lunedì 14 aprile 2025

Quel che resta di Garibaldi



Maurizio Maggiani
Così re Carlo ha risvegliato gli smemorati della repubblica
La Stampa, 14 aprile 2025 

Mi dà uno strizzone allo stomaco ascoltare sua maestà il sovrano del Regno Unito Carlo III raccontare al Parlamento d’Italia riunito in seduta solenne della partigiana Paola, ricordare che è ancora in vita e che ha vissuto combattendo per la libertà del mio Paese, non del suo. Mi sgomenta la certezza che nessuno in quell’augusta assemblea sapesse qualcosa della partigiana Paola, e anche sapendone non gliene fregasse niente di niente. Ma se è per questo io stesso ignoravo l’esistenza di quella combattente, io che vanto un’indefessa fede nella Repubblica nata dalla Resistenza me lo sono dovuto far dire da un re di Paola Del Din, e sono qui a chiedermi come possa essere accaduto questo sprofondo della memoria, intanto che la seconda carica di questa mia Repubblica, un uomo con una storia di sincera e affezionata fede fascista, applaude quel re per costrizione di etichetta, e non mi dà nessun sollievo immaginare quanto la cosa lo infastidisca. Ma quante cose è mai venuto a ricordare quel re a questa Repubblica.

Fratelli miei concittadini, vi ricordate l’alluvione della Romagna di due anni or sono? Lo so che due anni sono tanti, ma provate e qualcosa ricorderete, immagini soprattutto, notizie dalla tivù. Tra queste forse vi è rimasta una qualche traccia della cooperativa dei braccianti di Ravenna? Al re d’Inghilterra sì, e giovedì scorso in visita a Ravenna, ai suoi mosaici e a tutte le altre leccornie romagnole, si è ricordato di quella cooperativa, la più antica cooperativa di lavoro d’Europa, l’Associazione degli Operai Braccianti, fondata nel 1883 da un ragazzo di 21 anni, Nullo Baldini, un socialista. Quella cooperativa vive ancora ed è così viva che nel pieno dell’alluvione ha deciso, letteralmente, di togliersi il pane di bocca, la terra che coltiva, per farla allagare e risparmiare così la città di Ravenna da un inondamento che le sarebbe stato fatale.

Perché la cooperazione non è solo le centomila false, apocrife, sedicenti cooperative che impestano il Paese di lavoro servile, ma l’intento da cui è nata ancora vive. Questo un re lo sa e nella città più repubblicana d’Italia lo ha ricordato. E voi fratelli miei? Davvero vi sentite esentati dal sapere di questa storia di provincia? Davvero non importa sapere, ricordare, e ricordando trarre qualche considerazione, forse lezione, forse la speranzosità che da una buona notizia ne viene? Davvero è di nessuna importanza tenere a mente che questo Paese non ha solo messo al mondo il fascismo, ma anche, e ben prima, il lavoro cooperativo e solidale, capitale e lavoro in una sola mano? Tutto finito, tutto morto, paccottiglia inservibile nel tempo dell’oggi e del domani? Davvero?

Oh, ma il re d’Inghilterra ha raccontato di un sacco di cose nostre, persino, chi l’avrebbe mai potuto immaginare, del Generale Garibaldi. Cosa è rimasto a noi, fratelli repubblicani, di quell’uomo oltre ai monumenti impiastrati di guano di piccione e alle targhe murate nelle vie e nelle piazze che portano il suo nome? La figurina appiccicata sui libri di storia, la stretta di mano di Teano, che il Bandi, lui c’era, giura che non ci fu, l’accoppiata con Cavour, che fu il suo più coerente nemico, il soldatino di stagno dipinto d’oro fasullo messo in commercio dal fascismo per appropriarsi dell’immagine dopo averla svuotata della sua verità. Il re d’Inghilterra agli onorevoli deputati e senatori della Repubblica, che intanto si grattavano guardinghi qua e là cercando di capire cosa stesse dicendo, ha raccontato di quando nel 1864 il Generale fosse evaso dagli arresti domiciliari di Caprera per arrivare a Londra, e di come il suo è ricordato ancora nei, loro, libri di storia come un avvenimento eccezionale. I lavoratori di tutto il Regno Unito smisero le loro occupazioni, l’aristocrazia radicale lasciò le sue dimore per andare a salutare il liberatore dei popoli, paralizzando la capitale. Indispettendo la regina Vittoria, e questo lo ricordo io, che chiese al suo primo ministro cosa avesse mai quell’uomo da meritarsi dal popolo maggiori omaggi di un reale; il ministro rispose che in quel momento il Generale era l’individuo più potente del mondo perché possedeva la rarissima qualità di essere ciò che diceva, diceva ciò che faceva e faceva ciò che era.

Il re ha ricordato i famosi, nel suo regno, biscotti Garibaldi, che sono ancora in commercio nella loro scatola di latta ancor prima di quella leggendaria visita, e io ricordo come nella Premier League militi la squadra del Nottingham Forest, la foresta di Robin Hood, fondata nel 1865, che indossa la casacca rossa in onore di quella garibaldina, infatti la chiamano “the Garibaldi that we wear with pride. Il Generale Garibaldi è un eroe di popolo nel regno di Carlo III, e per noi cos’è rimasto di lui fratelli repubblicani? Nemmeno i biscotti per testimoni. Eppure non è forse ancora quell’uomo che era ciò che diceva, diceva ciò che faceva e faceva ciò che era, un’unicità di cui portare orgogliosa memoria? Esserne testimoni non sarebbe forse un antidoto di una certa efficacia contro l’endemica miseria di limpida onestà, nobile coraggio, incondizionata generosità che ci piace rinfacciare a chi scegliamo infine per gestire, per inghiottire nell’imbuto nero di un potere senza popolo, ciò che rimane della sovranità popolare?

L’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo è qui a un passo. Ci saranno molte celebrazioni, molti cortei, molti discorsi, tutte cose per bene, ci saranno le ormai solite ipocrisie per male, ma ci sarà chi ancora ricorda che si tratta della festa della Nazione e festeggerà come meglio crede, intanto che con dedizione abbiamo ormai raccolto migliaia di tetrabyte di testimonianze di chi non c’è più a testimoniare di persona. Ma questo basta perché la memoria sia davvero ciò che di indispensabile è, l’unica arma che ci è restata perché la Repubblica non sprofondi nella sua negazione? Non so, so solo che la memoria è vita e sono propenso a credere che ci sia più memoria vivente in una scatola di biscotti da aprire ogni mattina a colazione e in una squadra di calcio da appassionarci il sabato, che in tutte le cose belle e buone a cui dedicarci un giorno all’anno. Il fatto è che o appartiene alla nostra vita, è la nostra vita, e siamo ciascuno di noi Resistenza e Liberazione, o è solo roba passata, da ricordare come tutto il resto di ciò che è stato e va bene che resti lì dov’è.

Dopo un autunno senza fine è arrivata ormai insperata primavera, nelle carraie il fango ha preso ad asciugarsi lasciando che i bordi si infittiscano di borragine e tarassaco in fiore, i ciliegi esultano al refolo di settentrione e spandono folate di petali come confetti per il passaggio di una sposa, le vigne s’incoronano di minuscoli gioielli verde smeraldo, i leprotti novelli se ne vanno sbadatamente in cerca della faina che li sta spiando dalla forra di sambuchi che già odorano del loro succo zuccherino, le api impazzano nel gran daffare improvviso e io sono tornato ad andarmene per i campi, a odorare e tastare come tutto ciò che è vita riesce infine a ricominciare, a farlo ancora una volta nonostante tutto.

E non manco mai la mattina di passare su nella collina della Cornacchia, mi fermo all’aia di una vecchia cascina e vedo che porte e finestre sono sbarrate, e allora mi prende una gran nostalgia, mi manca il vecchio Casadei, mi manca da non dire. Di questa stagione lo trovavo ogni santo giorno seduto su una panca alla soglia di casa, il lavoro che poteva ancora fare nel suo campo lo aveva già finito all’alba e se ne stava lì a vegliare sull’universo, lo sguardo un po’ perso sa Iddio dove e appena imbrunito dalla cataratta ancora incerta. Era di un’eleganza fine e aristocratica il vecchio Casadei, il busto morbidamente eretto, la salopetta effigiata da una marca di trattori portata con la noncuranza di un manto regale, e le mani, le mani artrosiche dalle unghie rapprese orlate della polvere della sua terra che nessun sapone e spazzola avrebbe potuto nettarla, che si aprono e si tendono in un arioso gesto di saluto. E la sua voce, un filo inflessa di cadenza romagnola che accompagna il saluto. Pace e giustizia e libertà fratello. Pace e giustizia e libertà, e si sa che salutava chiunque lo incontrasse allo stesso modo. Mi manca da non dire quel saluto, mi manca il testimone della pura fede repubblicana, il lindore della sua fede, la dignità di quella fede controtempo. Era stato un giovanissimo combattente della brigata Pensiero e Azione, un ardente mazziniano della rivoluzione antifascista, e salutava me e il mondo offrendoci in quelle tre parole tutta la sua vivente memoria.

Pace e giustizia e libertà fratelli miei, e non ditemi che è possibile un altro modo per augurarci la primavera.

https://machiave.blogspot.com/2025/04/un-re-antifascista.html


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