Fabrizia Giuliani, Sui documenti si scrive "genitori": la forzatura ideologica sconfitta dalla realtà, La Stampa, 10 aprile 2025
Poche cose nuocciono al vivere civile come lo scontro ideologico su materie che definiamo eticamente sensibili, attingendo a un lessico tanto generico quanto poco accessibile, ossia questioni che attengono alla vita, i suoi luoghi e i suoi processi. La famiglia, le relazioni, la sessualità, la generazione ma anche la cura e la morte. Questi temi sono diventati il terreno prediletto dalla politica per lo scontro dove non ci sono prigionieri, dove l’avversario deve essere piegato e vinto e le convinzioni si impongono con la forza dei numeri. Dove la politica intesa come confronto, rispetto, consapevolezza dell’articolazione del corpo sociale e dei mutamenti che lo attraversano muore e resta solo il bastone del comando. Nel secolo scorso la tendenza era stata definita bipolarismo etico, radicalizzazione incapace di produrre l’accordo necessario a qualunque passo avanti legislativo e priva di memoria. Se si studiasse la storia – anche solo un po’, anche per titoli - si scoprirebbe velocemente come ogni avanzamento civile, ogni passo volto ad archiviare i residui patriarcali è stato realizzato attraverso il confronto aperto e il riconoscimento. L’imposizione, lo sapeva bene una classe dirigente che aveva combattuto il fascismo, non è solo dannosa ma improduttiva: non funziona.
Le società democratiche sono macchine complesse e la complessità, per essere governata, richiede fatica e conoscenza, pena la paura che porta alla regressione, l’abbaglio che il ritorno alla legge comando metta al riparo da cambiamenti percepiti come minacciosi. Siamo nel pieno di questo passaggio politico, di questa paura non compresa e non governata: da qui bisogna partire per parlare della sentenza della Cassazione che riporta alla dicitura genitori sulla Carta d’Identità.
Riportare, si diceva: questa era la definizione prima dell’impuntatura del Viminale (2019), che aveva voluto sostituire genitore con madre e padre. Eppure, genitori era la formula che aveva accompagnato nella storia patria, i documenti di identità fin all’ultima misura del 2015, governo Renzi, relativa alla Carta d’Identità elettronica. L’intento di Salvini era stato chiarissimo: la battaglia per il ritorno alla famiglia naturale passa dalla carta d’identità, persino se questa smentisce lo stato delle cose, ossia non ci sono una mamma e un papà. In altre parole, attraverso la riformulazione della dicitura sul documento si ripristina l’ordine che non c’è. Come se le parole sostituissero o cancellassero i fatti.
La storia del vocabolo genitore avrebbe dovuto mettere in guardia dalle forzature, segnata com’è dalla consapevolezza che i bambini possono crescere in famiglie diverse, che nascere non è crescere e soprattutto che le norme non devono produrre discriminazione, per i bambini e le bambine. Questo hanno messo, nero su bianco, i giudici della Corte nella sentenza 9216, sgombrando il campo dai fantasmi che aleggiano sulla battaglia ideologica. Hanno ricordato come una Carta d’Identità non sia un atto di nascita, che il decreto ministeriale impediva di dare «adeguata rappresentazione alla realtà giuridica familiare venutasi a creare», ossia una coppia omoaffettiva femminile ricorsa regolarmente all’adozione in casi particolari.
I giudici hanno sottolineato come questo istituto non ammetta discriminazioni, dunque, la Carta d’identità del minore non può indicare dati difformi, non corrispondenti alle figure genitoriali. Ancora una volta, la forzatura ideologica si è infranta davanti alla realtà, alle leggi e alle ragioni che le sostengono. Speriamo sia letta per intero, questa sentenza e soprattutto sia d’insegnamento.
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