Sabato Angeri, Le carte false di Trump e la guerra in Ucraina
il manifesto, 11 aprile 2025
Le decisioni di Trump rendono il «mondo post-americano una realtà». La guerra commerciale scatenata dai dazi e la ritirata scomposta di Washington hanno seminato paura e confusione nella stampa d’oltreoceano che ora si chiede come potrà essere presa seriamente in considerazione la politica estera Usa.
Ucraina, Gaza, Iran, Cina sono i dossier principali sul tavolo dello Studio ovale, ma dovunque si guardi nel mondo c’è una possibile escalation in agguato. Il tycoon si era intestato il ruolo di arbitro: disimpegno e uso dello strapotere militare ed economico come armi per costringere chiunque a trattare. in Ucraina siamo al parossismo: dalla «fine della guerra in 24 ore» si è passati alla «tregua entro Pasqua» e ora i funzionari sauditi, che ospitano i negoziati preliminari parlano di tempi lunghi, «almeno sei mesi». Un cessate il fuoco dato per concluso tre settimane fa è rimasto lettera morta.
Per Zelensky «Trump è molto più arrabbiato di quanto non si veda», per Mosca c’è ancora «un’enorme differenza» tra le richieste della parte russa e le offerte dei mediatori scelti dalla Casa bianca. Le «notizie molto molto buone» che venivano annunciate come un «giorno storico» dal messia dei Maga meno di un mese fa ora sono sparite dai radar. Che leader è questo che nel periodo peggiore dalla fine della II Guerra mondiale a oggi tratta il conflitto in Europa dell’Est come una questione personale? La retorica dell’uomo di successo, che ottiene sempre ciò che vuole in un modo o nell’altro a costo di essere duro con gli altri, ma sempre dalla parte dei suoi, è crollata a meno di 90 giorni dal suo insediamento come il castello di carte che era. Al presidente piace la metafora del giocatore, ma gli manca l’onesta disperazione dell’Aleksej di Dostoevskij, così come l’impulsività di Paul Newman e l’abilità di Rain man. Trump bluffa, forte dell’apparato militare più potente del mondo. È più un Cicikov, fanfarone compratore di anime morte inizialmente amato da tutti e poi guardato con sospetto. E la retromarcia sui dazi ha dimostrato che il suo bluff è possibile solo quando se la prende con i più deboli, come sta facendo con gli ucraini. Mentre due tregue sono state annunciate urbi et orbi con tanto di squilli di tromba dagli alfieri all’estero – Salvini, Orbàn o Milei, tra gli altri – la situazione sul campo peggiora.
Le forze russe hanno iniziato due nuove offensive sul campo, nelle regioni nord-orientali di Sumy e Kharkiv. Ufficialmente per «creare una zona cuscinetto» che non permetta il ripetersi della figuraccia di Kursk, ma con l’obiettivo di stringere Kharkiv, la seconda città dell’Ucraina con una popolazione pre-bellica di 1,5 milioni di persone, in una morsa ancora più letale e bombardarla anche con artiglieria più economica e obsoleta. Nel vicino Sumy, invece, la fanteria minaccia i confini dopo aver cacciato i reparti di Kiev dal Kursk. Dove la propaganda del Cremlino continua a rilasciare comunicati sulle migliaia di cadaveri di soldati ucraini lasciati sul terreno dei quali si starebbe occupando. «Hanno abbandonato i loro fratelli» accusano i russi «e ora ci stiamo occupando noi di seppellirli o di restituirglieli». La controparte ha confermato che le due manovre sono effettivamente in corso, ma aggiunge che finora non hanno portato ad alcun cambiamento sul terreno.
Più a sud, nel martoriato Donbass, la spinta da est non si arresta. I migliori pezzi forniti dall’occidente si trovano qui, l’ordine è quello di fermare l’avanzata nemica a tutti i costi. I report di interi reparti di reclute mandati a morire in zone ad alto rischio di moltiplicano, i soldati sono arrabbiati ma annichiliti. «Bisogna resistere e resisteremo finché qualcuno, a Kiev, non deciderà che è finita» ci raccontavano al fronte nei giorni dell’anniversario del terzo anno di guerra. È l’emblema dello scollamento totale tra la guerra combattuta e la guerra diplomatica. Ma i problemi sono tanti e ora anche la catena di comando è messa in discussione. Il lungo articolo del New york times di fine marzo evidenziava come la rivalità tra l’ex Comandante in capo delle forze armate Zaluzhny e il nuovo capo Sirsky abbia causato danni enormi, incluso il fallimento della controffensiva del 2023. Ora Sirsky è messo sotto accusa anche da Bogdan Krotevych, un ex comandante della brigata Azov che si è fatto intervistare sul Guardian per dichiarare che il capo dell’esercito manda al massacro i suoi uomini con ordini «al limite del criminale». Niente di nuovo, a Bakhmut Sirsky era stato soprannominato «il macellaio» per la sua ostinazione a voler riconquistare la cittadina del Donetsk. Non si conosce nemmeno il numero dei soldati ucraini sacrificati per questa sua vanità, secondo alcuni si tratta di cifre a quattro zeri.
Intanto i bombardamenti continuano e il novero dei morti civili sale ogni giorno. Ma Zelensky si dice sicuro che l’Ucraina potrà ancora resistere e si è offerto addirittura di acquistare armi americane per un valore di 30-50 miliardi di dollari. Soldi di chi? Forse una clausola per l’Accordo sulle terre rare che, tuttavia, è tornato alla prima bozza ed è in una fase di stallo. Anche questo, dato per concluso prima che Zelensky arrivasse a Washington, e ora sospeso nel limbo dell’ego ipertrofico del giocatore folle.
Trump gioca su più tavoli e su ognuno crea danni incalcolabili. La realtà oltre il delirio Maga è che mentre a Washington si truccano i mazzi che rendono ogni giorno il mondo meno sicuro e più povero, in Ucraina, a Gaza gli interessi travestiti da vanità uccidono senza tregua.
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