Adriano Agostino, Parigi
Quaderno Cipec n. 75, 1° semestre 2026
Quaderni nati nel 1995 e curati da Sergio Dalmasso
... Per il giorno dopo ho detto che sarei stato impegnato e non avremmo potuto
vederci, io volevo andare al Louvre da solo e vedere in santa pace quello che mi
piaceva, non mi sembravano tanto competenti.
Ho fatto colazione, poi mi sono pentito di non avere preso qualche brioche in più,
dentro al museo non c'erano luoghi di svago, può darsi che oggi ci sia qualche bar
caffetteria aperto.
Sono stato uno dei primi visitatori, il biglietto non era una spesa esorbitante, me lo
ricorderei. Subito ho incontrato Nike (pronuncia “niche”) e non è una parola
americana, poi sono sceso, mi sono ritrovato vis-a-vis con la più bella statua
esistente, avevo di fronte la Venere di Milo. Credo di avere passato lì almeno
un'ora. Poi ho trovato “La Gioconda”. Era sistemata in un corridoio, senza
particolari accorgimenti antifurto o danneggiamenti. Mi ricordo anche la passatoia,
davanti al quadro più famoso mancava un semicerchio.
In seguito ho visto gli impressionisti, tutti belli, inutile fare un elenco, anche in
queste sale ho perso un'infinità di tempo. Perso per dire che sono rimasto in
contemplazione, la prossima volta vengo il primo giorno e possibilmente ritorno.
L'arte è arte. Proseguendo ho trovato la pittura del secolo precedente, con quadri
molto grandi (impossibile da rubare) in un angolo sono stato attratto da un
gruppetto di ragazzi che dipingevano (copiavano) quadri di piccola dimensione, ho
dato un'occhiata, erano perfetti, non voglio dire che erano più belli di quelli appesi,
ma erano somigliantissimi.
Erano in cinque, due ragazze e tre ragazzi, forse avevano la mia età, ma in quel
preciso momento avevano in mano dei panini (oggi direi baguette), in terra c'era un
fiasco, sicuramente vino, mi sono fermato a guardarli, per dire la verità non
m'interessavano più i quadri, ma mi è tornato in mente che non avevo mangiato
niente dalla mattina presto, all'improvviso mi rodeva la pancia, forse lo stomaco,
quasi vedevo la fame.
Un ragazzo se n'è accorto, dovevo avere la faccia stralunata, mi ha rivolto la
parola, ha detto qualcosa che non ho capito, ma accennava ai panini.
Non ero proprio sicuro, comunque ho detto grazie. Hanno capito subito che sono
straniero. Il giovanotto ha aggiunto in inglese di dove sono.
Ho risposto in francese che sono italiano.
Tutta un'altra cosa, hanno trovato immediatamente un seggiolino per me, mi hanno
fatto sedere accanto a loro, una ragazza, la più vicina, ha preparato un bel panino
con salame e formaggio, l'ha fasciato in un tovagliolo di carta prima di porgermelo,
quelli che stavano mangiando loro non avevano tovagliolino. Ho iniziato a mangiare, mi stavano guardando tutti, tra un morso e l'altro ho detto
come mi chiamo e che vengo da Genova. La conoscevano tutti, mi hanno anche
citato posti famosi della nostra Liguria.
La ragazza al mio fianco mi ha dato un bicchiere di vino, l'ho guardata, ha un bel
viso, un fazzoletto in testa annodato dietro, una giacca da uomo e pantaloni
pesanti, certo poco femminili, si è accorta che controllavo l'abbigliamento, mi ha
detto che sono per il lavoro. Ero in imbarazzo, mi stava passando la fame e tornavo
ad essere più “educato” possibile.
Ho finito di mangiare, rifiutato un altro panino, raccontato che sono in ferie e che
avevo scelto Parigi come prima meta.
Loro mi hanno detto di essere studenti di un istituto artistico.
Durante la conversazione hanno iniziato a raccogliere la mercanzia, era l'ora di
chiusura, il tempo è volato, a deporre le tele, colori, tavolozze, volevo partecipare,
ma non sono riuscito a racchiudere la seggiolina, solito imbranato, dove ero stato
seduto, mi ha aiutato Fanny, (non ho trovato abbinamento ad un nome italiano) con
due, tre mosse l'ha richiusa, infilata in uno zaino.
Ci avviamo verso l'uscita, Fanny è in difficoltà col bagaglio, lo prendo io, non è
così pesante, però non riesco a metterlo sulla schiena, lei allarga le cinghie tutto a
posto.
Siamo fuori, è già scuro. Non ci sono saluti, attraversiamo in massa la strada, dopo
cinque minuti arriviamo dove ci sono macchine parcheggiate, con gesti veloci e
parlate sottovoce prendono posto. Io avrei voluto salutarli, mi dicono «Après». Sul
marciapiedi siamo rimasti io e Fanny, lei mi sembra delusa.
A dire il vero mi stava pesando lo zaino, suggerisco di prendere un taxi fino a casa
sua, poi proseguo verso l'albergo.
Non era quello il piano.
«Ho la motocicletta» indica poco più avanti un sidecar, a quei tempi numerosi
anche da noi. Mi fa segno con la testa di avvicinarci. Mi aiuta a togliere lo zaino e
lo depone nel sidecar, però tira fuori una sciarpa e un berretto di lana che mi
consegna, «Fa freddo» mi dice. «E tu?»
«Mi basta questa».
Mi fa sedere, con una pedalata mette in moto, prende posto.
«Tieniti forte».
L'abbraccio, non stretto, per evitare il vento avrei voluto appoggiare la testa sulla
sua schiena, mi sono astenuto.
Per strada pochissime macchine e persone, arriviamo in cinque minuti, lei ha
guidato come si deve. Si stanno avvicinando gli altri, biascicano qualcosa per me
incomprensibile, Fanny abbassa la testa, l'altra ragazza sorridendo porge la mano e
mi dice «A domani». Ci abbandonano.
Avrei voluto dire «Domani a quest'ora sono a Genova».
«Vieni, andiamo a casa».
La questione mi attirava molto, comunque non avevo ancora capito dove andavano
a parare, non era certamente un'idea di Fanny, sopportava tutto controvoglia.
Almeno così mi era sembrato. L'appartamento si presenta bene, ingresso, una saletta, la cucina abitabile, il bagno
senza vasca e senza bidet, (allora non me n'ero accorto) ma con la doccia, la stanza
per dormire con un letto grande.
«Vuoi mangiare qualcosa?»
«Mi dispiace disturbare, t'invito al ristorante».
«Nessun disturbo, andiamo in cucina».
Era tutto in ordine, sicuramente come rimasto dalla sera precedente.
«Faccio io, una cosa veloce. Hai degli spaghetti?»
«Sì, ma non ho da fare il brodo».
«Prendi due etti, guarda se trovi del pane secco grattugiato».
Ho trovato una pentola, fin troppo grande, messa l'acqua e sul fuoco, c'era una
padella, trovato l'aglio, ho fatto uno spicchio a pezzettini, l'olio non era della
Riviera ligure, ma di semi vari.
Buttata la pasta e il sale, non sapevo come si chiamasse il colino, però ci siamo
capiti, non c'era scritto il tempo di cottura, ho assaggiato uno spaghetto, andava
bene e allora scolata la pasta, buttata in padella con l'olio e l'aglio, rimescolato tutto
poi coperto di pane abbrustolito.
Fanny ha assistito alle operazioni col viso poco speranzoso, ho diviso in due piatti
fondi, era tantissima, questa volta le scappa un sorriso se non una risata. Ha detto
qualcosa, forse un modo di dire, non ho capito bene, nel senso che troppo è meglio
di poco.
La tavola era apparecchiata, con posate, bicchieri, pane, formaggio, prosciutto e un
fiasco di vino.
Non male per una cenetta.
Non ci crederete, ma abbiamo mangiato tutta la pasta, abbiamo anche bevuto, non
molto, ci siamo fatti tante risate.
Fanny ha i capelli corti sul biondo, gli occhi chiari, un viso simpatico, però io sono
rimasto indietro, c'era qualcosa che non quadrava, l'ultima volta a casa (a Genova)
ci siamo trovati più vicino, prima che arrivasse la mamma, ora non c'è nessun
impedimento, ma sono impacciato, in soggezione.
Lei mi prende una mano, sorride, mi dice «Hai capito?»
Io invece non ho capito, cosa c'era da capire. Faccio finta di niente.
«Io sono fidanzata».
«Moi aussi». (Anch'io).
La pronta risposta l'ha disorientata.
«Sono fidanzata con Marie Laure …»
Ne avevo sentito parlare come una faccenda lontanissima, non sapevo come
affrontare la questione, ho balbettato «La mia si chiama Angela».
Ha pensato un attimo, poi ha riso, tenendosi una mano sulla bocca, ridevano gli
occhi, era una ragazza bellissima, con coraggio, disinvoltura e delicatezza ho tolto
la mano, le ho dato un bacio, non da innamorato, non l'ha rifiutato e non ha spento
il sorriso.
16
Mi sono alzato.«Vado a casa». Sarei rimasto volentieri ancora un mesetto.
«Ti accompagno, difficile trovare un taxi a quest'ora». Da non ribattere.
Alla mattina, non troppo presto, ho preso il treno, il biglietto l'avevo già. Nello
scompartimento c'è una signora giovane con un bimbo di 5-6 anni e un altro
signore che è sceso dopo un'ora.
Ho giocato col bambino, rideva, era contento. Quando è arrivata l'ora di mangiare,
ha rifiutato, voleva giocare, la mamma ha dato un panino anche a me, ho preso in
braccio il piccolo e allora ha mangiato tutto.
A Lyon c'erano parecchi treni fermi in stazione con migliaia di passeggeri, erano
in attesa della nuova galleria per risparmiare 15 minuti di tempo in confronto col
nostro treno, credo che siano ancora lì.
Siamo arrivati a Grenoble, si è svuotato il treno. La signora ha messo in ordine il
figlio, vedendo che non mi muovo, ha chiesto «Tu non scendi?»
«No, vado in Italia».
«Così giovane vai già all'estero?»
«Signora, io sono italiano!»
Non ci credeva, mi aveva scambiato per franco-algerino, dall'abbronzatura, dalla
pronuncia.
Nuovamente a Parigi nel 1973, ritornato al Louvre, fatta la stessa strada, la
Gioconda aveva cambiato posizione, ritrovato la sala del secolo diciottesimo, gli
stessi grandissimi quadri c'erano, nell'angolo non c'era nessuno che dipingeva. Ero
con mia moglie, comunque m'aspettavo di intravedere Fanny, effettivamente l'ho
vista col pensiero, era bella, era irraggiungibile.
Sono trascorsi 64 anni. Sto scrivendo, Fanny mi sorride.
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