mercoledì 16 aprile 2025

Il cattolicesimo romanzesco

Rivelazione 


Matteo Marchesini 
Leggendo Flannery O'Connor
Il Foglio, 16 aprile 2025

Il cattolicesimo, che nell’800 rischiava di azzoppare l’arte, in un XX secolo inibito dall’inumano e dall’assurdo ha viceversa ridato ossigeno alla psicologia, alla quotidianità, allo spirito – e quindi alla narrativa. Così in Greene, in Mauriac e Bernanos, in Soldati e in Piovene, è divenuto una fonte di romanzesco e magari di poliziesco, o di certe analisi del sadismo in cui eredità pie e libertine fanno tutt’uno. A un estremo di questo spettro cattolico c’è l’umorismo dell’inglese Chesterton, e all’estremo opposto l’umorismo della statunitense Flannery O’Connor, che il 25 marzo scorso avrebbe compiuto cent’anni. Nella sua breve vita, O’Connor ha lasciato un’opera che è tra le maggiori del Novecento. Se la forma del romanzo appare spesso inadeguata alla sua ansia di raggiungere subito il parossismo drammatico o la verticalizzazione simbolica, nei racconti si contano molti capolavori. Sono pezzi tragicomici, in cui l’umorismo si sprigiona dall’intollerabilità. La violenza escatologica deforma i personaggi fino alla caricatura, come la gravitazione troppo vicina di un pianeta gigantesco. Sfoglio l’edizione Bompiani che li raccoglie tutti, e ritrovo alcune situazioni ricorrenti. Ecco i venditori di salvezza, imbroglioni che non si sentono nemmeno ipocriti, perché la predicazione con truffa è per loro una vendetta sul mondo. Ecco i corpi deformi, i battesimi fatali, i maschi torvi e immaturi e le donne sciocche, proterve, smarrite in una tenuta della campagna segregazionista, sotto la palla biblicamente infuocata del sole. Ecco i branchi di ragazzini esclusi, che fingono di non volere niente e si prendono tutto, come in “Un cerchio nel fuoco” e “Gli storpi entreranno per primi”. Ecco le parabole sui tentativi pedagogici disastrosi d’imporre una virtù moderata e laica a giovani randagi, che dietro le bugie luciferine celano una conoscenza precoce delle verità più estreme. Ecco i ventenni che si credono intellettuali, e invece devono accettare lo squallore della loro realtà (“Malattia mortale” e “La festa delle azalee” sembrano racconti di Brancati trapiantati agli antipodi). Ecco, infine, i vecchi e i bambini, che si sfidano a morte come nella “Veduta del bosco”. Chi ha conosciuto il kitsch religioso e il silenzio stordente, la furbizia avida e la demenza dolorosa della vita rurale a qualunque latitudine, nella voce di questa scrittrice sente un’aria di famiglia. In O’Connor chi è umiliato è maligno, e c’è sempre un capro espiatorio. Leggerla è come leggere insieme Arturo Loria e Federigo Tozzi: timore e tremore, bruttezza dell’umano, possessione diabolica, incarnazione del divino nell’animale, grottesche superstizioni indistinguibili dalla via di Damasco… Il riassunto più rappresentativo sta forse in “Rivelazione”. Qui nella sala d’aspetto di un medico è raccolto un campionario di umanità o’conneriana: femmine dai capelli di stoppa, infanti col moccio, madri sciatte e razziste, e la signora Turpin, un donnone soddisfatto di sé, una filistea però disarmata nella sua rozzezza, e aperta al mistero. Una ragazza grassa come lei, ma abbrutita dallo studio, la fissa con l’ostilità inumana di chi ti conosce da sempre. A un tratto le lancia addosso un libro, inizia a dibattersi come un’indemoniata, e intercettandone lo sguardo le dà della scrofa, della creatura infernale. E’ qui la rivelazione: dietro quegli occhi si nasconde per la Turpin un’entità celeste. Davanti a una giustizia ingiusta ma inappellabile, è stata condannata. Così, di ritorno alla fattoria, si giustifica coi lavoranti di colore come Giobbe con gli amici, e tiene un’orazione alla legione dei suoi maiali. Purtroppo oggi gli esteti nostrani, che mischiano ben altrimenti Bibbia e fumetto, America violenta e cattolicesimo apocalittico, confondono questa intensità con la retorica di Cormac McCarthy.


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