l'ignominia del fango e la miseria dei cadaveri, per la luce triste sulla cresta, per l'accanimento degli obici... Non sento nemmeno più la mia stanchezza; non temo più nulla, neppure lo schiacciamento delle mie ossa sotto uno di quegli enormi crolli, né la lacerazione della mia carne sotto il morso delle schegge di acciaio. Non ho più pietà dei vivi, né di Bouaré che trema, né di Lardin prostrato, né di me stesso. Nessuna violenza mi solleva, nessuna ondata di dolore, nessun soprassalto di indignazione virile. Non è neppure disperazione, questa aridità del cuore di cui sento in gola il gusto... È solo questo: una freddezza dura, una indifferenza disseccata, simile a una contrazione dell'anima. Cadete ancora, quanto a lingo vorrete, grosse granate, torpedini e bombe! Schiacciate, tuonate, sollevate la terra in zolle mostruose! Ancora più in alto! Più in alto! Come è grottesco, mio Dio, tutto questo! Nell'imbuto 7: va bene. Nella piccola trincea di Souesme: va bene [...]

Il brano continua sul tono dell'indignazione furiosa e poi si placa nel richiamo ai paesaggi della loro vita precedente: la Beauce, la Loira. Infine, la rabbia per una vita che in modo assurdo prosegue: "la cosa non mi stupisce, tutto è assurdo". 
La morte nonostante la sua banalizzazione seriale restava un evento tragico e brutale, capace di alterare lo sguardo dei sopravvissuti determinando la comparsa di visioni da incubo. Naturalmente l'immaginario dei singoli scrittori presenta grandi differenze che la durezza del colpo accentua. In Barbusse il grottesco e lo strazio investono i cadaveri abbandonati in giro, mentre in Genevoix si ripercuotono moltiplicati nello spettacolo stesso della devastazione. 
Il quadro non sarebbe completo se non aggiungessimo a quelle finora considerate le pagine di un autore tedesco. Non uno qualsiasi. Il più illustre tra quanti hanno offerto della guerra una rappresentazione che si può definire simpatetica: Ernest 
Jünger. In Tempeste d'acciaio, la vista e l'odore stesso dei cadaveri sono considerati con puntuale, sobria esattezza:

Mi svegliai sull'erba umida di rugiada. Sotto la raffica di una mitragliatrice tornammo di corsa nella nostra trincea e occupammo una posizione abbandonata dai francesi ai margini del bosco. Un odore dolciastro e un ammasso attaccato alla rete del filo spinato attirarono la mia attenzione. Saltai fuori dalla trincea nella nebbia del mattino e mi trovai davanti al cadavere rattrappito di un soldato francese. La carne putrefatta, simile a quella di un pesce, spiccava con il suo colore bianco sull'uniforme a brandelli. Nel voltarmi feci un balzo indietro, inorridito; accanto a me una figura umana era appoggiata ad un albero. Portava gli accessori in cuoio lucido dei francesi e aveva ancora sulle spalle lo zaino pieno, sormontato da una gavetta rotonda. Le orbite vuote e qualche ciuffo di capelli sul cranio nerastro mi rivelarono che non avevo a che fare con un uomo vivo. Un altro era seduto, il busto reclinato in avanti sulle gambe, come se fosse caduto in quel momento. Tutt'attorno giacevano cadaveri a dozzine, putrefatti, calcificati, mummificati, in una sorta di terribile danza macabra. Tutto faceva supporre che i francesi avevano resistito per mesi accanto ai loro compagni caduti, senza avere la possibilità di seppellirli. 

Questo per quanto riguarda i morti. Jünger ha poi un suo modo di rendere omaggio al sacrificio della vita nei soldati. Non una esaltazione della ferocia, il rispetto per la sottomissione al destino:

In quei giorni ebbi l'occasione di rendermi conto dell'altissimo valore degli uomini con cui avrei fatto due anni di guerra. Si era trattato di una operazione inglese, appena menzionata nei bollettini, che impegnò i nostri uomini in un settore estraneo alla grande offensiva. Tutto dipendeva in quel caso dai pochi passi che i nostri soldati dovevano fare per percorrere il breve spazio che separava il posto di combattimento dall'entrata nelle gallerie. Questi passi, però, andavano fatti in quell'attimo in cui il fuoco più intenso preparava l'assalto e che si coglie soltanto per intuizione. L'ondata di uomini che in quelle notti buie, senza che si potesse gridare loro un ordine, si gettava nel fuoco furioso e spariva dietro i parapetti, mi è rimasta nel cuore come segno di assoluta lealtà umana.

Testimonianza insostituibile, questa, che aiuta a capire l'adesione della truppa alla logica inesorabile della guerra. Da mettere accanto allo spettacolo dei soldati inglesi docilmente allineati sul fronte della Somme il 1° luglio 1916.
Quella di Emilio Lussu, infine, è una rappresentazione assai singolare della morte che colpisce una persona cara. Il tenente Avellini si trova in ospedale e non ne ha più per molto. Il suo amico Lussu accorre al suo capezzale e cerca di consolarlo: "Sei stato proposto per la medaglia d'argento al valor militare sul campo. E sei stato anche proposto per la promozione a capitano per merito di guerra". L'altro reagisce sollevando le mani scarne e lasciandole ricadere con una espressione d'impotenza: "Sembrava volesse dire: a che serve tutto ciò?".
Qui scatta nel racconto una sequenza ben diversa. Avellini che non è in grado di vedere chiede all'amico di leggere una lettera a lui indirizzata da una "signorina bionda" che entrambi avevano corteggiato: "Una donna non può scrivere parole più tenere di quelle che io lessi quel giorno". Si rende necessaria una seconda lettura. Il messaggio finale di Avellini è rivolto alla sua innamorata: "Va' tu personalmente. Dille che il mio ultimo pensiero è stato per lei. Che io non ho pensato che a lei... Dille che io muoio felice". Che cosa conta davvero per un uomo, per un giovane in uniforme. La medaglia, una promozione: vanità delle vanità, tutto è vanità, come dice l'Ecclesiaste. L'amore invece continua a splendere alto nel cielo. Come in Hemingway. Come in Stendhal, o in Tolstoj.
 

John Keegan, Il volto della battaglia, edizione italiana a cura di Francesco Saba Sardi, Mondadori, Milano 1978 [1976]
Henri Barbusse, Il fuoco, traduzione di Lorenzo Ruggiero, Milano, Kaos edizioni 2007, Corriere della Sera 2016 [1916]  
Maurice Genevoix, Ceux de 14, Les Eparges, Paris, Seuil 1984 [1923]
Ernest 
Jünger, Tempeste d'acciaio, traduzione di Gisela Jaager-Grassi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990 [1920]
Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano, Einaudi, Torino 1986 [1938] 
       






giovedì 14 agosto 2025

Soldati. Storia di Vera


Corrado Augias
Storia di Vera e gli amori caduti sull'Altipiano
la Repubblica, 14 agosto 2025

Questa è una storia straordinaria che si è svolta tra Gran Bretagna e Italia qualche decennio fa. Storia di guerra ma anche di sconfinato amore fraterno. Dopo la rotta di Caporetto (ottobre 1917), le potenze dell’Intesa inviarono alcuni contingenti di truppe per rinforzare il fronte meridionale. Anche se poi gli italiani sul Piave avevano resistito fermando l’offensiva austro-ungarica, la situazione veniva considerata preoccupante dagli alti comandi.

Su ciò che accadde al contingente americano sappiamo qualcosa perché ne ha scritto Ernest Hemingway in una delle sue opere migliori e più note, il romanzo Addio alle armi. Una storia d’amore e di guerra, anche se lo scrittore si limitò a servire come autista di ambulanze. Meno nota la storia del contingente del Commonwealth britannico, alcune migliaia di uomini dislocati tra l’altro sull’Altipiano dei Sette Comuni o di Asiago. Le forze britanniche, unite alle italiane, contribuirono in maniera determinante ad arrestare l’offensiva austro-ungarica.

Un ritratto di Edward Brittain

Un ritratto di Edward Brittain

 

I boschi intorno al famoso altipiano di Asiago ospitano ancora oggi cinque cimiteri inglesi progettati dall’architetto Sir Robert Lorimer, che ne diresse anche i lavori di costruzione. Il loro aspetto è di spoglia bellezza, niente ornamenti, solo lapidi di pietra bianca con nome, età, grado, reggimento del caduto; in qualche caso un motto. Questo, per esempio: «He laid his richest gift on the altar of duty, his life» – Ha lasciato il più grande dono sull’altare del dovere – la sua vita.

Questi cimiteri militari sono ufficialmente zona extraterritoriale, tenuti benissimo da una famiglia del posto regolarmente pagata in sterline dal governo di Sua Maestà. In uno di questi, località Granezza, incastonato ai margini di un solenne bosco di abeti, c’è la tomba di Edward Harold Brittain, giovanissimo capitano di appena 22 anni, ucciso in combattimento il 15 giugno 1918.

Roland Aubrey Leighton. Copyright: © IWM

Roland Aubrey Leighton. Copyright: © IWM

 

Vale la pena raccontare la sua storia e quella di sua sorella Vera Brittain, la nascita del mito romantico che li accompagna. Il capitano Brittain Brittain dell’Undicesimo battaglione Sherwood Foresters venne colpito durante la disperata offensiva austro-ungarica del giugno 1918, quando le linee dell’Intesa furono spezzate e il nemico riuscì a penetrare in territorio italiano per circa un chilometro. Effimera vittoria: il giorno successivo il fronte venne ricostituito. Gli austro-ungarici erano allo stremo; in novembre la Prima Guerra Mondiale sarebbe finita.

Vera Brittain, crocerossina volontaria, in quella campagna perse il fratello e il fidanzato Roland Leighton. Il colpo per lei fu durissimo. A guerra finita reagì raddoppiando il suo impegno civile come femminista e come scrittrice. I suoi saggi Testament of YouthChronicles of Youth e Letters from a Lost Generation ebbero notevole fortuna. Su suo fratello, Vera scrisse: «Oh Edward, sei così solo, perché non posso rimanere a far compagnia alla tua tomba per sempre, su questo altopiano dove vi è pace e dignità, lontano dal mondo e dagli sforzi inutili di ricostruire la civiltà?». Quando Vera morì, nel 1970, dispose che le sue ceneri fossero sparse intorno alla tomba del fratello a Granezza.

Questa è la storia, ma al di là della storia ci sono i luoghi. Mi ha aiutato a scoprirli Romeo Covolo, scialpinista storico dell’altipiano. I luoghi sono di eccezionale bellezza, a circa 1.100 metri di quota, con alternanza di pascoli e foreste di abeti e un prodigioso sottobosco di felci, muschi e licheni. Un silenzio profondo, ovattato.

«Siamo riusciti a conservare il nostro territorio – dice il sindaco di Asiago Roberto Rigoni Stern – sia dalla speculazione sia dal turismo invasivo. Qui, invece, rimane per ora un turismo rispettoso, capace di apprezzare la quieta bellezza di queste montagne».

Quieta bellezza in contrasto con l’inferno che i Sette Comuni conobbero durante la guerra. Emilio Lussu lo raccontò in Un anno sull’Altipiano. Dove ora crescono boschi, un tempo era terra nuda: gli alberi erano stati abbattuti per avere visibilità sulle posizioni nemiche. Restano trinceramenti, edifici di pronto intervento, il Forte Corbin – acquistato e restaurato dalla famiglia Panozzo – oggi museo a strapiombo sulla valle, memoria delle condizioni tattiche e logistiche in cui la guerra fu combattuta.

Asiago. Il cimitero inlese di guerra a Granezza con la tomba di Edward Brittain

Asiago. Il cimitero inlese di guerra a Granezza con la tomba di Edward Brittain 

Oltre un secolo dopo, la natura si è ripresa il suo spazio. Della Grande Guerra è rimasto il mito, studiato dallo storico Mario Isnenghi nel saggio Il mito della Grande Guerra. Nessun’altra guerra combattuta dall’Italia ha lasciato una memoria così profonda. Lo testimoniano i monumenti ai caduti e il Milite Ignoto nell’Altare della Patria a Roma.

Qui, nei luoghi stessi della guerra, si capisce il sacrificio richiesto ai soldati – spesso contadini del Mezzogiorno – che non sapevano nemmeno dove si trovassero. Trinceefangobaionettequasi certezza della morte. A Roana, vicino ad Asiago, il Museo della Guerra racconta le condizioni di combattimento.

Oggi, con la guerra tornata attualità, toccare con mano la sua disumana ferocia è un potente monito contro l’indifferenza alimentata da ottant’anni di pace.

mercoledì 13 agosto 2025

Femminicidi, le denunce inutili


Agence France-Presse
Libération
Accoltellata dal suo ex compagno nei pressi di Saint-Malo, Tatiana ha sporto due denunce, a luglio e agosto 
Libération, 13 agosto 2025

Una tragedia nella tragedia. Come molte donne vittime di femminicidio , Tatiana aveva sporto denuncia prima di essere accoltellata a morte dal suo ex compagno nella notte tra venerdì 8 e sabato 9 agosto a Saint-Jouan-des-Guérets (Ille-et-Vilaine). Secondo un comunicato stampa della procura della Repubblica diffuso martedì 12 agosto, si era recata per la prima volta alla stazione di polizia di Saint-Malo il 18 luglio. Poche settimane dopo, aveva sporto un'altra denuncia, questa volta alla gendarmeria di Châteauneuf, nell'Ille-et-Vilaine. Entrambe le indagini erano in corso al momento della sua morte.

Durante il suo primo colloquio con le forze dell'ordine a luglio, ha riferito che il suo ex compagno, dal quale si era separata all'inizio di luglio, aveva costantemente cercato di rimettersi in contatto con lei da allora. "Per riconquistarla, le inviava numerosi messaggi, cercava di contattarla frequentemente per telefono e si presentava regolarmente a casa sua, a volte per lasciarle fiori o chiederle di recuperare effetti personali", ha dichiarato la procura. Poiché la trentenne ha spiegato di non aver subito alcuna violenza di alcun tipo, la polizia avrebbe descritto il reato come una denuncia per "molestie". La sua seconda denuncia è stata presentata il 2 agosto a Châteauneuf per "danni contraddittori". Questa volta, sospettava che il suo ex avesse danneggiato la sua auto.

Uomo ucciso a colpi di arma da fuoco da un agente di polizia

L'ex compagno 38enne di Tatiana si è presentato al piano di sotto del suo condominio l'8 agosto. Era scesa con le sue due figlie, di 15 e 17 anni, avute da un'altra relazione. Il suo terzo figlio, un bambino di otto anni, non era presente. Dopo una lite, l'uomo ha accoltellato la donna diverse volte, di cui due al collo, uccidendola.

L'aggressore è poi fuggito in auto, inseguito dalle forze dell'ordine, verso la sua abitazione a Taden (Côtes-d'Armor), rifiutandosi di obbedire per ben tre volte. Secondo il pubblico ministero, alla vista dei gendarmi, ha deciso di "rientrare di corsa nel suo veicolo da cui era appena sceso per recuperare un machete". L'uomo ha adottato un "atteggiamento attivo e molto minaccioso nei confronti degli agenti della gendarmeria" ed è stato infine ucciso a colpi d'arma da fuoco da un gendarme. I risultati dell'autopsia confermano l'uso di un taser sull'uomo e indicano la presenza di " due fori di proiettile che hanno causato un'emorragia interna, che ne ha causato la morte".

L'agente di polizia che ha sparato è stato inizialmente arrestato, ma la misura è stata revocata nella notte tra il 9 e il 10 agosto. Le due figlie di Tatiana, testimoni della tragedia, sono state ricoverate in un reparto specializzato dell'ospedale di Saint-Malo, prima di essere affidate ai servizi sociali per l'infanzia.

mercoledì 30 luglio 2025

Soldati. Tu non ucciderai

Ecco. "Tu non ucciderai" può sembrare un curioso motto per un soldato il cui mestiere in guerra consiste proprio nell'uccidere. Ma c'è uccidere e uccidere. Anche l'artigliere uccide, e non parliamo del mitragliere. Eppure in un caso come nell'altro l'assassinio non corrisponde a una situazione in cui il bersaglio è ben individuato, riconoscibile e viene abbattuto con uno sparo. Il mitragliere spara nel mucchio, l'artigliere tira a distanza, nel caso degli obici i cui proiettili disegnano una parabola non vede neppure l'obiettivo. Arriviamo così alla scoperta compiuta dal colonnello e storico militare S.L.A. Marshall che intervistò migliaia di reduci dai teatri di guerra dai teatri del Pacifico e dell'Europa. Stiamo parlando del secondo conflitto mondiale. Ebbene venne fuori che soltanto un quarto dei soldati di prima linea aveva effettivamente impiegato le armi individuali durante un combattimento: "Anche i più duri e stagionati veterani della formazioni d'assalto - perfino nelle situazioni più critiche - ben di rado avevano sparato direttamente contro il nemico" (E. Leed, Terra di nessuno, il Mulino, 1985, p.19).

Si spiega così il fatto che nelle memorie di guerra l'uccisione diretta, frontale, del nemico è oggetto di imbarazzo e dà luogo a un preciso racconto. Molto famoso è il brano in cui Emilio Lussu racconta un'esperienza simile:

Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Non ho provato una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimato, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi è apparso straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?

Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri, perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora più giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimasero che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale.

Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è che probabilmente avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.

L'ufficiale austriaco accede a una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. È stato un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.

Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrata ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra ea farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io dovevo il dovere di tirare.

E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere più calmo, in una camera di casa mia, nella mia città.

Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!

Un uomo!

Ne distinguevo gli occhi ei tratti del viso. La luce dell'alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale!

Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido ” è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo.

Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così! "Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io penso di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:

– Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:

– Neppure io.

Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.

La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio. (Un anno sull'Altipiano)

Lussu, si dirà, era un uomo di sinistra. In lui contava anche il fatto che era abituato all'uso delle armi, prima dell'arruolamento nell'esercito aveva praticato la caccia. Prendiamo invece il caso di qualcuno che si identificava decisamente con il suo ruolo di soldato: Ernest Jünger. Questo scrittore ha parlato della sua esperienza in guerra in numerosi volumi, il più famoso dei quali è probabilmente Tempeste d'acciaio. Qui troviamo un episodio in cui all'uccisione ugualmente non si arriva. L'incontro faccia a faccia con il nemico nella Grande Guerra era cosa rara. Il soldato certo non si sporgevano dalle trincee per vedere cosa succedeva dall'altra parte del fronte. Anche negli assalti difficilmente si arrivava al corpo a corpo. Altra statistica: nella battaglia della Somme le ferite da baionetta erano meno dell'1 per cento del totale dei ferimenti totali riscontrati (Keegan, Il volto della battaglia). Jünger. allora si trova di fronte il nemico in persona; "Fu in quella occasione che incontrai il primo soldato nemico. una figura in uniforme kaki era accoccolata a venti passi da me, in mezzo all'avvallamento martellato dal tiro, con le mani appoggiate al suolo. I nostri sguardi si incontrarono quando uscii da una curva del sentiero. Lo vidi sussultare; teneva gli occhi fissi su di me mentre mi avvicinavo lentamente con la pistola puntata e con espressione truce. Si preparava una scena sanguinosa senza testimoni". Guardare in faccia l'altra persona è per il filosofo Levinas una esperienza capitale  Il soffermarsi sul volto dell’Altro stabilisce una relazione originaria con un tu che mi interpella chiedendo di essere accolto e rispettato. Attraverso l’incontro con il volto, l’io si scopre in un certo senso sottomesso alla responsabilità per l’Altro e di conseguenza l’accoglienza si presenta come una limitazione della libertà (Totalità e infinito). Senza arrivare a tanto, si può osservare che l'uccisione del nemico in uno spazio ravvicinato spesso avviene senza passare per uno scambio di sguardi. Questo vale anche per Jünger e per un testimone francese come Maurice Genevoix. Il caso dell'assassinio deliberato che si produce per via di un corpo a corpo è presente invece nel famoso romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il protagonista Paul Bäumer durante un assalto si ritrova in una buca profonda:

Il rumore mi oltrepassa. La prima ondata è passata. Ho avuto un solo pensiero, imperioso: che fare, se qualcuno salta nella buca? Strappo fuori il pugnale, lo impugno forte, lo nascondo, con tutta la mano, nella mota. Colpire subito, se qualcuno salta dentro; questo mi martella in fronte; colpire alla gola, perché non possa gridare; non c’è altro scampo; sarà spaventato al pari di me, il terrore ci getterà l’uno contro l’altro, e allora devo essere io il primo. […] 

Si è fatto un poco chiaro. Passi affrettati mi sfiorano. I primi. Si allontanano. Altri ancora. Il crepitare delle mitragliatrici si estende a una catena ininterrotta. Sto per voltarmi un poco e cambiare posizione, quand’ecco qualcosa ruzzola giù – un tonfo in acqua – un corpo pesante è caduto nella buca, addosso a me … Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi s’affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida … 

 L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un grido, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. […] 

La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono fissi, come se fossero inchiodati. È un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L’altra mano preme il petto, nero di sangue. 

 È morto, dico a me stesso; deve esser morto, non sente più nulla; chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la testa tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade sul braccio. L’uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in là, aspetto ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio. Finalmente eccomi presso di lui. 

Allora apre gli occhi: deve avermi sentito, e mi fissa con un’espressione di indicibile orrore. Il corpo giace immobile, ma negli occhi gli leggo che vuol fuggire, una volontà di fuga così tremenda, che per un attimo mi pare che abbiano la forza di rapire lontano quella povera salma, via, lontano, a centinaia di chilometri, d’un sol balzo. Il corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaventoso orrore della morte … e di me. 

 Io mi accascio a terra, sui gomiti: “No, no”, mormoro. 

 I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così. 

 Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l’incubo di quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: “No, no, no” e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli sfioro la fronte. 

 A quel tocco gli occhi sembrano ritrarsi; ormai perdono la loro fissità, le ciglia si abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il bavero, e cerco di poggiare più comodamente la sua testa. 

 La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole. Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia, l’ho lasciata in trincea. Ma c’è dell’acqua motosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella melma, raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne filtra. Egli la beve. Vado a prenderne ancora. Poi gli slaccio la giubba, per bendarlo, se si può. Devo fare così ad ogni modo, affinché quelli di là, se mi fanno prigioniero, vedano che ho cercato di soccorrere il loro compagno e non mi fucilino sul posto. Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo debole. La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla. Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la camicia, quegli occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo v’è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a tener le dita sulle palpebre, mentre mormoro “Ma no, ma ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade …”. E ripeto con insistenza la parola, perché la capisca. Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre sotto le bende; le comprimo e il ferito geme. È tutto quello che posso fare. Ora non resta che aspettare, aspettare … 

Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un uomo! Perché lo so: salvarlo non è possibile. Ho bensì cercato di illudermi, ma verso mezzogiorno il suo gemito ha dissipato il mio inganno. Se nell’avanzare non avessi perduto la mia rivoltella, lo finirei con una palla. Ma pugnalarlo non posso. […] E’ la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa vedere da vicino, e la cui morte sia opera mia. […] Ma ogni suo respiro mi strappa il cuore. Questo morente ha per sé le ore, ha un pugnale invisibile col quale mi colpisce: il tempo e il mio pensiero. Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. È duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire … Alle tre del pomeriggio è morto. Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche più insopportabile che quel gemere di prima. Vorrei che il rantolo ricominciasse, roco, interrotto, ora fischiando piano e ora più aspro e più forte. È stupido quello che faccio. Ma ho bisogno di occuparmi. E dunque metto il morto in una posizione più comoda, benché non senta più nulla. Gli chiudo gli occhi. Sono castani; i capelli neri, con qualche riccio sulle tempie. La bocca è carnosa e tenera sotto i baffi; un po’ arcuato il naso, bruna la pelle, non più livida, come poc’anzi, mentre era in vita. Per un istante il viso sembra anzi riacquistar salute; poi subito si trasfigura in quel viso spento dei cadaveri che ho visto tante volte, e che li fa tutti uguali. […] Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto e gli dico: “Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qui dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. […] Perché non ci hanno detto che voi siete poveri cani al pari di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire … perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi, e queste uniformi, potresti essere mio fratello […]. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare."

Come si vede, il proposito di uccidere in questo caso è astratto. Il protagonista del romanzo decide semplicemente di colpire per primo, alla gola. Quando l'altro precipita a sua volta nella buca, scatta l'impulso, il soldato tedesco si accanisce sul corpo del giovane francese
finito nelle buca con lui. La scoperta dell'altro in quanto persona è successiva:  È un uomo con un paio di baffetti. L'agonia domina la scena a quel punto, con i pensieri connessi da parte dell'assassino. In quel tempo si arriva allo scambio degli sguardi. L'effetto è paralizzante: I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così. Infine la morte giunge come una liberazione ma non mette fine all'episodio. L'opera del riconoscimento continua e a quel punto si passa dallo scatenamento cieco della violenza alla consapevolezza dell'assassinio. il morto ha un nome, Gerard Duval, faceva il tipografo, aveva una famiglia, nel portafogli recava i ritratti di una moglie e di una bambina. Si arriva a un rovesciamento delle parti. Bäumer si identifica con Duval: Io devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar tipografo...

Torniamo a Jünger. In quella guerra, la possibilità di vedere il nemico in faccia non da prigioniero, ma da combattente schierato in campo sembra esclusa. La prima reazione è quindi data da una certa contentezza: "Era come una liberazione poter finalmente vedere il nemico da vicino". Poi si passa ad un riflesso automatico: "Poggiai la bocca della pistola sulla tempia di quell'uomo che sembrava paralizzato dalla paura, mentre con l'altra mano l'afferravo alla giubba adorna di decorazioni e di insegne". Il riconoscimento: "Un ufficiale: forse era stato al comando di questa parte della trincea". Diversamente da quanto è accaduto con Remarque, in questo caso il riconoscimento si produce in vita. Con modalità diverse l'effetto è lo stesso che in Lussu, l'aggressore non spara: "Con un gemito portò la mano alla tasca, per estrarne non un'arma, ma una fotografia che lo ritraeva su una terrazza, circondato da una numerosa famiglia. Era l'incanto di un mondo passato e incredibilmente lontano". Curiosamente lo scrittore non accenna in modo esplicito alla sua decisione del momento, la dà per scontata, limitandosi a commentarle in questi termini: "In seguito ho giudicato una gran fortuna l'essere riuscito a dominarmi e l'aver proseguito il cammino: Quell'uomo mi è apparso diverse volte in sogno. Spero che anche gli altri che mi seguivano gli abbiano fatto grazia della vita". In Tempeste d'acciaio tuttavia, questo non è l'unico episodio in cui viene richiamato il tema dell'uccisione consapevole. Qualche pagina più in là di nuovo si torna a una situazione di scontro aperto con il nemico:


Dall'altra parte della valle, si distinguevano le rovine del villaggio di Vrancourt. Davanti ad esse brillavano i lampi di una batteria da campagna i cui serventi, alla vista e sotto il fuoco dei primi assalitori, ripiegarono verso il villaggio. Alcuni nemici, snidati da una serie di rifugi scavati in uno stretto camminamento, si diedero alla fuga. Ne colpii uno nel momento in cui uscuva dal primo ricovero. Seguito da due soldati della mia compagnia, che nel frattempo mi si erano presentati, avanzai lungo il camminamento. Sulla sua destra si trovava una postazione ancora difesa, dalla quale ci rovesciarono addosso un fuoco nutritissimo. Tornammo indietro per ripararci nel primo ricovero, al di sopra del quale non tardarono a incrociarsi le pallottole delle due parti contendenti, Con ogni probabilità era servito a portaordini e ciclisti della batteria. il mio inglese era disteso lì davanti: un ragazzo. La pallottola gli aveva attraversato il cranio da parte a parte. Giaceva là, coi tratti del viso distesi. Mi sforzai di guardarlo negli occhi. Oro non si poneva più la questione: tu o io. Sono tornato spesso col pensiero a quel morto, e sempre più frequentemente di anno in anno. Lo Stato che ci solleva dalla responsabilità, non ci può liberare dalla tristezza; la  dobbiamo portare fino in fondo, sin nelle profondità dei nostri sogni.

Anche Maurice Genevoix nelle sue circostanziate e puntuali memorie di guerra ricorda specialmente la prima volta in cui si è trovato a uccidere consapevolmente dei nemici. Erano in  tre, tre fanti tedeschi isolati, e a ciascuno correndo dietro di lui per tenere il passo ho tirato una pallottola di pistola in testa o sul dorso. Sono crollati giù con lo stesso grido soffocato.  Occasione memorabile: lo scrittore ha qui sentito il bisogno di aggiungere in nota: È stata la prima occasione - la seconda e ultima alle Eparges, il 18 febbraio al mattino - in cui ho sentito in quanto tali la presenza e la vita degli uomini sui quali sparavo. Per fortuna queste occasioni erano rare: e quando si producevano ammettevano un solo riflesso, se si esclude una resipiscenza: si trattava di uccidere o di essere ucciso. Per una ristampa del libro avevo soppresso questo passaggio: è una indicazione quanto alle "resipiscenze" che dovevano fatalmente verificarsi. Lo ristabilisco oggi considerando una mancanza di onestà l'omissione volontaria di uno tra gli episodi della guerra che mi hanno profondamente scosso e che hanno segnato la mia memoria con una impronta mai cancellata.  

L'immagine del nemico risparmiato che torna in sogno, il pensiero che spesso torna al nemico ucciso, l'impronta lasciata dagli spari sui nemici in fuga sono altrettanti aspetti di un fenomeno che possiamo designare come la sovrapposizione dei codici. Si ha un bel dire, con Eric Leed, che i soldati attraversano un rito di passaggio e acquisiscono una identità diversa da quella civile. Lo sparo che provoca la morte di una persona ben delineata di fronte al soldato suscita una emozione che non si lascia dimenticare. C'è allora un altro tema letterario e poetico. Non tanto l'uccisione del nemico, ma il ricordo di essa. Di questo parla il poeta inglese William Owen nel componimento da lui intitolato Strano incontro: 

e se ferisce, infligge ferite 
più intense che non qui. Poiché molti 
la mia allegria avrebbe potuto 
allietare, e delle mie lacrime 
rimanere qualcosa che ora deve 
morire. La verità taciuta, 
intendo, la pietà della guerra; 
la pietà che la guerra ha distillato. 
L'umanità sarà contenta adesso
di tutto ciò che abbiamo devastato
...
Il mio spirito io l'avrei versato
volentieri, ma non con le ferite; 
né attraverso una tassa di guerra.
Fronti d'uomini hanno sanguinato
dove non c'era nessuna ferita.

Sono il nemico che hai ucciso, amico.
Ti riconobbi, in questa oscurità,
perché ieri così ti corrugasti; 
mentre mi colpivi e mi trucidavi,
Provai a schivarti, ma intorpidite
e gelide erano le mie mani.
Dormiamo ora... 

Di fronte al groviglio di sentimenti racchiuso in questi versi siamo portati a riflettere sul significato profondo di espressioni come ineffabile, indicibile. Che non rimandano certo a una assenza di significato. Il silenzio o l'espressione musicale possono restituire lo sconcerto che l'esperienza della morte procurata provoca nell'animo umano. Forse alla parola spetta invece smentire la pretesa di ridurre tutto a un mistero insondabile. Ciò che non sembra possibile dire invece va detto e ripetuto nelle forme più diverse perché è ciò che soprattutto merita di essere rammemorato.