Anna Simone
Narcisismo, il presente e i suoi ripiegamenti
il manifesto, 2 aprile 2025
Tra le difficoltà che più si riscontrano nelle società contemporanee, afflitte dalla predominanza delle immagini sulle parole, da forme di agire performativo orientate al successo senza inciampi, indotte dai modelli legati alla società dello spettacolo o della prestazione veicolati dal web, v’è sicuramente quella di capire la linea sottile di demarcazione che intercorre tra un fenomeno sociale e il suo rovescio patologico. Per esempio, come possiamo distinguere l’insegnamento del mito di Narciso dal narcisismo, considerato ormai come una tra le patologie della contemporaneità?
La questione, infatti, è talmente sfuggita di mano che basterebbe fare una ricerca sul web per trovare pagine e pagine di sedicenti «esperti» che parlano per punti ed elenchi al fine di individuare i comportamenti dei cosiddetti «narcisisti patologici» e per invogliare le possibili «vittime» a contattarli per salvarsi dal male del secolo, come fossimo tutti in una sorta di mercato del malessere.
EPPURE, quando Ulrich Beck, già dalla fine degli anni Novanta, ci metteva in guardia dicendoci che questo sarebbe stato il secolo delle psicoterapie, non cadeva nella trappola della «patologizzazione» e del pubblico linciaggio del malessere psichico, ma spiegava lo stesso attraverso altre categorie, decisamente più complesse: l’influenza del mercato, della competitività e della mercificazione nella vita di ciascuno ovvero il famoso mito del «diventa anche tu imprenditore di te stesso»; l’immediatezza dell’azione e del just in time della vita online che non lascia mai spazio alla riflessività (definita poi onlife); l’ascesa dell’individualismo e la crisi del legame sociale; un continuo bombardamento di immagini dalla nascita alla morte che alla fine anestetizzerebbe chiunque. In altre parole, siamo certi che il narcisismo sia solo un segno dell’individuo malato, un virus psichico che si propaga a dismisura distruggendo la vita intima di migliaia di persone, senza una sequenza di problematiche e di trame causali che derivano direttamente da un modello di sviluppo che fomenta i processi di mercificazione del sé, le patologizzazioni, nonché sbrigative forme di etichettamento sociale?
Inoltre, come mai dalla prima e dalla seconda rivoluzione industriale sono nati i movimenti di massa contro lo sfruttamento e l’alienazione da lavoro in fabbrica, mentre dalla rivoluzione digitale si propaga solo il culto dell’Io, patinato o vittimario che sia? Alla base della coppia Narciso/narcisismo, infatti, la questione è proprio quella del ripiegamento sull’Io-crazia, come la chiamava Lacan, tipica delle società dei consumi. L’Io, infatti, non è il Sé, ovvero la capacità conscia o inconscia di pensarsi, analizzarsi, vedersi in interazione con gli altri, ma solo un triste ripiegamento identitario, un perpetuo auto-inganno senza meta finalizzato solo all’illusione di essere qualcuno o qualcosa senza esserlo.
Sul narcisismo e sulla cultura che lo genera, al netto degli imbarazzanti siti sopra citati, hanno scritto in tanti. Per Freud, ad esempio, esso è una pulsione egoistica di autoconservazione libidica che può sfociare in psicosi, può condurre il soggetto ad inventarsi un «Io» ideale che si autorappresenta attraverso manie di grandezza e deliri di onnipotenza, sino a non avere più la percezione della realtà e degli altri (Introduzione al narcisismo. Inibizione, sintomo e angoscia, Bollati Boringhieri 2012).
PER VITTORIO LINGIARDI, invece, il narcisismo è un caleidoscopio impossibile da definire se non in relazione ad altri sentimenti come la bassa autostima, l’insicurezza, l’inadeguatezza, l’invidia, il vuoto interiore, l’inclinazione alla depressione o al sadismo (Arcipelago N, Einaudi 2021). Per Christofer Lasch, ancora, esso è una cultura legata all’edonismo degli anni Ottanta e all’individualismo che non inculca colpa, bensì ansia da competitività e bisogno continuo di approvazione, riconoscimento sociale, nonché inquietudine e insoddisfazione permanente (La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani 1979). In sintesi, per Lasch, esso è strettamente collegato anche alle dinamiche sociali, culturali e politiche.
Più o meno sulla stessa scia, ma con altri riferimenti teorici e rovesciando completamente l’approccio negativo, nonché patologizzante del fenomeno, prende corpo il bel volume di Matt Colquhoun, filosofo e fotografo inglese vicino al pensiero di Mark Fisher, uscito da poco per Nero, una casa editrice impegnata da anni a promuovere immaginari alternativi alla vulgata comune. L’edizione italiana del volume, dal titolo Narciso. Storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian (pp. 260, euro 22, traduzione di Paolo Berti) è di grande rilevanza proprio perché affronta la questione a partire dal mito e dai significanti veicolati nell’era della proliferazione delle immagini. Nelle Metamorfosi di Ovidio, Narciso è un solitario che viene condotto dalla Ninfa senza voce Eco presso uno stagno.
QUI LUI SI VEDRÀ per la prima volta, ma quello stagno-specchio diverrà la sua condanna. Infatti, non avendo più la possibilità di liberarsi da quella immagine riflessa ne morirà. Tuttavia, al posto del suo corpo, verrà trovato un fiore giallo cinto da petali bianchi. Come scrive Colquhoun: «Era sbocciato un narciso». Il mito, dunque, ci parla di una morte e al contempo di una fioritura, di una rinascita. Ed è proprio a partire da qui che l’autore del volume risignifica la vulgata sul narcisismo sostenendo la tesi secondo cui occorrerebbe approfittare di questa proliferazione di Narcisi nelle società contemporanee per pensare una trasformazione singolare e collettiva, una decostruzione dell’Io imperante.
Inoltre, come ci ricorda l’autore e prima ancora il sociologo della comunicazione McLuhan, la parola Narciso deriva da narke da cui discendono termini come narcotico o narcolessia, quasi a volerci dire che «seduzione e sedazione» si intrecciano. Sicuramente un problema, una «malattia» che imperversa ovunque, ma anche un’occasione per fare della solitudine di Narciso e dei narcisisti, un processo trasformativo in cui non è più l’Io a dettare le regole, ma l’intreccio tra il Sé e gli altri. Se è infatti vero che l’egocentrismo contemporaneo è veicolato dai media e dal capitalismo delle piattaforme, è altrettanto vero che l’autoritratto è sempre esistito nella storia dell’arte e della fotografia ed è stato persino salvifico per molte e molti.
L’AUTORITRATTO, ad esempio, per molte artiste e fotografe femministe è stato fondamentale per vedersi come un soggetto e non come un «oggetto» del desiderio maschile. E così dalla pittura di Dürher e altri, altre, sino al primo autoritratto del fotografo americano Cornelius, si può arrivare al presente dei selfie di Britney Spears e Paris Hilton, così come di tutti noi. In questa interessante e affascinante storia della propria immagine tracciata da Colquhoin, tuttavia, il gesto filosofico e politico di rovesciare le narrazioni patologizzanti sul narcisismo in qualcosa di positivo, non è certamente privo di distinguo e di «spazi striati», per citare Deleuze – un autore a lui caro.
Infatti, affinché l’Io mortifero, chiuso, identitario, narcotizzato e dissociato dall’idea secondo cui gli altri sono il nostro limite oltre che la nostra prima fonte in quanto esseri sociali; affinchè quell’Io tiranno possa trasformarsi in un sé in relazione, in una prima persona singolare e collettiva insieme, magari senza l’ossessione del volto, diviene indispensabile l’insegnamento di Mark Fisher. Ovverosia essere in grado di capire «il momento in cui una merce acquisisce consapevolezza di sé, o in cui un essere umano capisce di essere diventato una merce». Si, tutto il resto è narcisismo ovvero una costruzione ingannevole e feticista di un «Io» tiranno, megalomane, autoritario, in perfetto stile Trump con la sua immagine riprodotta all’infinito dall’AI sulle macerie e i morti di Gaza, divenuta anch’essa merce per l’occasione.
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