giovedì 17 aprile 2025

L'ora della Germania



Giuliano Ferrara
La scomparsa dell'America prevede il gran ritorno della Germania
Il Foglio, 17 aprile 2025

... Ovvio che se il problema è la Russia, con il suo progettino neoimperiale, la Germania è parte della soluzione. Ovvio che se il problema è la sicurezza collettiva, senza la Germania c’è pochissimo altro da fare se non alzare le mani. Oggi il paese del futuro Cancelliere Merz è il contrario di quello di ieri, in un certo senso. Gigante economico e nano politico, così era definito nella guerra fredda, e l’infame Franti (de Gaulle) sorrideva, la Germania già locomotiva economica è ora un potenziale gigante politico, e forse un buon carro armato e un buon missile Taurus, che deve emanciparsi dal recente nanismo industriale e produttivo di tendenza recessiva e ritrovare il suo spazio vitale (oooops!) nel concerto delle democrazie liberali e costituzionali che devono imparare a difendersi dal Channel all’Elba, passando i confini dell’Oder-Neisse con la Polonia e coprendo di un mantello d’acciaio tutto l’est, fino ai paesi baltici e alla Finlandia. Saranno gli esperti di geopolitica, non io che la considero una forma di cartoonism, un videogioco, un geofumetto globale, a speculare, indagare, intrugliare, dettagliare come desiderano.
Per quanto mi riguarda, se Friedrich Merz è un liberale che sa spendere nelle cose giuste, e riattivare un’economia languente e costruire un limes realista capace di contenere l’assalto spiritualista e zarista degli amici del caro Paolo Nori, viva la faccia. La scomparsa dell’America di Roosevelt e Truman, fino a Reagan e a Clinton, lascia un vuoto che qualcuno dovrà pur colmare. Non mi imbranco con chi ha paura del riarmo tedesco, con chi diffonde spregevoli stereotipi novecenteschi a protezione del vero pericolo totalitario e autocratico, con chi ignora il fondo radicale e iperdemocratico basato su una Costituzione federale a prova di bomba e su una denazificazione tarda ma sicura, irrobustita invece che debilitata dalle vicende postweimariane dell’unificazione, al di là delle quali si è visto che il residuo nazi è forte soprattutto nell’est germanico, nelle terre dove avevano dominato i rossi. Altro che dazi, bisogna augurarsi che Regno Unito Francia e Germania, possibilmente con una forte compresenza eretta e coraggiosa dell’Italia e della Spagna, suppliscano a quel che con JD [Vance] e Trump è venuto a mancare: la lealtà verso la libertà e l’indipendenza dei popoli, superiore perfino alle opinioni di mercato dell’età aurea. L’importante è che i tedeschi accettino il ruolo che è loro, geograficamente e storicamente, quello di avanguardia a ridosso del limes. Descrivendo la giornata ubriaca e rissosa del barbaro germano, Tacito alla fine gli riconosce la migliore delle qualità, un quadretto da Oktoberfest. “Popolo ingenuo e senza malizia, nella libertà conviviale svelano ciò che fino a quel momento tenevano chiuso dentro di sé, così che la mente di tutti appare scoperta e nuda. Il giorno dopo riprendono in mano la questione (…): discutono quando non possono mentire, decidono quando non possono sbagliare”. Facciamoci e facciamogli tanti cari auguri.


Marco Revelli
Ursula von der Leyen ha ragione, ma è colpa anche sua
La Stampa, 17 aprile 2025


Su un punto Ursula von der Leyen ha detto la verità nell’ampia intervista rilasciata al settimanale tedesco Die Zeit, quando ha affermato che «l’Occidente come lo conoscevamo non esiste più». Affermazione di per sé devastante, perché se presa alla lettera significa che “non sappiamo più chi (né cosa) siamo”. Che un punto cardinale della nostra geografia politica si è dissolto.
D’altra parte è difficile negarlo: nel giro di un paio di mesi, o poco più, le due sponde dell’Atlantico si sono allontanate drammaticamente. L’ombrello americano sotto cui l’Europa aveva vissuto per otto decenni, si è chiuso bruscamente. I rispettivi linguaggi si sono fatti scortesi quando non esplicitamente ostili. Gli stessi interessi, da apparentemente convergenti, si sono rivelati improvvisamente contrapposti. I comportamenti delle rispettive leadership, nei due continenti, sono diventati incomprensibili gli uni agli altri, con gli europei convinti che a Washington si sia istallato un gruppo di caratteriali gravi e gli americani convinti che i governanti europei (pressoché tutti) siano una banda di velleitari scrocconi. Come nelle peggiori crisi coniugali, non ci si riconosce più.
Le guerre, lo sanno bene gli storici più avvertiti, soprattutto le guerre perse, portano alla superficie trasformazioni epocali che erano state a lungo sommerse. E questa che è ancora in corso col suo quotidiano tributo di sangue in Ucraina, è una guerra perduta (comunque finisca). Essa ha rivelato, con la brutalità che le è propria, da una parte la grande debolezza degli Stati Uniti come potenza imperale e insieme, dall’altra parte, l’irrilevanza dell’Europa come realtà politica nello scacchiere internazionale. Le convulsioni attuali derivano da questo inedito scenario. Ed è a quello scenario che ci si riferisce quando si dice che l’Occidente «non esiste più». Certo l’America di Donald Trump non si risparmia nulla nel lavoro di picconatura e decostruzione della propria immagine tradizionale e delle consolidate alleanze, non solo con la politica dei dazi, rozzamente gestita come nelle peggiori negoziazioni affaristiche, ma con le minacce di invasione e annessione di Stati sovrani, e con l’uso di un linguaggio offensivo e scurrile. Un vento di pazzia. Ma con lo Shakespeare dell’Amleto, possiamo dire che c’è della logica in questa follia. Il deficit della bilancia commerciale Usa che sfiora ormai i 30 trilioni di dollari non è più sostenibile. Come d’altra parte il debito pubblico e soprattutto privato americano. Il costo di un’egemonia imperiale come quella passata non è più accettabile. Quel che accade, aldilà delle forme, ha una sua relativa inevitabilità. Ma anche l’Europa non scherza, con la sua classe politica “percossa e attonita” di fronte all’shock del cambiamento di scenario. Incapace di leggere i propri errori, e d’immaginarne ragionevoli vie d’uscita, un po’ come capita nel caso di quella sindrome chiamata dell’“arto fantasma” che fa credere a chi ha subito una mutilazione di essere ancora integro. Con i suoi principali leader – Starmer e Macron in primis, quelli che non hanno ancora elaborato il lutto della perdita dei propri imperi –, a illudersi di poter prolungare la guerra in solitudine, facendo il tifo in modo neppur tanto discreto per il fallimento dei tavoli negoziali. E con i Commissari economici incerti tra fare i duri con i contro-dazi o blandire le pretese del tycoon, e tentati fuori tempo massimo, come ha dichiarato la von der Leyen, di cercare nuovi mercati, magari con la Cina, o l’India, o quei Brics che mentre qui si enfatizzava la potenza di fuoco della Nato se ne andavano da un’altra parte. Soprattutto illudendosi che la via della potenza militare e del riarmo possa salvarci del cul de sac in cui ci si è cacciati.
In questo senso Ursula von der Leyen non dice la verità quando afferma, con una sorta di coazione a ripetere, che «l’Europa è ancora un progetto di pace». Perché il retropensiero della sua Commissione è all’opposto quello di tentare di rimontare il fallimento della propria attuale irrilevanza con una velleitaria politica di riarmo, come se fallita la costruzione dell’Unione per via politica se ne debba tentare una per via militare. Via che peraltro, a conti fatti, solo la Germania sarebbe in grado di permettersi. Col bel risultato di trovarcela di nuovo armata nel cuore d’Europa, a ciclo compiuto, tra 5 anni, nel fatidico 2030 indicato da Ursula come l’anno in cui si sarà finalmente pronti alla guerra. Di chi con chi? Con la Russia di Putin, impero già ampiamente declinato? La Cina ancora così lontana? Con l’occupante di un qualche territorio irredento se gli ultranazionalisti di AfD dovessero ancora crescere? Non si sa. Sappiamo solo che i precedenti “riarmi tedeschi”, quello del primo decennio del’900 e quello degli Anni ’30, finirono ognuno con una guerra mondiale. Da cui l’Europa uscì ridimensionata e semidistrutta. Un incubo che ci auguriamo di poter ancora evitare.



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