Orazione di Alberto Moravia ai funerali di Pasolini
trascrizione dell’orazione di Moravia ai funerali di Pasolini, il 5 novembre 1975
«Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo (applausi). Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro.
Poi abbiamo perduto anche un romanziere. Il romanziere delle borgate, il romanziere dei ragazzi di vita, della vita violenta. Un romanziere che aveva scritto due romanzi anch’essi esemplari, nei quali, accanto a un’osservazione molto realistica, c’erano delle soluzioni linguistiche, delle soluzioni, diciamo così, tra il dialetto e la lingua italiana che erano anch’esse stranamente nuove.
Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, no? Pasolini fu la lezione dei giapponesi, fu la lezione del cinema migliore europeo. Ha fatto poi una serie di film alcuni dei quali sono così ispirati a quel suo realismo che io chiamo romanico, cioè un realismo arcaico, un realismo gentile e al tempo stesso misterioso. Altri ispirati ai miti, il mito di Edipo per esempio. Poi ancora al grande suo mito, il mito del sottoproletariato, il quale era portatore, secondo Pasolini, e questo l’ha spiegato in tutti i suoi film e i suoi romanzi, era portatore di una umiltà che potrebbe riportare a una palingenesi del mondo.
Questo mito lui l’ha illustrato anche per esempio nell’ultimo film, che si chiama Il fiore delle Mille e una notte. Lì si vede come questo schema del sottoproletariato, questo schema dell’umiltà dei poveri, Pasolini l’aveva esteso in fondo a tutto il Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo.
Infine, abbiamo perduto un saggista. Vorrei dire due parole particolari su questo saggista. Ora il saggista era anche quello una nuova attività, e a cosa corrispondeva questa nuova attività? Corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene a un altro aspetto di Pasolini. Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo Paese come Pasolini stesso avrebbe voluto (applausi)».
Renzo Paris
Io, Pier Paolo Pasolini e quella mattina all'Idroscalo
La Repubblica Venerdì, 22 agosto 2025
Alle otto di un mattino del 2 novembre 1975, giorno dei morti, squillò il telefono. Era una domenica nuvolosa. Sono stato sempre mattiniero e ricordo che avevo già portato in giardino il mio gatto, chiamato “micio”, per farlo divagare un po’. Gli avevo raccomandato di non filare dietro le gattine. Quelle, per farsi inseguire, sarebbero uscite dal cancello e avrebbero attraversato la strada sempre molto trafficata. Raccomandazione inutile, di lì a qualche giorno una macchina lo investì, uccidendolo. La voce nella cornetta era quella del mio amico Franco Cordelli. Senza aggiungere altro mi comunicò che avevano ammazzato Pasolini all’Idroscalo di Ostia. Sulle prime non ci credetti e volli indagare. “Chi te l’ha detto?”. Franco ripeté la notizia funebre e seccato aggiunse che lo aveva saputo da Daniele Del Giudice, che lo aveva subito avvertito. Esterrefatto, abbassai la cornetta e chiamai Moravia. “Coraggio” mi disse “se vieni sotto casa mia andiamo insieme all’Idroscalo con la macchina di Glauco”.
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Dunque, avevano ammazzato Pasolini. E l’assassino era un ragazzo di diciassette anni, fermato dai carabinieri mentre guidava contromano l’Alfa di Pasolini sulla Ostia-Roma. Montai sulla mia Cinquecento e in pochi minuti raggiunsi il Lungotevere della Vittoria. Sul marciapiede non mi raccapezzavo, ero in stato confusionale. Pasolini non c’era più. Di lì a poco arrivò la Volkswagen di Glauco. Moravia si mise accanto al guidatore e io ed Elio Pecora nei sedili di dietro. Ero diventato di colpo muto. Un ragazzino che uccide un adulto forte e sportivo come Pasolini. E poi, per sfregio, gli passa sopra con la macchina. Che orrore! Sembrò inverosimile proprio a tutti. “Chi sa se Susanna l’hanno avvisata” disse Glauco, e Moravia rispose che il telefono era sempre occupato. “Ma Enzo dov’è?” chiesi. Elio sapeva che stava al Vertano, nella casa dei suoi fine settimana. Ma a che ora era stato ucciso? E come mai il telegiornale della notte non aveva detto nulla? Farneticavo. Moravia si voltava, cercava di capire come l’avevamo presa io e Pecora. Tamburellava con le dita sul cruscotto. Anche a lui sembrava inverosimile. “Ci aveva avvertiti da un pezzo” dissi. “La violenza sale dalle periferie e presto raggiungerà anche le case dei borghesi”.
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Ripercorro oggi il tragitto di allora. Alla Magliana, dopo San Paolo, con un occhio alla trattoria Biondo Tevere, sfreccio con la mia Toyota verso la via del mare. È agosto, fa caldo. Quest’anno l’estate sembra sia arrivata con ritardo. Abbiamo trascorso una primavera piovosa e fredda, come non capitava da decenni. Sulla via del mare, trafficatissima nei due sensi, immagino di morire in uno scontro frontale. Ho paura. Rallento e mi fermo dove posso. Sono ormai vicino a Ostia, ma non credo di aver fatto questa strada allora. Nella memoria è come se fossimo usciti per una via più piccola e fossimo andati per campi. Ricordo che ci fermammo in un bar dove stazionavano due brutti ceffi con giubbotti di pelle nera, a guardia delle loro Kawasaki. Avranno avuto una trentina d’anni. Che ci facevamo lì a quell’ora? Che cosa dovevano controllare? Dopo aver preso indicazioni dal barista, quei due ci seguirono per un bel tratto. Forse avevano riconosciuto Moravia, chissà. Dissi ai miei amici che quei due non mi piacevano per niente. Sembravano seduti lì per vedere chi accorreva, i personaggi famosi che avrebbero riconosciuto. Anche Alberto guardò nello specchietto retrovisore quando ancora ci seguivano. Forse erano loro i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, amici di Pino Pelosi, come si evince dall’ultima sua confessione. L’assassino però, da ultimo, ha parlato di una Gilera con i due fratelli sopra il sellino e di una macchina mille e cinque, da cui erano scesi altri brutti ceffi. “Volevano dare una lezione al comunista o al gay o a tutti e due” aveva detto Pelosi di recente, quando i fratelli Borsellino erano ormai morti di Aids e non potevano più nuocergli. So che Moravia raccontò di quei due all’avvocato Nino Marazzita, che avrebbe voluto farmi interrogare dal magistrato, ma alla fine non se ne fece nulla. Mentre sto fermo e guardo alla mia destra un paesaggio brullo, mi viene in mente Moravia che voltandosi dalla mia parte canticchiò: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” e subito dopo gridò: “Ma perché non se l’è portato a casa?! Non era nemmeno lontano dall’Eur… perché non ha fatto come Visconti?”. Era disperato, voleva stemperare la tensione accumulata con quelle battute, come un ragazzino che non sa se credere o no a una tragedia. Poi si ammutolì.
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In un racconto che inserii nel volume Cattivi soggetti (Iacobelli, 2013), sotto il titolo Il poeta assassinato, scrissi: Arrivammo allo spiazzo recintato dove notammo numerose impronte di scarpe. Terra smossa e delle pietre a sottolineare la zona del ritrovamento del corpo martoriato e oltre il recinto le baracchette. La piccola folla, che si era radunata lì prima che arrivassimo, era scomparsa. Incontrammo allora un giornalista del Corriere della Sera che volle subito intervistare Alberto. Vidi i legnetti, un paio, quelli che secondo le prime notizie sarebbero stati usati per la colluttazione mortale. I segni delle ruote della macchina che l’aveva sfigurato erano ancora visibili. Ma non mi pare che, almeno in quello spiazzo, ci fossero segni di una seconda macchina. Allora si parlava soltanto della macchina di Pasolini, dove avevano ritrovato un plantare non suo, un maglione verde e schizzi di sangue. I carabinieri dissero che sotto la macchina c’era materia cerebrale e capelli di Pier Paolo. Era cominciato così l’aggiustamento del set di quella morte. Doveva sembrare, come del resto sembrò subito a tutti, una morte pasoliniana quante altre mai. Chi l’aveva architettata non doveva essere il gruppetto che lo massacrò e gli fece scoppiare il cuore (pag. 70). Mi abbandonai a una sottile malinconia, a un dolore che mi colpì al cuore. Quell’uomo così vispo e vitale, che stava facendo uscire il suo ultimo film intitolato Salò e che avevo incontrato qualche mese prima, mentre acquistava una poltroncina proprio per usarla in quel film, dunque non c’era più.
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Tutto questo lo rimugino dentro la Toyota ferma sul lungomare Duilio di Ostia, dove i carabinieri avevano fermato la macchina sportiva che andava contromano a forte velocità. Avrei dovuto fare tutto il lungomare fino alla fine, poi imboccare una strada molto stretta, che in alcuni punti diventa un rigagnolo fangoso e girare a sinistra, in uno dei tanti viottoli che conducono alla spiaggia. Non più di una trentina di metri e sarei giunto sul posto. Antonio Padellaro scrisse sul Corriere del 3 novembre: Il punto esatto dove giaceva il corpo sono pochi metri quadrati di sabbia. Calpestato dal viavai dei carabinieri e dei curiosi, quel piccolo spazio ha già assorbito il sangue che vi è stato versato sopra. È rimasto un pezzo di vetro e una sigaretta consumata. Proprio accanto a quel pezzo di sabbia c’è una staccionata verniciata di rosa, serve a stabilire il confine delle tante piccole proprietà abusive in cui è stata lottizzata la zona. La terra è demaniale, e teoricamente chiunque può recintarsi la sua fetta. Chi ancora non ha costruito stabilisce il proprio diritto illegale sul suolo stendendo una rete di filo spinato o piantando una serie di paletti di legno. Con uno di questi paletti Pasolini è stato colpito a morte. Al centro di uno di questi recinti, per rendere ancora più evidente l’occupazione avvenuta, qualcuno ha lasciato un tavolo di legno tutto smozzicato e alcune vecchie sedie in ferro battuto. Il corpo di Pasolini è stato ritrovato riverso a pochi metri di lì… Si tratta di un rudimentale campo di calcio: le porte sono state innalzate utilizzando vecchi tubolari di ferro, per terra non vi è alcun segno che delimiti l’area del gioco. L’auto di Pasolini deve essersi fermata tra la porta di sinistra e alcuni sacchi di spazzatura… L’occhio spazia sulle casupole abusive, alcune di legno, altre di tufo, tutte a un piano, molte senza vetri alle finestre. Le casupole vengono abitate solo d’estate. Maria Teresa Lollobrigida, 46 anni, è la donna che ha scoperto il corpo di Pasolini alle sei e mezzo…
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“Sono un suo amico, gli ero molto attaccato” dice Moravia. Dunque sotto la GT di Pasolini, secondo i carabinieri, come ho accennato, furono rinvenuti sangue, capelli e materia cerebrale. Pelosi lamentava la perdita di un anello d’oro, che poi fu ritrovato accanto al corpo di Pasolini; disse anche che sotto il tappetino della vettura c’erano tre milioni di lire. L’aveva ammazzato perché non era stato ai patti. Assurdo, trattandosi di un marchettaro. I giornali accettarono da subito la confessione di Pelosi e solo qualcuno cominciò a scrivere che non doveva essere solo. D’altronde se Pasolini era forte anche Pelosi lo era, no?
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Con la macchina di Glauco facemmo il percorso da sonnambuli, con la volontà di raggiungere sì il luogo del delitto, ma anche di evitarlo, pur sapendo che il corpo di Pier Paolo era stato rimosso e portato all’obitorio. C’è un buco di tre ore e mezzo dalle tre di notte, quando Pelosi era ormai nelle mani dei carabinieri, fino alle sei e mezzo, quando una borgatara trovò il corpo del poeta. Spengo il mio smart, non ho nessuna voglia di proseguire. Di quell’assassinio è rimasto ormai lo scheletro di Pasolini nel cimitero di Casarsa, nemmeno la GT c’è più, fu ritrovata parcheggiata sulla Casilina e rottamata. C’è un sole che spacca. Esco dalla macchina e cammino, cammino, fino alla rotonda, per sfogare l’ansia. Nessuno di noi pensò che Pelosi potesse esser da solo quella notte; di sicuro aveva dei complici, di cui non poteva parlare, a rischio di morte. Al ritorno Moravia tornò a ripetere, con la voce rotta, che avrebbe dovuto fare come Visconti. “Una grande, enorme perdita” diceva, salutandoci sotto casa sua. Rientrai nella Cinquecento. Mi sembrò che tutto quello che avevo visto l’avessi già vissuto. Mi capitava sempre quando l’emozione debordava. O era perché pensavo spesso che un mattino sarebbe tornato all’Eur tutto insanguinato, e sarebbe morto tra le braccia di sua madre. Sono combattuto. Non ho più voglia di rivisitare quel luogo dove la poesia morì. Entro in un bar e sorseggio un ginseng. Torno a Roma, non voglio ripercorrere quello spiazzo, dove c’è una scultura in ricordo del grande poeta. Ho il cuore in gola. A casa sfoglio le sue ultime interviste, nervosissime, gridate.
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Prendo il 492 e mi reco a largo Arenula. Fa un caldo terribile, è il primo pomeriggio del 10 agosto. Turiste mezze nude con cappellini di paglia, la bottiglietta dell’acqua in una mano e il ventaglio dall’altra, camminano trasognate. Un ombrellino copre il capo delle visitatrici orientali. Evitano il sole, camminano dalla parte dell’ombra. Scendendo da via Barberini, al largo della svolta per la Fontana di Trevi, alla fermata dell’autobus incontro una ventina di ragazzi del Bangladesh con bottigliette e cappelli di varia forma, che ostruiscono il passaggio per captare l’attenzione di chi scende dagli autobus affollati. Chiedo al portiere del numero 8 di via Arenula dove era ubicata la Casa della Cultura, se ricorda quei locali. Lui nega con la testa, senza rispondermi. Accenno ai funerali di Pasolini. Pasolini chi? La Casa della Cultura? E che è? Entro in un negozio storico di matite e pennarelli e dopo aver pagato ottantacinque centesimi una matita chiedo alla commessa se sa della Casa della Cultura, proprio qui accanto, e se ha mai sentito parlare di Pasolini. No, mi risponde come se fosse logica la sua risposta negativa, essendo lei appena trentenne, praticamente una fanciulla. Lascio perdere. Getto uno sguardo alla libreria ambulante dell’usato all’ingresso del giardino. Trovo la prima edizione della Vita di Pasolini di Enzo Siciliano a sei euro. La compro. Mi siedo nel giardino e inizio a rileggerla.
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Enzo racconta quello che sapeva della morte del suo grande amico. Con il fiato in gola corre verso la morte, partendo dalla stazione Termini, dalla GT grigio metallizzata, dai marchettari, da Pelosi e giù giù fino al benzinaio e alla trattoria Biondo Tevere, e subito all’Idroscalo, dove in quello sterrato accanto a un campetto di calcio fu sfigurato il suo grande amico. Pelosi aveva confessato, era lui l’assassino, una marchetta inviperita perché il cliente non stava ai patti. Quello per ventimila lire voleva anche incularlo. E così lo aveva ammazzato di botte e poi c’era passato sopra come si fa con le cicche delle sigarette, per spegnerle del tutto sotto la suola delle scarpe. Si apprestava a pagare con il carcere: di che cianciava Laura Betti? Pasolini per Pelosi era solo un frocio che dimostrava quaranta-cinquant’anni, che era finito sotto le ruote della sua stessa macchina, mentre lui guidava fuggendo da tutto quel buio. Salvo poi farsi prendere dai carabinieri, andando contromano nella notte, come forse gli avevano suggerito i fratelli Borsellino. Siciliano non si dà pace e ricomincia daccapo, quando in Friuli Pier Paolo scriveva le poesie in dialetto e fu espulso dal PCI per indegnità, denunciato da un suo amico.
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Mi alzo dalla panchina quando un gabbiano inferocito tenta di beccarmi i sandali. Bei tempi quelli del bestseller La gabbianella! I gabbiani sono ferocissimi anche con gli umani, dopo piccioni e cornacchie. Nel giorno dei funerali, la folla iniziava qui e finiva a Campo de’ Fiori, accumulandosi anche per le vie limitrofe. Adesso vedo soltanto una piccola folla di turisti, che guardano annoiati le vetrine, e qualche tossico che chiede l’obolo. Sono le tre del pomeriggio e la piazza è disseminata di cassette e di sacchi di rifiuti. C’è un olezzo che certo lambisce anche le narici di quelli che si sono seduti all’aperto, nelle trattorie che ormai occupano quasi tutta la piazza. Fuggo verso piazza Farnese, mi spingo verso il muretto dell’ambasciata francese. Entrambi i muretti, che partono dal grande portone, sono occupati da gente seminuda, che suda e si agita e si sventaglia o beve a canna dalle bottigliette. Durante i funerali la gente era finita anche qui. Davanti al cinema Farnese, dove adesso staziona la monnezza, c’era il palco che la FGCI aveva innalzato accanto al furgone della bara. C’era mezza Roma a Campo de’ Fiori, attorno al palco, dove parlò Gianni Borgna, mentre Moravia preferì fare l’elogio funebre tra la folla, gridando che di poeti come il suo amico ne nascevano pochi, due o tre in un secolo, e Pasolini era certo uno dei più grandi poeti del Novecento. La piazza era piena di bandiere rosse. Ascoltai Elsa Morante gridare: “Viva la poesia!”. E per me finì lì.
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Accanto al furgone che lo avrebbe trasportato a Casarsa, in mezzo a quella folla, non me la sentii di avvicinarmi ai miei amici. Stetti lontano anche da Enzo Siciliano, accompagnato da sua moglie Flaminia, entrambi addolorati. Salutai Laura Betti, che mi convocò a casa sua. “Ti devo parlare di una cosa importante” mi disse. Prima di raggiungere la Casa della Cultura, sperando di entrare nella piazza da lì, attraversando la strada, fui quasi investito da una macchina. I due giovani mi gridarono all’unisono: “Guarda che te famo come a Pasolini!”. Ero così stralunato che sarei volentieri finito sotto quelle gomme. Quando il furgone con la bara di Pasolini si allontanò dalla piazza, fuggii. Non sopportavo quella tragedia. A piedi attraversai piazza Navona e mi inoltrai verso Castel Sant’Angelo. Sotto gli angioloni barocchi mi affacciai sul Tevere e mi ricordai del barcone del Ciriola, sempre pieno di ragazzi di vita e molto frequentato da Pasolini negli anni Cinquanta. Era il nostro night all’aperto. C’erano lampadine accese come una luminaria paesana e sembrava sempre che fosse festa. Nel giardino di Castel Sant’Angelo, mi sedetti su una panchina per regolare le emozioni che erano state fortissime. Me lo vidi davanti, come quella volta che andai nella sua casa all’Eur con le bozze di Nuovi Argomenti in mano. Erano gruppi di poesie, note, brani di tragedie in versi. Per urgenti motivi tipografici, doveva correggere tutto davanti a me e riconsegnarmele. Sarei andato a portarle da certi fratelli tipografi che stavano alla Balduina. Ero seduto davanti al suo tavolo di lavoro, dove troneggiava alla sua destra un candelabro ebraico. Era vestito con un jeans e una camicia a quadretti. Mi colpì la nudità della stanza e un finestrone che dava in un giardino da cui proveniva una luce soffusa, chiara. Vedendolo correggere, assorto, tra me e me recitavo “Alba pratalia araba, negro semen seminaba”. Come se fossi in una biblioteca medievale e Pasolini fosse un priore. Corresse le carte e me le riconsegnò. Alzandosi mi fece delle domande sul mio mezzo di trasporto. Mi indicò l’autobus del ritorno. Non gli dissi che avevo la Cinquecento, gli lasciai credere che ero più povero di quanto non fossi. Sempre a via Eufrate, lo incontrai con Dario Bellezza. Seduti in salotto, ci raccomandò ancora una volta di dimenticare l’avanguardia, che ci avrebbe fatti diventare dei veri mostri. Ed era come se sapesse che subivamo il fascino della neoavanguardia e volesse prenderci in castagna. Io e Dario eravamo due dei nuovi autori che Nuovi Argomenti aveva scoperto contro il negativismo del Gruppo 63. La rivista cercava autori, quando nessuno credeva che ce ne fossero più. Inutile dire che io e Dario andavamo fieri dei due direttori della rivista. Fu in quella occasione che strinsi la mano alla madre e a Graziella Chiarcossi. Anche quel pomeriggio Pasolini ci salutò per una “partitella” a pallone. Dario tentò di abbracciarlo forte e Pasolini esclamò: “Embè?” sorridendogli.
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Laura Betti diceva che Pier Paolo non si sapeva fare un uovo al tegamino. Dalle parole di Laura il suo grande amico veniva fuori via via come un gigante della poesia, ma anche come l’uccellino indifeso che aveva bisogno di protezione materna, quello che allora si chiamava “maternage”. Il libro che scrisse su di lui, riprendendo una delle prime espressioni infantili del poeta, si intitolava Teta veleta (Garzanti, 1979), e raccontava dell’amore materno che nutriva per un uomo ferito da innumerevoli processi e attacchi subiti da tutti i lati della politica. All’uscita dalla casa di via Eufrate, sedendoci sugli scalini del Palazzo del Lavoro, mi stupivo della risata di Dario. “Lo sai che Pier Paolo è un ragazzino? Hai visto come si comporta quando sta con la mamma e i parenti, come un professorino che deve dire la sua sui suoi allievi. Era felice di essere ascoltato dalla madre… ma poi quando esce diventa un’altra persona, si traveste da ragazzo a vita e cerca i marchettari più feroci. Ti assicuro che è proprio il contrario del pedagogo, alla rovescia”. Dario rideva sullo sdoppiamento di Pasolini perché già allora lo aveva visto rivestire entrambi i ruoli. Ma io non volli credere che Pasolini non fosse sempre l’intellettuale pedagogo, il polemista dei suoi scritti. A me bastava così.