Martina Vivani intervista Alberto Melloni
Lumsa News, 23 aprile 2023
Alberto Melloni, professore ordinario di Storia del cristianesimo nell’Università di Modena-Reggio Emilia, in un’intervista rilasciata a Lumsanews, ripercorre il primo decennio di pontificato di Papa Francesco, analizzando il pensiero e le azioni del Pontefice.
Bergoglio può essere considerato un Papa rivoluzionario?
“Papa rivoluzionario è una definizione che a me sembra un po’ semplice. In occidente si è talmente disabituati a un cristianesimo radicale che il cristianesimo di Bergoglio non lo si riesce a definire tale, e bisogna dunque trovare un altro aggettivo. Più che un rivoluzionario è un cristiano ed è un uomo risoluto. Non ha paura delle cose che fa e sa cambiare direzione senza farsi notare troppo”.
Tra le questioni prioritarie vi è il ruolo dei laici nella Curia. La riforma della Curia come può integrare nel governo della Chiesa laici, donne e religiosi e religiose, senza sconvolgere la sua struttura gerarchica, ma attualizzandola?
“La Curia romana è un’istituzione mai toccata fino al 1908, poi dalla riforma di Pio X tutti i pontefici l’hanno rimaneggiata, con risultati molto effimeri. Secondo me l’aspetto più qualificante della riforma di Francesco, e anche il più inquietante, non è tanto la ridislocazione di mansioni ma è l’argomento con cui si è voluta creare la possibilità di nominare in Curia delle persone non consacrate vescovi. Per fare ciò Francesco ha restaurato la distinzione tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione. Tuttavia, in questo modo ha diffuso una visione diversa dell’episcopato, secondo me molto più debole di quella del Concilio. Non serve a dire che abbia scelto dei consiglieri non particolarmente avveduti o conciliari, ma vuol dire che probabilmente il problema della riforma non è organizzativo”.
A seguito di questa riforma, hanno ragione coloro che lo accusano di aver accentrato eccessivamente i poteri su di sé?
“C’ è una cosa che mi ha fatto impressione. Nella bolla di costituzione della Curia romana del 1588 di Sisto V, il Romano pontefice è citato una dozzina di volte, in quella di Papa Francesco un centinaio di volte. Corrisponde perfettamente al meccanismo di governo della Compagnia di Gesù, per cui tutti ascoltano tutti e poi decide uno solo. Lo abbiamo imparato in questi 10 anni: i due papi non erano Benedetto e Francesco ma Francesco e Francesco. C’è un Francesco dal pulpito, che fa risuonare la parola biblica con una forza unica e diretta. E c’è il Francesco di governo, un gesuita di una verticalità assoluta che non solo non ha paura di prendere decisioni, ma non ha paura di castigare e di fare quello che vuole senza consultare nessuno”.
In merito alla guerra in Ucraina, si è detto aperto a incontrare i presidenti di tutti e due i Paesi coinvolti. Considerate le spinte ideologiche molto forti da entrambe le parti, in che modo Bergoglio sta cercando un punto di equilibrio in merito al conflitto?
"Quando la Russia ha invaso l’Ucraina l’idea del Papa è stata quella di rifiutare il principio per cui l’unica parola che non si potesse dire fosse la parola pace. Secondo me, coraggiosamente, in questo non arretra di un millimetro. E paradossalmente è più allineato alle Nazioni Unite e Israele di quanto non lo siano i Paesi occidentali”.
Quanto sono politiche le azioni e le dichiarazioni del Papa?
"Di sicuro il suo è un papato nel quale non c’è paura di risultare autoritario. Francesco dà un messaggio politico: rappresenta una forma di verticalità del potere rispetto alla quale la sinodalità viene molto lodata ma non si vede quando entra in funzione. Un messaggio politico oggettivo è rappresentato anche dalla sua origine: primo uomo del sud del mondo che arriva al vertice di una struttura di potere tipica del nord del mondo. Lo si vede nel modo in cui guarda la politica italiana: dei vescovi italiani non ha particolare affetto, lo stesso vale per la politica”.
Alberto Melloni
Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII
ISPI, 21 aprile 2025
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Antonio Spadaro S.J.
già direttore della Civiltà Cattolica (2011-2023)
Papa Francesco, un pontificato nel segno di Ignazio
la Repubblica, 22 aprile 2025
La fiamma è forse l’immagine che meglio rende il senso dell’ispirazione di Francesco. «Noi gesuiti – ha scritto padre Jorge Mario Bergoglio da giovane – sappiamo bene che il fuoco della maggior gloria di Dio ci pervade avvolgendoci in una fiamma interiore, che ci concentra e ci espande, ci ingrandisce e ci rimpicciolisce».
A volte il suo stesso corpo, quando poteva, viveva una torsione che lo faceva tendere, estroflettere, davanti a quello che per lui è sempre stato «il popolo di Dio in cammino». Per questo Francesco si è impastato nella storia, nelle vicende del mondo, vi si è torto, infiammandosi, a volte facendo disperare chi tendeva a normalizzarlo. C’è una fiamma che lo ha sempre mosso dall’interno: la «pace dell’inquietudine», che è l’ossimoro per eccellenza dei gesuiti, frutto del «discernimento».
Questa è la password ignaziana, che significa cogliere interiormente la voce di Dio, riconoscere per istinto la sua presenza nel mondo, anche lì dove tutto ci dice che dovrebbe essere altrove. È tipicamente gesuitico non considerare nulla di ciò che è umano come alieno dal divino: «Cercare e trovare Dio in tutte le cose» era il motto di sant’Ignazio. Questo ha reso Francesco aperto, curioso, dialettico.
E così Francesco non ha aperto, ma spalancato le porte della Chiesa a todos, todos, todos. Non perché la gente restasse dentro, come lui più volte ha detto, ma perché il Signore fosse in grado di uscire, andando per strada. E la strada – altra immagine fortemente gesuitica e dello stesso Ignazio, che si definì “il pellegrino” – per Bergoglio è stata sempre accidentata. Non ha mai contemplato strade appianate. Per lui meglio cadere e pure ferirsi piuttosto che starsene fermi al riparo a balconear, a guardare la vita dal balcone. In questo senso ha sempre avuto una visione “apostolica” e non semplicemente “pastorale”.
Il gesuita sa che il suo compito non è quello di pascolare il gregge, tosare le pecore e pettinarle, ma quello di andare alla ricerca della pecora perduta. Con la realistica precisazione bergogliana che ormai nel recinto c’è rimasta una pecora, mentre sembra che le altre novantanove se ne siano uscite. La sua, dunque, è sempre stata una Chiesa in uscita.
Per questo ha predicato una Chiesa inclusiva; per questo si è estroflesso comunicativamente con giornalisti di testate laiche più che con quelle religiose; per questo ha desiderato parlare con chiunque, anche con persone e leader che altri hanno sempre tenuto distanti. Politici e religiosi: da Min Aung Hlaing, capo dell’esercito del Myanmar, responsabile delle operazioni contro i suoi amati rohingya, al patriarca russo Kirill, al quale non ha risparmiato dure critiche ma al quale ha sempre tenuta aperta la porta.
Per questo Bergoglio ha postulato un pensiero aperto e «incompleto». Bisogna uscire dagli schemi (Yalta per lui era uno di questi), dai ragionamenti logici stringenti. Occorre debordar, uscire dai bordi, “debordare”, spinti dalla genialità dello spirito e non dal rigore dell’idea. Da giovane gesuita scrisse che non dobbiamo guardare la storia «con un distacco scientifico improntato a curiosità per le cose accadute, o desideroso d’imporre un’ideologia predefinita». Parlava della storia dei gesuiti, ma lo stesso vale per la storia in generale.
Francesco non ha mai voluto fare piani quinquennali ispirati da idee o ideologie, né cedere a utopie. Si è impegnato anche dal punto di vista organizzativo, certo, ma sempre pronto all’improvvisazione perché spinto dalla sua preghiera e dalla «consolazione», cioè dalla percezione della volontà di Dio che dà pace all’anima. Come quando, ad esempio, si chinò per baciare le scarpe dei leader del Sud Sudan giunti in Vaticano per tentare la pace. Mi disse che, appena entrò nella stanza dove si trovavano, sentì una spinta interiore fortissima a farlo. È solamente un esempio, ma molto indicativo di un modo di agire.
Il suo modello era Pietro Favre, uno dei primi compagni di Ignazio di Loyola che era rimasto beato per secoli e che Bergoglio ha fatto santo. Era molto amato da Michel de Certeau, un grande gesuita a suo modo “anomalo”.
L’anomalia è stata un’altra forma della gesuiticità di Francesco. Il suo rapporto con l’ordine in passato è stato complicato, anomalo. I suoi scritti, che sostanzialmente dicono quanto andava dicendo il suo pontificato, sono persino stati bruciati in falò. La sua cifra pastorale è stata fraintesa o osteggiata. Si deve alla sapienza di un padre generale quale Adolfo Nicolás la riconnessione profonda dei fili tra Bergoglio e il suo ordine. E in questo La Civiltà Cattolica per vari anni ha svolto un ruolo chiaro. Durante la Congregazione generale dell’ordine, dopo le dimissioni di Nicolás, è apparso un certo spiazzamento dell’ordine davanti alla profezia bergogliana, ma anche il desiderio di cercare una postura corretta, secondo lo spirito delle sue Costituzioni. Bergoglio è sempre rimasto, in un modo o nell’altro, una patata bollente. E lui non ha mai perso l’occasione di dichiararsi figlio della Compagnia di Gesù, e di curare un dialogo profondo con i gesuiti che ha avuto una singolare espressione in conversazioni private durante i viaggi apostolici. La loro trascrizione – che il papa mi ha permesso di volta in volta – compone una sorta di backstage del pontificato.
La strada di Francesco è stata anche il mondo intero. Francesco lo ha girato in lungo e in largo, lui che non ha mai amato viaggiare. Ma ha sentito che doveva farlo, sì, per confermare la fede del popolo cattolico, ma anche per toccare le ferite aperte di questo mondo. Basti pensare a Repubblica Centrafricana e Iraq, per fare solamente due esempi. Non si tocca col pensiero, ma con la mano.
La Chiesa è «ospedale da campo dopo una battaglia», mi disse nella prima intervista che gli feci nel 2013, ad appena tre mesi dalla sua elezione. Come una madre non va a trovare i suoi figli in una «cassa di vetro», imponendosi quando lo si voleva obbligare in una papamobile tutta chiusa o addirittura blindata. Ha viaggiato da gesuita, che proverbialmente considera il biglietto dell’aereo o del treno come la vera chiave di casa.
Sempre da giovane, Bergoglio scrisse che lo sguardo del gesuita «percorre cortili scorgendo praterie, guarda frammenti ma contempla forme». Dal suo piccolo studio di Santa Marta ha avuto l’orizzonte del mondo e da lì ha sempre osservato i frammenti connettendoli in modo da capire le forme, come nel caso della «guerra mondiale a pezzi», già amaramente profetizzata nel 2014. Ha sempre detestato il termine «geopolitica» che gli richiamava il Risiko, ma ha sempre amato la «diplomazia». E lui aggiungeva: «delle ginocchia». Perché riteneva il dialogo politico (e soprattutto quello multilaterale) necessario e, per un credente, una sorta di luogo sacro di preghiera e contemplazione. E in questo era mosso dal motto gesuitico contemplativus in actione. Questo è stato papa Francesco, infatti, un contemplativo nell’azione.
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