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martedì 23 novembre 2021

Il mito di Faust

Claudio Magris, L'eterna rinascita del mito di Faust Corriere della Sera, 23 novembre 2021 I più grandi personaggi della letteratura universale — ma anche della musica e di altre arti — che ricorrono nelle opere e nei secoli come Ulisse, Faust, Antigone o don Giovanni, sembrano appartenere non tanto e non solo all’uno o all’altro degli autori che ne hanno scritto, quanto alle diverse civiltà che hanno dato loro vita e all’umanità stessa, che si interroga sul proprio destino e sul senso del proprio vivere, agire e morire. Nel mito faustiano il patto col diavolo sigilla una scommessa che riguarda l’esistenza intera — la sua esperienza totale e la sua conoscenza, il piacere più sensuale e immediato e la consapevolezza del dolore, dell’assoluto e del nulla. Faust firma il contratto consapevole di dover forse accettare la dannazione eterna pur di cogliere l’attimo in cui la vita riveli la pienezza del suo significato. La storia di Faust vive e viene ripresa nei capolavori di Goethe, Marlowe, Calderòn de la Barca, Lenau, Heine, Bulgakov, Valéry e tanti altri, grandi e minori, come in tante opere musicali e cinematografiche. Si inserisce, sin dalle origini, nelle dispute tra Riforma e Controriforma e, prima ancora, nelle antiche leggende e tradizioni paleo-cristiane, in numerosi testi anonimi collegati soprattutto alle tradizioni ermetiche e alla demonologia, nel teatro di marionette; acquista un rilievo centrale nell’Illuminismo. Una storia senza fine, che coinvolge il Sabba medioevale delle streghe e quello nazista. Il secondo Faust di Goethe abbraccia pure l’incertezza tra salvezza e perdizione, tanto più inquietante perché fa i conti con gli inevitabili rapporti fra progresso e violenza, rapporti demonicamente attuali già nel testo goethiano, come quando il grande e nobile progetto di Faust — costruire una libera terra dove possa vivere un libero popolo — deve passare attraverso la violenza, la distruzione del piccolo pezzo di terra dove vivono felici due vecchi coniugi i quali devono essere eliminati dall’avanzata del progresso moderno, che ha bisogno di vasti spazi ed è indifferente ai piccoli destini. Mefistofele interviene pure in soccorso della pericolante economia dell’impero stampando a tutto spiano cartamoneta straccia. Ma Goethe ha una visione globale e il suo Faust è anche — forse soprattutto, dal punto di vista poetico — la tragedia di Gretchen, di Margherita, del suo amore pure e totale, che echeggia nel suo canto all’arcolaio e nel Re di Thule, la canzone dell’amore e della fedeltà. Gretchen è la donna stritolata dalla violenza, dall’irresponsabilità e dall’egocentrismo maschile — Faust deve muoversi nel Grande Mondo, in cui non c’è spazio per l’amore e per la fedeltà, per la vita vera e condivisa. Anche se, pur nell’errore presente in ogni affannarsi nel mondo, come Faust sa bene e proclama esplicitamente, l’oscura consapevolezza di una giusta via è una possibilità di salvezza. Ma se nel capolavoro di Goethe Faust si salva, anche se in modo ambiguo, molti altri finiscono dannati. Si può oggi credere nella salvezza di Faust? È improbabile, ma non impossibile, che non ne fosse certo neppure il poeta. Lasciava che fosse l’opera stessa a deciderlo, così come non aveva fretta di finirla, nonostante la sua enorme complessità e il poco tempo che gli restava della sua vita. Il mondo faustiano di Goethe è un mondo di metamorfosi, che si aprono all’incantevole e inquietante scorrere della vita; nel suo Divano occidentale-orientale la bellissima Suleika invita ad amare, per un attimo, nella sua bellezza e nella sua bocca l’infinità eterna di Dio. Ma il Faust goethiano, specialmente il secondo, è l’inquietante rappresentazione di un mondo allora ancora futuro e per noi oggi presente, un mondo in cui l’artificio, l’artificiale sono diventati la vera natura e fiori e piante non conoscono più stagioni. Un mondo in cui si può creare homunculus, l’uomo artificiale — il futuro libero suolo per un libero popolo è già Silicon Valley. Forse solo di Gretchen si può dire «è salva»; degli altri, che fanno la storia passando come Faust sopra di lei si può forse dire soltanto che sono «passati». Il secondo Faust è veramente incommensurabile; è anche estremamente difficile metterlo in scena. Lo fece, molti anni fa, Giorgio Strehler: avevo potuto assistere spesso alle prove al Piccolo Teatro e avevo così potuto veder nascere e formarsi quel meraviglioso spettacolo. L’unico problema era Strehler; grandissimo regista e straordinario anche nel correggere gli attori, in quell’occasione si era talmente identificato, con una vera megalomania, con Faust da recitare in modo enfatico, talora oltre misura. Faceva parlare Giorgio Strehler, non Faust. Una volta, dopo aver recitato un brano, si voltò e mi chiese: «Te gà piasso?» «No», non potevo fare a meno di rispondergli. Per conoscere il Faust, quando ero al Liceo, si consigliava di leggere Il mito di Faust di Vincenzo Errante, ottimo libro che oggi certo mostra la patina del tempo. Ora è uscito uno splendido volume di Paolo Scarpi, Faust. Dalla leggenda al mito (Marsilio), che coglie a fondo, con concisa e incisiva chiarezza, il senso profondo e plurisecolare di questo mito che continua a rinascere sempre in nuove forme e in nuovi contesti. Un dono vitale, prezioso in un mondo in cui sembra che tutti scrivano e che nessuno legga. Il libro di Scarpi è un esempio di completezza, di finezza interpretativa e di scrittura nitida e coinvolgente. Mi permetto di aggiungere agli esempi presentati e interpretati da Paolo Scarpi altri due, che mi sembrano di grande forza poetica e che non mi stanco mai di ricordare. In un tardo frammento — forse l’ultimo — di Svevo il vecchio sta andando a letto, dove la moglie sta già dormendo, e pensa che è mezzanotte, l’ora in cui potrebbe apparirgli Mefistofele e riproporgli l’antico patto. Lui sarebbe subito pronto a cedergli l’anima, ma non saprebbe cosa chiedergli in cambio; non la giovinezza, spesso insensata e smarrita, anche se la vecchiaia è difficile e crudele; non l’immortalità, perché la vita è dolorosa, sebbene la morte sia angosciosa. Si rende allora conto di non avere nulla da chiedere al diavolo e pensa che Mefistofele debba essere imbarazzato perché i prodotti della ditta che egli rappresenta non sono richiesti. Il diavolo non viene, non c’è ed è questa la tragicità, il nulla. All’idea di Mefistofele che si gratta imbarazzato la barba, il vecchio si mette a ridere, mentre la moglie accanto a lui, sotto le coperte, mezza sveglia e mezza addormentata, borbotta «beato te che a quest’ora hai ancora voglia di ridere» e si gira dall’altra parte. Quel riso e quel sonno dissimulano la disperazione nell’amabile consuetudine quotidiana e costituiscono una delle ultime spiagge cui è giunta, nel suo nichilismo, la coscienza occidentale, consapevole che la vita, svanite le gerarchie morali e affettive, non induce più in tentazione. C’è anche un’altra grandissima pagina della letteratura universale in cui il diavolo non arriva: nel Grande Sertaõ, il romanzo o meglio l’epos di Guimarães Rosa, un capolavoro assoluto, il protagonista, un semi-fuorilegge dei grandi altipiani brasiliani, è incalzato, nel suo vagabondo errare dal tentatore, dal male, «il Manfarro, Quello che non esiste, l’Io-Sfrenato, il Lui» finché una notte va ad attenderlo nella brughiera. Il diavolo non si presenta, perché egli è il nulla, il non-essere sempre in agguato. Il cavaliere del Sertaõ accetta la sfida del nonessere, giungendo a quel confine oltre il quale ci si perde, ma guardando nel nulla riconquista la totalità epica della vita senza farsi risucchiare da quel vuoto e tuffandosi «nell’andirivieni» delle cose. Già il Faust di Goethe veniva rigenerato dall’aurora, dalla vita che sempre ricomincia, ma questo avviene nel suo primo Faust, mentre nel geniale megastore del secondo Faust anche il cavaliere del Sertaõ si troverebbe in difficoltà.

sabato 4 ottobre 2014

Goethe, Grigia è la teoria

Urfaust
traduzione di Andrea Casalegno
 
LO STUDENTE
Vi trattengo con troppe domande, perdonatemi,
eppure debbo ancora importunarvi:
non mi vorreste sulla Medicina
dire una parolina confortante?
Tre anni sono un tempo così breve,
e, Dio mio, il campo è tanto vasto.
Ad aver solo un orientamento
uno già si sente un pezzo avanti.

MEFISTOFELE fra sé
Il tono professorale mi ha stufato,
devo ricominciare a fare il diavolo.

Ad alta voce

Afferrare lo spirito della Medicina
è facilissimo. Studiate a fondo
il macro e il microcosmo, e poi lasciate
che vada avanti come a Dio piace.
Vano è darsi da fare sudando per la scienza,
ognuno impara solo quel che può.
Ma colui che afferra l'attimo,
quello sì che è un uomo in gamba.
Siete piuttosto ben proporzionato,
e non vi mancherà certo l'ardire;
abbiate solo fiducia in voi,
e anche gli altri si fideranno.
Soprattutto imparate a trattare le donne!
I loro eterni ohi e ahi,
che non finiscono mai,
si curano tutti da un unico punto.
Se lo farete in modo a metà rispettabile
le avrete in pugno tutte quante.
Un titolo dovrà prima convincerle
che come l'arte vostra non ce n'è,
poi tasterete, a mo' di benvenuto,
le cosucce a cui gli altri girano attorno gli anni.
Imparate a premere il polso dolcemente
e con sguardi focosi e maliziosi
abbracciate deciso i fianchi snelli,
per vedere quanto la stringe il busto.

LO STUDENTE
Comincio ad orientarmi più che in filosofia.

MEFISTOFELE
Grigia è, mio caro amico, ogni teoria,
verde l'albero d'oro della vita.


LO STUDENTE
Ve lo giuro, mi sembra di sognare.
E potrò ritornare a incomodarvi,
per dare fondo a questa vostra scienza?

MEFISTOFELE
Farò quello che posso volentieri.

giovedì 3 luglio 2014

La prolungata assenza del padre

Silvia Ronchey
Telemaco, mille geniali metafore
La Stampa, 3 luglio 2014

Transfert geniale questo di Matteo Renzi con Telemaco, che l’ispirazione sia stata mediata dalla musa di uno psicanalista lacaniano, come qualcuno ha ipotizzato su twitter, o gli sia venuta direttamente da Omero, come si direbbe dalle altre citazioni classiche intessute nel discorso preparato per iscritto, ma tenuto a braccio, in cui ha esposto i suoi e nostri problemi all’assemblea dell’europarlamento un po’ come Telemaco nel palazzo di Nestore a Pilo nel terzo libro dell’Odissea.
Alto e squadrato, eloquente e conciso, come figlio di Ulisse e rappresentante dell’evocata «generazione Telemaco» Renzi funziona nell’immagine anche meglio dell’efebico Telemaco televisivo della nostra, se non sua, infanzia.
Soprattutto funziona diabolicamente l’immagine di un’Italia-Itaca in cui anche il locale parlamento, che Telemaco presiede all’inizio del secondo libro, è sopraffatto dai Proci, dialettici e scostumati divoratori dell’erario cittadino; di un’Italia-Penelope che tesse e stesse la sua tela, disperata e paziente, pur di non cedere a nessuno di loro la mano e la corona dello sposo Ulisse; il quale però è da vent’anni assente, latitante, morto o disperso in mare, e non sa o forse non vuole tornare.
Ma Atena, dea della ragione, affianca Telemaco e lo rassicura, gli dice di darsi da fare, di muoversi, di viaggiare. E’ quella che gli antichisti conoscono come la Telemachia. E fatto sta che al suo termine il dinamismo del figlio e i rischi che da ogni parte si attira convincono gli dèi dell’Olimpo a far sì che il padre lontano lasci Calipso e intraprenda davvero il ritorno in patria.
Siamo nel quinto libro e ce ne vorranno altri diciannove prima che Ulisse torni, uccida i Proci e riconquisti Itaca. Se Renzi si propone come Telemaco, il percorso che propone al Parlamento europeo non è certo breve né tanto meno facile - è un’odissea - e il messaggio che lancia all’inizio del semestre di presidenza italiana non è né superficiale né ottimistico, ma volutamente intriso di antica, dolente e anche umile lucidità mediterranea.

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Battista Gardoncini

Lo ammetto. Ieri mi sono dimenticato del più importante avvenimento del secolo, il discorso di Renzi agli europei. Non ero tra le moltitudini inchiodate allo schermo come per le partite dei mondiali. Dunque questa mattina, leggendo i giornali on line, non riuscivo a capire perché mai tutti scomodassero il povero Telemaco nel raccontare la sua mirabile prestazione. Poi l'ho capito. Purtroppo.

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Jena
03/07/2014 

Eredità

Però Telemaco non rottamò Ulisse.

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Enrico Manera

non volevo, ma non posso esimermi di blaterare qualche cosa sul mito, anche io: tutti 'sti lacaniani dell'ultimo minuto incominciano a darmi un po' sui nervi.

Penso che Telemaco comunque continua a essere subordinato, porta le armi del padre, deve aspettare che quello finisca di farsi gli affari suoi, deve sbattersi per lui, prendersi cura della madre, coadiuvare il ripristino del potere del padre e infine mettersi da parte in placida attesa a fianco del potere restaurato. Continuando a essere figlio e in attesa che venga il suo turno e l'eredità.

Con il fatto che Enea è meglio se proprio dobbiamo indicare qualcuno che si assume responsabilità, io continuo a tifare Prometeo.

Copri il tuo cielo, Giove,
col vapor delle nubi!
E la tua forza esercita,
come il fanciullo che svetta i cardi,
sulle querce e sui monti!
Ché nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna,
che non costruisti,
contro il mio focolare,
per la cui fiamma tu
mi porti invidia.

Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d’oboli e preci
la vostra maestà
ed a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.

Quando ero fanciullo
e mi sentivo perduto,
volgevo al sole gli occhi smarriti,
quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto,
un cuore come il mio
che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò
contro la tracotanza dei Titani?
Chi mi salvò da morte,
da schiavitù?
Non hai tutto compiuto tu,
sacro ardente cuore?
E giovane e buono, ingannato,
il tuo fervore di gratitudine
rivolgevi a colui
che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?
Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l’eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse
che avrei odiato la vita,
che sarei fuggito nei deserti
perché non tutti i sogni
fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza,
una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me.

(trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi 1967)

sabato 21 giugno 2014

Invocazioni poetiche alla luna

Eugène Chigot, Clair de lune
La Luna è uno dei simboli più antichi dell'umanità, rappresenta l'archetipo femminile materno per eccellenza, la Madre cosmica. La sua caratteristica fondamentale è la ricettività: la luna, pianeta satellite, trattiene e diffonde la luce del sole. Ci troviamo nel pieno cuore della notte, ma una notte illuminata da questo umile chiarore riflesso. È anche il mondo dei sogni, dell'immaginario e dell'inconscio, tradizionalmente associati alla notte.

Johann Wolfgang Goethe 
An den Mond, 1777

Di nuovo inondi la cara valle
silente di luminosa bruma,
e questa volta sciogli alfine
tutta l'anima mia
sopra i miei campi diffondi
il tuo sguardo mitigante,
tenero come l'occhio dell'amica
di fronte alla mia sorte


quello che sai così mutevole
questo cuore in fiamme,
voi lo tenete come uno spettro
relegato al fiume,
quando nella squallida notte
d'inverno si gonfia di morte,
o nel fulgore della vita a primavera
scorre sopra le gemme.

Beato chi senza alcun odio
si segrega dal mondo,
tiene al petto un essere amico
insieme con lui godendo
di quello che gli uomini ignorano
o forse disprezzano,
e che pei labirinti del cuore
di notte va errando.

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Giacomo Leopardi
Alla luna (1819)


1             O graziosa luna, io mi rammento
2             che, or volge l’anno, sovra questo colle
3             io venia pien d’angoscia a rimirarti:
4             e tu pendevi allor su quella selva
5             siccome or fai, che tutta la rischiari.
6             Ma nebuloso e tremulo dal pianto
7             che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
8             il tuo volto apparia, che travagliosa
9             era mia vita: ed è, né cangia stile,
10           o mia diletta luna. E pur mi giova
11           la ricordanza, e il noverar l’etate
12           del mio dolore. Oh come grato occorre
13           nel tempo giovanil, quando ancor lungo
14           la speme e breve ha la memoria il corso,
15           il rimembrar delle passate cose,
16           ancor che triste, e che l’affanno duri!

Il tema del ricordo ricorre molto spesso nella produzione letteraria di Leopardi. Il ricordo – come l’illusione e come il sogno – esalta la contemporanea presenza, nell’animo umano, del dolore e del piacere, i quali, pur non conciliandosi, sembrano confondersi nell’alternanza in un unico sentimento che esprime la condizione esistenziale dell’uomo.
L’apertura è sul versante della gioia: “O graziosa luna”. E “graziosa” significa sia “bella e leggiadra”, sia “benigna”. Ma subito (v. 3) irrompe il dolore: “io venia pien d’angoscia”. Quindi di nuovo la luce che sempre emana dalla Luna e illumina la terra. Poi il ricordo del dolore passato, che, però, sembra addolcirsi: fra le lacrime – è vero –, ma pur sempre è luce quella che appare agli occhi (luci anch’essi) del poeta. A questo punto la sferzata della ragione, in forma quasi eleatica: “è, né cangia stile” (v. 9), il dolore come l’Essere. Ma subito dopo una sorta di riconciliazione con la Natura: “o mia diletta luna”. E segue il piacere (“mi giova”) del ricordo, anche se è ricordo di cose dolorose e, pertanto, rinnova la tristezza.
Dopo il l835, su una copia dell’ultima edizione a stampa, Leopardi aggiunge i versi l3 e l4: una riflessione sulle sue convinzioni giovanili e una presa di distanza da esse, che sottolinea però la portata della funzione del ricordo, legandolo alla speranza. Di fronte alla morte incombente (e quasi presentita dal poeta) le certezze della ragione non sono piú scalfite dal sogno, dall’illusione o dal ricordo; ma quando la vita – seppure con tutto il suo bagaglio di dolore – appariva una via in gran parte da percorrere, allora il ricordo non solo saldava il passato al presente, ma offriva anche una prospettiva di speranza per il futuro. Una sorta di dilatazione del presente verso l’eterno (e l’infinito) che rammenta il tema nicciano dell’eterno ritorno. (filosofico.net)


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Felice Romani 
Norma, 1831

Casta Diva che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel.

Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancor lo zelo audace,
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.


venerdì 29 marzo 2013

Pillole gramsciane5 Analisi culturale e lotta politica


 “La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto piú difficile di quanto non sembrerebbe. Ho ricevuto qualche libro e in verità leggo molto (piú di un volume al giorno, oltre i giornali), ma non è a questo che mi riferisco; intendo altro. Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa «für ewig», secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore.”

Questo si legge in una delle più belle (e commoventi) lettere di Gramsci, inviata a Tatiana pochi mesi dopo il suo arresto, il 19 marzo 1927. La lettera continua delineando un vero e proprio progetto culturale:  1° una ricerca sugli intellettuali italiani; 2° Uno studio di linguistica comparata; 3° uno studio sul teatro di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano; 4° un saggio sui romanzi di appendice e il gusto popolare in letteratura.

Fin dal mio primo approccio con Nino, mi ha sempre meravigliato questa decisione di un impegnato attivista politico – che aveva abituato i suoi lettori e compagni di militanza politica soprattutto alla corrosiva e quotidiana polemica politica in quelli che egli stesso definisce “scritti alla giornata”, che dovevano morire “dopo la giornata” (lettera a Tatiana del 7 settembre 1931) – di passare a scrivere qualcosa “per l’eternità”, (l’espressione tedesca è di Goethe) e di dedicarsi a un sapere “disinteressato”. Eppure io partivo, come tutti noi “posteri”, dalla consapevolezza del­l’impor­tanza di un autore ormai considerato un “classico” della cultura mondiale. Per questo continuo ancora a chiedermi quale impressione deve aver provocato la lettera di Gramsci in Tatiana e in quei pochi e “intimi” lettori dell’epoca.
Oggi mi sembra di poter affermare che in Nino ci fosse la chiara consapevolezza dell’enorme differenza tra la necessità di precedere a strattoni, ed eventualmente con colpi di pesante ironia capaci di spiazzare l’avversario, nella fluida e spesso imprevedibile attività politica quotidiana, e l’analisi accurata, capace di consentire una comprensione più approfondita delle realtà e dei problemi socio-economici, politici e culturali – ammesso che sia possibile distinguere nettamente questi tre livelli nell’opera gramsciana!
La consapevolezza di tale differenza non significa però che, in Gramsci, le due forme di analisi siano o debbano essere autosufficienti o addirittura in conflitto tra loro. Occorre anzi afferrare la necessità di entrambe e coglierne le imprescindibili interconnessioni, soprattutto se si tratta di individuare i “principii di metodologia storica” che consentano una corretta analisi dei rapporti di forza in una determinata situazione:

“l'osservazione più importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano un significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà. Esse mostrano
 quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata più fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini ecc.” (Quaderni del Carcere, Torino 1977, pag. 1588)

Francesco Scalambrino