Mario Sechi, Adesso siamo noi la voce dell'Europa, Libero, 16 aprile 2025
Guardare l’andamento dei mercati è un esercizio necessario per capire come va il mondo. In pace e in guerra, quando vuoi un’indicazione sulla rotta, non devi perdere di vista il petrolio (la principale fonte di energia); i semiconduttori e le terre rare (il motore dell’industria che si nutre di dati); le quotazioni delle valute, dei titoli di Stato e gli indici delle borse. Sono disponibili migliaia di altri indicatori aggiornati in tempo reale e, naturalmente, c’è un gigantesco flusso di notizie, le decisioni dei governi e delle banche centrali, i bilanci delle aziende. Quando Giorgia Meloni, alla vigilia dell’incontro con Donald Trump alla Casa Bianca, dice che il «momento è difficile» sintetizza l’incertezza politica, mentre i mercati cercano indicazioni sul futuro. La missione americana di Meloni si è caricata di aspettative, perché l’Italia oggi esercita un ruolo importante negli equilibri dell’Unione europea, la premier mostra prudenza e realismo, sa che questa America è diversa, imprevedibile e alla ricerca di una via d’uscita dalla trappola dello squilibrio finanziario in cui è precipitata fin dagli anni Settanta. Non bisogna perdere di vista l’obiettivo di Washington: ridurre il rosso della bilancia commerciale e invertire il processo di de-industrializzazione, Trump sta tentando di riprogrammare la macchina dell’economia americana. Per questo ho scritto e detto tante volte in queste settimane che si tratta di un colossale azzardo, in questo momento è ancora il 47° Presidente a dominare il mercato, ne provoca le cadute e le risalite, ma passare al ruolo opposto, quello di dominato dal mercato, è questione di un attimo, perché il sistema finanziario ha meccanismi vecchi e si trova di fronte a problemi nuovi innescati dalla prima potenza mondiale. Il piano di Trump non è di breve periodo e ha bisogno di alleati. Quello naturale è l’Europa, per ragioni storiche (il sistema di relazioni internazionali nato dopo il 1945), affinità di sistema politico (l’essere democrazie), interessi strategici (la cooperazione nella difesa) e profondi legami psicologici (il soft power della cultura). L’Italia aggiunge a questi elementi strutturali un’alleanza storica con gli Stati Uniti, una posizione chiave nello spazio del Mediterraneo e del Vicino Oriente, una tradizionale vocazione della nostra politica estera a dialogare con tutti. In passato siamo stati parte della soluzione di grandi problemi (la crisi dei missili di Cuba nel 1962, con il governo Fanfani), oggi Meloni è una voce importante dell’Europa, la sentiremo.
Federico Geremicca
L'imprevedibilità di Donald e il rischio del trattamento-Zelensky
La Stampa, 16 aprile 2025
È una preoccupazione – diciamo un’inquietudine – che è andata crescendo proprio mentre le questioni più di fondo sembravano quantomeno chiarirsi. E così, come accade tra vasi comunicanti, nei pensieri della premier i problemi di forma hanno progressivamente raggiunto e forse superato quelli di sostanza. Per dirla in modo semplice: forse mai, in tempi moderni, un capo di governo in visita all’estero si è trovato a doversi preoccupare non tanto dei temi da trattare ma dell’umore e della buona educazione del leader ospitante.
Già, buona educazione. Perché Donald Trump si è finora prodotto in immagini, volgarità e contumelie difficili da accantonare: il “processo” in diretta TV a Zelensky, le accuse all’Europa (parassiti e imbroglioni), le oscenità riservate ai leader stranieri che avevano contattato la Casa Bianca per trattare di dazi. Di che umore sarà durante (e soprattutto dopo) il colloquio con la nostra premier? L’interrogativo – a non essere ipocriti – è tutt’altro che ozioso. Ed è sorprendente, piuttosto, che Giorgia Meloni debba porselo a proposito del leader che ha sempre indicato come modello e riferimento politico.
Sul piano delle prime mosse, la delusione della premier è stata forte. Volodymyr Zelensky – da lei sempre sostenuto – appallottolato come carta straccia; l’Europa tagliata fuori da ogni trattativa per non infastidire Putin; Netanyahu autorizzato a spianare Gaza; e poi lo snervante autolesionismo sui dazi, i sospetti di insider trading e l’insensata guerra alla Cina. Che fosse questo il programma per far tornare grande l’America, la premier non l’aveva forse nemmeno sospettato: e ora le tocca fare i conti con un sovranismo violento assai più del suo.
Considerato che gli Usa hanno annunciato che tratteranno di dazi con l’Unione europea e non con i singoli Paesi (e che dunque dall’incontro di domani non ci sarebbe da aspettarsi granché) è appunto la buona educazione, diciamo così, a tener banco: su questo terreno, del resto, Trump si è rivelato ancor più imprevedibile e incontenibile che su quello del governo (ed è tanto dire).
È da escludere, naturalmente, che alla premier italiana possa esser riservato il trattamento-Zelensky (anche se a Starmer e Merz, bersagli di Musk, non è andata così meglio). Ma il resto? Giorgia Meloni è pur sempre una leader europea, dunque una parassita contraria a spendere in armi, secondo Trump. Ed è anche una donna... Usiamo un eufemismo: la misoginia del presidente americano è cosa nota, e in nome della fine delle politiche di inclusione ha già fatto fuori quattro donne degli alti gradi dell’esercito. Mostrerà l’indispensabile rispetto verso la presidente italiana o racconterà barzellette? Ascolterà l’opinione di una “amica” o precipiterà nel volgare, mettendo magari in imbarazzo l’ospite venuta da Roma? Nulla di questo è auspicabile: e quasi certamente nulla di questo accadrà. Ma nulla di questo è realmente impossibile da escludere.
E allora chissà se, in volo verso Washington, Giorgia Meloni ripenserà – per esempio – alla sua guerra senza quartiere al politicamente corretto: che vuol dire, prima di tutto, parlare senza insultarsi. Chissà se rifletterà sugli effetti (per ora economici) di un sovranismo esasperato e spesso volgare. E chissà che non proverà una qualche nostalgia verso i detestati vertici europei, le riunioni della “casta di Bruxelles”. Perché un gentleman, in fondo, resta tale anche se non la pensa come te: non deride, non t’insulta. Non è tanto, è vero: ma domani, a Washington, potrebbe perfino bastare...
Andrea Colombo
Meloni, il viaggio si complica: solo un bilaterale
il manifesto, 16 aprile 2025
LE PREOCCUPAZIONI a palazzo Chigi sono tante e la prima, anche se nessuno lo ammetterebbe in pubblico, è che con un tipo come Trump non si sa mai quale accoglienza verrà riservata. I pronostici sono ottimisti ma le dita resteranno incrociate fino all’ultimo. Il precedente Zelensky non lo ha dimenticato nessuno. Molto più corposo il rischio di tornare a casa solo con una pacca sulla spalla. Sarebbe un fallimento che ridimensionerebbe le ambizioni della premier in Europa.
Di “carte da giocare” Meloni non ne ha in realtà molte. La principale sarà probabilmente insistere per un incontro diretto fra Trump e von der Leyen. Nella situazione data sarebbe un passo concreto. Ma per il resto come rispondere a un Trump che probabilmente insisterà sull’innalzamento vertiginoso dei contributi Nato? Senza impegnarsi su percentuali precise. Rivendicando l’imminente traguardo del 2% del Pil, che al mercante sembra però pochissimo, e poi impegnandosi per fare di più. Senza specificare però né quanto di più né in quanto tempo, senza percentuali né date perché quello l’Italia non se lo può permettere. Basterà?
E COSA DIRE sulla prevedibile richiesta di evitare ogni avvicinamento commerciale alla Cina, quando l’Europa naviga proprio in quella direzione, con tanto di imminente vertice Ue-Dragone in luglio al quale lavora la presidente von der Leyen e di prossima visita a Pechino della presidente della Bce Lagarde? Che l’Italia è di opinione opposta, gelida sul dialogo con la Cina e molto spaventata dal rischio di invasione della sovrapproduzione cinese bandita tramite tariffe dagli Usa. Ma l’Italia non è l’Europa e perché riesca ad affermare il proprio punto di vista bisogna che Trump fornisca argomenti convincenti. Cioè che freni davvero sulla guerra dei dazi, apra almeno uno spiraglio sulla possibilità di quella zona occidentale di libero scambio, affrancata da dazi di ogni sorta, che è l’obiettivo finale della Ue. Ma sulla risposta del doganiere nessuno scommetterebbe un soldo. Al commissario per il Commercio Sefcovic ieri gli americani hanno già detto un no secco.
DOVREBBE ANDARE meglio sul fronte per nulla secondario degli investimenti. Sia nel comparto armi che in quello gas la cooperazione tra Italia e Usa è già parecchio sviluppata, l’orizzonte di soddisfacenti investimenti reciproci non è detto che sia una chimera. Se il bilaterale dovesse andare bene e la premier italiana potesse vantare risultati su quel fronte, anche con un nulla di fatto su quello delle trattativa sui dazi il premio di consolazione sarebbe più che sufficiente.
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