Massimo Cacciari
Ora l'Europa è al bivio tra Stati Uniti e Cina
La Stampa, 7 aprile 2025
La «guerra dei dazi» è l’ultimo segnale di una crisi degli equilibri internazionali sempre più vicina al punto di rottura. Una globalizzazione tecnico-economica in assenza di ogni guida politica non poteva portare che a questa situazione. Che mercato e libero scambio potessero da soli produrre benessere e pace faceva parte dell’armamentario ideologico liberista al quale si sono arrese dalla fine della guerra fredda tutte le «sinistre» del mondo. Peggio: quella ideologia presupponeva tacitamente che di fatto esistesse una sola guida del processo di globalizzazione, e che questa fossero gli Stati Uniti. La loro egemonia in tutti i fattori strategici, dal primato scientifico-tecnologico alla schiacciante superiorità militare, sembrava non essere in discussione. In questo quadro l’Europa era chiamata a un ruolo certo importante, ma sussidiario, né doveva indebolirne le fondamenta con azzardate aperture a Oriente.
Coloro che hanno la cattiva abitudine di collocare le vicende presenti sulle onde lunghe della storia capiscono che oggi proprio tale quadro entra in una crisi irreversibile. Che l’Occidente è chiamato a ripensarsi, a ripensare il proprio destino. Al di là delle maschere da spaccone far west e delle retoriche populiste, Trump esplicita ciò che risultava già evidente dai fallimenti dell’Amministrazione Biden: l’America si è radicalmente indebolita nella competizione internazionale e deve concentrarsi sui propri interni problemi. Fare l’America grande di nuovo è lo slogan che copre questa amara realtà. Che le politiche messe ora in atto siano in grado di raggiungere lo scopo che si prefiggono è tutto da vedere, ma la loro intenzione è certa. Con esse gli Stati Uniti dichiarano di non poter più svolgere il ruolo di quella potenza guida su cui l’Occidente si è retto dalla fine della seconda Guerra mondiale.
La diagnosi temo sia esatta. La terapia forse sbagliata, anche per gli stessi interessi americani. I suoi critici, tuttavia, dovrebbero indicare quali sarebbero le alternative realistiche a fronte del costante aumento del deficit commerciale Usa e della perdita di competitività di tutti i suoi comparti manifatturieri. La «guerra dei dazi» si svolge su piani molto differenziati e la sua articolazione ne mette in lampante evidenza l’obbiettivo di fondo: il conflitto strategico con l’Impero cinese. E qui davvero il problema assume dimensione epocale. La crescita della Cina, malgrado le profezie sul suo arresto periodicamente ripetute nel corso degli ultimi quarant’anni (sarà bene ricordare che il Pil cinese alla fine degli anni ’80 era equivalente a quello di Paesi delle dimensioni del Belgio), continua a ritmi impensabili per economie mature e sembra essere ancora lontana, per disponibilità di risorse umane, infrastrutturazione, solidità politico-amministrativa, dall’”atterrare”. Da immensa piattaforma manifatturiera, accumulatore e assemblatore di energie e esperienze formatesi altrove la Cina è diventata da tempo una potenza innovatrice – e tale potenza crescerebbe esponenzialmente disponendo del “polo” di Taiwan. Né si tratta soltanto della Cina: si sviluppano in questo stesso senso altri grandi spazi economico-politici dell’Est, come il Vietnam. L’Impero dell’Occidente, gli Usa, è chiamato ad affrontare questa competizione strategica. L’aumento strepitoso dei dazi contribuirà a colpire la crescita cinese e ad arrestarne i programmi più innovativi (anche sul piano militare)? O piuttosto renderà ancora più precari gli equilibri interni, economici e sociali, dell’America? Dipenderà da molti fattori, impossibile prevederlo in base a mere estrapolazioni economiche. Dipenderà dalla tenuta della nuova élite trumpiana, ma anche dai contraccolpi della nuova situazione in seno a quella cinese. Dipenderà anche dalla posizione europea, se e in che misura l’Europa saprà produrre un contraccolpo di reale autonomia e unione nei confronti degli Usa.
Come dovrebbe configurarsi una tale reazione? Ripensando in termini autenticamente federali l’assetto delle alleanze che formano l’Occidente. L’epoca dell’indiscussa egemonia è finita, per dichiarazione dello stesso soggetto egemone. Ogni fattore del sistema delle alleanze deve perciò assumere il proprio ruolo e saperlo svolgere autonomamente. L’Europa ha interessi vitali a rappresentare il punto di mediazione tra Occidente, Oriente, Mediterraneo e Africa. Interessi vitali a porre termine a guerre civili al proprio interno e a conflitti armati ovunque si manifestino. Un’unità d’azione per fronteggiare l’attacco sui dazi che non si fondi su questa visione strategica varrà meno di un’aspirina. C’entra l’Unione per la Difesa in tutto questo? Certo che sì. Come potrebbe realisticamente concepirsi un’unità politica senza difesa comune? Ma ciò è esattamente l’opposto delle attuali grida al riarmo! Ciò significa bilancio comune per la difesa, programma di armamenti congiunto. Ciò comporta la decisione di farla finita con forze armate nazionali. Un esercito e un comando europei. Riarmarsi prima che questa strategia sia definita è come indebitarsi per l’automobile senza saper guidare. L’unico effetto sarà il riarmo tedesco a carico di tutti (sperando almeno che l’AfD, continuando così la politica europea, non giunga prima o poi a vincere).
La risposta ai dazi di Trump finirà con l’essere una risposta spezzatino, Paese per Paese, con un cappello von der Leyden di maniera, se non si inquadrerà in una volontà di rilancio reale dell’Unione politica. E questa non può prescindere dalla riaffermazione di alcuni principi sui quali è nata la sua stessa idea. E’ l’Europa dei diritti sostanziali, è l’Europa delle sue costituzioni democratiche progressive del Dopoguerra, che sembra conoscere un’inarrestabile decadenza. Un’Europa che non apre bocca di fronte al massacro quotidiano a Gaza, ma, anzi, tiene al suo interno governi che lo apprezzano, potrà trovare diecimila accordi favorevoli sui dazi con Trump, ma non sarà più Europa e alla fine conterà nel grande gioco degli equilibri tra Imperi ancora meno di quanto stia contando oggi.
L'Europa federale e la difesa comune è stato il sogno di molti di noi, ma l'Europa è andata da un'altra parte, più zona di libero scambio che Unione. Sarà impossibile costruire una federazione con 27 Stati, anche se si eliminasse il voto unanime. Credo che l'unica speranza sarebbe quella dei quattro/cinque paesi più importanti che iniziassero il processo federativo mantenendo l'unione economica con gli altri e lasciando aperta la porta a nuovi ingressi ( insomma l'Europa a due velocità). E' sempre un sogno anche perché la federazione di Francia e Germania ( e l'Inghilterra?) la vedo difficile.
RispondiEliminaL'Europa è andata da un'altra parte, ma un tentativo di creare una forza armata intanto c'era stato ed era fallito, negli anni Cinquanta, per colpa della Francia. L'unione per la difesa non dovrà per forza includere tutti gli Stati. Per avviare il processo possono anche bastare i paesi più determinati ad agire, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Polonia. Trump sta facendo il miracolo di spingere il nucleo forte dell'Europa verso una maggiore confluenza.
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