Navigando su Internet scopro che Liberato Messano ha messo in rete la riproduzione di una rivista che era stata pubblicata a metà degli anni Sessanta ad Agropoli da un gruppo di giovani universitari, Alèteia. Nel secondo numero di questo periodico dalla vita breve Gerardo Spira si era occupato di canti cilentani. Aveva anche fornito alcuni elementi utili per un inquadramento storico dei brani da lui presentati a titolo di esempio. Spiegava che l'origine della canzone cilentana andava individuata nello strambotto, una ottava in genere, sei o otto versi endecasillabi rimati alternativamente (AB, AB, AB, AB). L'accompagnamento musicale previsto era affidato a a una chitarra battente, un violino e una mandola, accordati sui due toni: re maggiore e la minore. Quanto alla lingua utilizzata si trattava secondo lui di un idioma misto, in parte dialetto locale, in parte italiano nazionale. C'era anche una modalità di esecuzione: "Chi innalzava la cantata da solo intonava tutto il primo e il secondo verso, poi col coro si ripeteva l'ultima parola del primo verso e tutto il secondo". La presenza del concertino si addice particolarmente al canto in forma di serenata. Ce n'erano anche di altro genere, ma non per questo le precisazioni in proposito perdono di interesse. Nel caso della serenata, allora si trattava di un testo composto dall'innamorato, con una replica possibile da parte della bella destinataria. In un caso la serenata a dispetto si rivolgeva alla madre di lei in termini aspri e vendicativi. Qui interveniva anche il ricorso al bacio come modo per guastare la reputazione della ragazza:
O faccia re na mèrula arraggiata
mi vuoi rare a figlita, che dici?
E si nun me la vuò rà io te la vaso
e doppo vasata che ne facite?
Tu la corte vai e io la corte traso
cu li rinari miei accordo l'amici,
Tu te ne vai cu figlita vasata
io me ne vavu contentu e felice.
Da notare il passaggio dalla d latina alla r, da una consonante dentale a una liquida (vibrante) con un leggero spostamento della lingua nella bocca; rare, rà stanno per dare e dà. Anche dinari (denari) si converte in rinari. Mèrula è il merlo. Arraggiata vale arrabbiata. Figlita è composta dalla parola figlia seguita dal possessivo tua (ta). Vaso, vasata anche in napoletano sostituiscono bacio e baciata. Traso (da trasire) significa entro.
O faccia di merlo arrabbiato
mi vuoi dare tua figlia, che dici?
E se non me la vuoi dare io te la bacio
e dopo baciate cosa fate?
Tu in cortile vai e io in cortile entro
con i miei soldi tengo buoni gli amici.
Tu te ne vai con tua figlia baciata
io me ne vado contento e felice.
E' frequente nei canti il richiamo alla natura, al cielo, al sole e alla luna.
Vogliu parà nu lazzo a ciel sereno
pe 'ncappà li stelle a una a una;
la prima sera ca 'nge lu parai
pe male sciorta 'nge 'ncappai la luna,
poi ,nge ncappai la stella riana
Appriesse se se ne vener' a una a una;
poi 'nge 'ncappai a nenna mia r'amore
o Dio re lu cielu che fortuna.
Voglio lanciare un laccio a ciel sereno
per afferrare le stelle ad una ad una
la prima sera che lo lanciai
per mala sorte ci afferrai la luna,
poi ci afferrai la Stella Diana [Venere, la stella del mattino]
Dietro di lei se ne vennero ad una ad una,
poi ci afferrai la bimba mia d'amore
o dio del cielo che fortuna.
Il sole, la luna e le stelle appartengono tra l'altro al repertorio degli inni religiosi. "Tu scendi dalle stelle" (canto natalizio), "Bella tu sei qual sole, / bianca più della luna, / e le stelle, le stelle le più belle / non son belle al pari di te" (inno mariano).
Quanno nascisti tu bella figliola
di grazie e di bellezza ti aspettavo
Nascisti ind'a li rose e ind'a fiuri
lu sole voleva uscir e si vergognava,
la luna si fermò un quarto d'ora
ri caminar con lei non si firava
Quanta fece bella la tua gnora
brunetta, sapurita dolce e cara.
Quando nascesti tu bella figliola
di grazia e di bellezza ti aspettavo
Nascesti tra le rose e tra i fiori
il sole voleva uscire e si vergognava,
la luna si fermò un quarto d'ora
di camminare con lei non si sentiva
Quanto ti fece bella la tua dama
brunetta, saporita dolce e cara.
Anche tra i canti della raccolta torchiarese (Torchiara. Canti e tradizioni, a cura di Silvana Pepe e Giovanni Pico, Salerno, Tipografia Europa 1978), c'è un omaggio alla fanciulla amata che chiama in causa la luna e il sole:
Iddio nun ti putia cchiù bella fari
e tu ca ruormi cu su cor cuntento
La luna è bianca e vui brunetta siti
quella ha l'argento e vui l'oro purtati
La luna nun ha fiamme e vui l'aviti
quella s'ecclissa e vui nun v'ecclissate
Ordunque se la luna voi vincete
Il sole non la luna vi chiamate.
Torniamo all'articolo di Gerardo Spira. Un altro modo per esaltare la bellezza della donna amata consiste nel moltiplicare i riferimenti possibili e anche, alla fine, i baci a lei spediti.
Ti voglio tanto bene bene nenna mia
quanti parole se scriveno l'anno,
pe quanti cristiani ce sò a la fera
e quanti ne sò nati e nasceranno,
pe quanti fiuri caccia primavera
e quanti uccelli [aucielli] rormene 'n campapagna
pe quanti lumi ardeno la sera
tanti vasi nenna mia te manno.
Ti voglio tanto bene bimba mia
per quante parole si scrivono all'anno,
per quanta gente c'è alla fiera,
e quanti sono nati e nasceranno,
per quanti fiori genera la primavera
e quanti uccelli dormono in campagna
per quanti lumi ardono la sera
tanti baci bimba mia ti mando.
Ci sono infine i lamenti, lo sdegno e le commiserazioni. Qui forse si può immaginare una scena diversa dal balcone o dalla finestra della donna amata. Questi sembrano se mai canti da intonare in piazza, la sera, o a un angolo di strada stando tra amici.
Nu iuorno, nenna mia mentre scrivevo
l'alma dal petto mio si distaccava,
io davo na pennata e pò piangevo
la carta colle lacrime abbagnava,
il braccio a poco poco discendeva
la penna dalle mani mi cascava;
e pensa, bella mia, che pena aveo
pensavo a toia bellezza e lacrimavo.
Sopra lu sdegnu io starò sdegnato
ca nun te pozzo proprio reverere,
si te veressi ra li cani mangià
pure lu cane mio t'aggrissaria,
lu miereco te pozza urdenare
la sputazzella mia per medicina,
voless sta cient'anni a lu spetale
apposta bella pe te fa murire.
Sullo sdegno mio sarò sdegnato
perché proprio non ti posso rivedere,
se ti vedessi mangiata dai cani
ti scaglierei contro anche il mio cane,
che il medico ti possa ordinare
il mio sputo come medicina,
vorrei stare cento anni in ospedale
apposta, bella, per farti morire.
Se ne viddi la fortuna a mari
sopra nu nero scoglio che piangeva,
e tantu lu piangere e lacrimare
che anche li pisci sospirar facea,
ietti io pe l'addommannare
invece di rispondere più piangeva,
poi si vutau cu nu piantu amari
sei nato sfortunato mi diceva.
Mi toccò vedere al mare la fortuna
che piangeva sopra un nero scoglio
e tanto il piangere e il lacrimare
da far sospirare anche i pesci,
andai a interrogarla
e invece di rispondere piangeva ancora di più,
poi si voltò con un pianto amaro:
Sei nato sfortunato, mi diceva.
Terra triste il Cilento, dove non tutti i salmi finiscono in gloria. La rabbia come l'amore si intreccia con l'esistenza materiale, con la presenza degli animali, con i pesci, con il cane, con gli umori del corpo, con lo sputo addirittura. Forse la poesia non arriva a prendere il volo appesantita da tanta concretezza. Ma certo l'universo quotidiano del contadino e del pescatore si mescola all'espressione dei sentimenti. Dal sole e dalle stelle fino alla terra, allo scoglio del mare, ai pesci e al cane feroce.
https://machiave.blogspot.com/2024/11/canti-cilentani.html
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