Il Sole 24ore, 13 aprile 2025
Nel leggere queste pagine scritte da Sabina Dal Verme sulla figura di suo padre Luchino, con la collaborazione di Maria Vittoria Cirillo Dal Verme, entrambe, non posso non dirlo, mie compagne di classe al Liceo Classico Manzoni di Milano, ho pensato a mio padre. La stessa cosa che è successa al prefatore, Marco Revelli, figlio dello scrittore e partigiano Nuto Revelli, che non può non pensare al suo, di padre, e di come le loro vite, di Nuto e di Luchino, fossero state «vite parallele», con assonanze impressionanti.
Mio padre non divenne né partigiano né scrittore, nella sua breve vita fu commercialista. Non era di famiglia aristocratica come Luchino e nemmeno medio borghese come Nuto. Mio padre Lorenzo era nato nel Sud, in Puglia, primogenito di una famiglia artigiana dove suo padre, mio nonno Carlo, faceva il fabbro. Eppure come loro ebbe la vita trasformata dagli eventi del 1943, nel suo caso con la prigionia in un campo di internamento e lavoro in Germania, come successe a mezzo milione di prigionieri. Lui a Nordhorn (Lagerausweis 697), dove era stato deportato dopo non avere firmato, per fedeltà alla monarchia, per la fascista Repubblica di Salò.
La trasformazione avvenne per loro l’8 settembre del 1943, con l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, ma soprattutto con il tradimento del re Vittorio Emanuele III e la sua fuga. Per Luchino e Nuto, il passaggio alla lotta partigiana antifascista.
Luchino era rampollo di famiglia milanese di antica nobiltà, risalente al sec. XII, che finì a risiedere nel centro antico di Milano, in via Cappuccio. Non portato per lo studio, si decide per la vita militare, nella quale si impegna e dalla quale riceve soddisfazione. Giura fedeltà al re e alla monarchia ma senza prestare grande attenzione al fascismo – confessa in una delle lettere riportate dalla figlia nel volume – come se fosse inconsapevole della situazione sociale e politica che lo circondava, senza sapere che cosa significassero democrazia, libertà di parola, esercizio pubblico della critica, certo non unico nella cosiddetta «Italia del consenso». Tuttavia le leggi razziali e la guerra cominciano a insinuare dubbi nell’ufficiale Luchino Dal Verme, come si evince dalle frequenti lettere indirizzate ai famigliari, soprattutto alla madre, di recente pubblicate (Luchino Dal Verme, Lettere dalla Campagna di Russia. Luglio 1941- agosto 1942, a cura di Q. Marini, Guardamagna 2024, qui recensito nel novembre 2024).
Nei periodi di licenza Luchino Dal Verme torna a casa, non a Milano ma a Torre degli Alberi, luogo centrale della storia sua e della sua famiglia. Posta nell’Oltrepò pavese, Torre degli Alberi era stato per secoli l’avamposto del castello di Zavattarello. Al rientro Luchino vi avvia un allevamento avicolo e bovino, oggi gestiti da figlio e nipote, insieme all’attività vinicola. La Torre è un luogo quasi magico, di vita naturale, di vita aristocraticamente semplice, non proprio come la botte di Diogene ma in consonanza con l’ambiente e anche con lo spirito scout che venne adottato dalle generazioni successive. Scoutismo cattolico, ovvero spirito di servizio, senso del dovere e in un certo senso dell’onore, in uno stile di vita in consonanza con i valori di Luchino e di sua moglie Francisca Paravicini. Tutto questo però verrà in seguito – la vita di Luchino sarà lunga, 103 anni – più del doppio di quella di mio padre, morto a 47 anni per le conseguenze di una malattia contratta proprio nel Lager.
Nel vuoto apertosi dopo l’8 settembre 1943, dopo la notizia dell’armistizio tra l’Italia e gli alleati, Luchino rimane dapprima disorientato. Dopo mesi di confusione però capisce che il suo dovere è combattere fascisti e tedeschi e accetta l’invito a prendere la responsabilità di una brigata partigiana e ad assumere a un certo punto il comando della Divisione Partigiana Antonio Gramsci. Una brigata comunista, lui aristocratico e cattolico! Accetta la proposta: una grande prova di fiducia da entrambe le parti.
Con il nome di battaglia di Maino (che nulla aveva a che fare con la omonima casata nobiliare bensì con una sottomarca delle biciclette Legnano) compie azioni di guerriglia proprio nell’Oltrepò con la brigata Casotti da lui militarmente addestrata, dormendo di giorno e agendo di notte, prendendo informazioni e tenendo contatti con altri gruppi, combattendo contro i militi della Guardia Nazionale Repubblicana, ma anche contro il reparto di sicurezza fascista alle dirette dipendenze di un Comando Tedesco. Luchino riesce anche a evitare rappresaglie grazie alle sue doti diplomatiche, e a portare in salvo dai rastrellamenti i suoi familiari alla Torre.
Scenderanno anche loro a Milano, il 27 aprile del 1945, quest’anno saranno ottant’anni dalla liberazione dal nazifascismo e non è ancora finita. Il coraggio di essere liberi non è di tutti.
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