Giulia Corsalini
Il primo best-seller del dopoguerra: Il prete bello di Parise
Domani; Finzioni, 7 aprile 2025
Della figlia non si sarebbe potuto indovinare l’età: era uno di quegli esseri indefinibili, sospesi nel tempo, in un secolo che non è di tutti, ma di loro esclusiva proprietà: una specie di limbo terrestre, in cui il passare degli anni, la città dove vivono e i cambiamenti di temperatura sembrano non incidere sull’aspetto loro.
Poche righe, il ritratto di una delle tante signorine che affollano Il prete bello, la Walenska, povera creatura senza età che vive con la madre nel caseggiato in cui si svolge la gran parte del romanzo. Una descrizione che, come tante altre nel libro, presa a sé, fa pensare a un registro diverso rispetto al modello comico e picaresco a cui soprattutto sembra potersi riferire il romanzo (fu Prezzolini per primo a paragonare Il prete bello al Lazarillo de Tormes e Raboni lo ha definito, nella Postfazione all’edizione Mondadori, «uno dei pochi romanzi picareschi veramente credibili del nostro dopoguerra»).
Per ognuna delle signorine che si contendono l’amore dell’attraente don Gastone, per la prostituta che sola lo conquista, per i ragazzini poveri, ladruncoli, che approfittano delle beghe che ne nascono nel palazzo per ottenerne dei piccoli guadagni, per i famigliari di Sergio, il piccolo narratore, non mancano in realtà descrizioni di questo tipo, nelle quali la parola, sottratta al fervore narrativo e al vivace realismo delle scene, si piega attraverso la cura stilistica alla compassione per gli esseri.
Scorsi a malapena la mamma, il nonno e i parenti che si trovavano in un angolo della sala, tutti uniti, e formavano un gruppetto oscuro che batteva le mani freneticamente e il cui entusiasmo si perdeva nella semioscurità di quell’angolo e nella modestia dei cuori. Ne rimangono esclusi in pochi, primo fra tutti Don Gastone, per il quale l’autore non mostra alcuna comprensione, né reale interesse, e che in tutto il libro è relegato al ruolo di motore di piccole vicende senza importanza, mentre la vita si svolge al di sopra di lui.
Chi invece più di tutti ne è investito, il vero eroe della storia, sembra essere in realtà l’amico del giovane narratore Sergio, il ladruncolo Cena, rifiuto di riformatorio, ladro e miserabile a dodici anni, seguito fino alla fine da uno sguardo attento, al tempo stesso ammirato e intriso di pietà.
Il picaresco e l’elegiaco
C’è dunque un doppio registro nel Prete bello, il picaresco e l’elegiaco, ed è sulla loro relazione e apparente opposizione che poggiano, mi pare, il piacere che si prova ancora a leggere il libro e l’interesse che suscita. Rientrano nel picaresco (genere ormai raramente frequentato in letteratura, credo per una incapacità tutta nostra di abbandonarci all’ebbrezza della narrazione), il basso e il comico del mondo degli adulti, un mondo meschino di signorine bigotte e uomini balordamente fascisti, così come vengono visti e presi per il naso dal gruppo dei piccoli ladruncoli; soprattutto rientra nel picaresco la narrazione autobiografica delle avventure spericolate che i ragazzini, attraversando quel mondo, vivono e inventano.
Rinvia all’elegiaco la sostanza umana di fatica e miseria che c’è dietro a quel mondo, e che è anche memoriale: «L’autore ha trascorso l’infanzia di cortile in cortile, di vicolo in vicolo, con piccoli mendicanti, figli di ladri, di prostitute, di povera gente» si leggeva nel risvolto di copertina della prima edizione Garzanti. Ma proprio l’interazione tra questi due aspetti che sembrerebbero distanti e discordanti ricompone l’unità del testo. Perché se il picaresco, almeno nelle sue esperienze originarie, ricostruisce, attraverso una narrazione retrospettiva ed episodica, le vicende rocambolesche di giovani senza orizzonti, il genere permette la destrutturazione di una trama solida.
Così è anche per Il prete bello, dove l’evolversi delle vicende non ha una vera consequenzialità se non in un vago succedersi delle stagioni e nel precipitare finale del dramma; la struttura ingombrante della commedia di costume si disfa in qualcosa di molto più indeterminato e sfuggente e, mentre si fa inconsistente quello che doveva esserne il fulcro e garantirne l’unità, il prete bello su cui tutto sembrava dover ruotare, viene in primo piano la storia dei ragazzini nella loro sbandata vitalità.
«Perché se c’è qualcosa che davvero ci innamora di continuo, nella struttura narrativa del Prete bello, è proprio questo fluttuare apparentemente casuale, eternamente scisso tra varie possibilità sospese», ha scritto Giordano Meacci nel numero monografico di «Nuovi argomenti» su Parise. Per questo quella realtà che la commedia avrebbe potuto cristallizzare in situazioni comiche e tipi diventa invece un materiale sfuggente e ancora oggi vivo, in cui interagiscono il gusto per l’avventuroso e il satirico (applicato soprattutto al fascismo) con il senso doloroso e l’incanto di un’infanzia miserabile e perduta: Erano davvero scimmie: le loro grida sembravano strida e squittii, la loro agilità era straordinaria e le case intorno, le antiche finestre inferriate al piano rialzato erano per loro alberi, banane e liane a cui appendersi. Ma a differenza delle scimmie avevano occhi profondi e malinconici anche se astuti, abiti addosso anche se a brandelli, sentimenti in cuore anche se questi cedevano più spesso il posto alla fame eterna…
Talento umano
Il prete bello uscì nel 1954 presso Garzanti, più volte riedito dalla stessa casa editrice, poi da Einaudi e da Mondadori, nel 2010 è stato ripubblicato da Adelphi, che ora lo ripropone, documentando la continuità di un interesse che fu agli inizi vero e proprio successo: Il prete bello fu il primo best seller del dopoguerra.
Quando lo scrisse Parise aveva ventiquattro anni, si era da poco trasferito a Milano, aveva bisogno, come ricorda, di distrarsi dalla malinconia della solitudine scrivendo un romanzo che lo riportasse all’estate. Il primo dei Sillabari uscirà diciotto anni dopo, nel 1972, il secondo nel 1982.
Può non essere utile cercare di capire che cosa resterà nello scrittore maturo di questa esperienza giovanile; la storia della maturazione di uno scrittore interessa lo studioso più che il lettore. Ma in questo caso, riflettere sul Prete bello alla luce dei Sillabari può aiutare a cogliere nel testo la qualità di una direzione personale e di una vocazione artistica fin da subito ben delineate, in sostanza può aiutarci ad apprezzare il libro.
Si tratta innanzi tutto di stile, ma, come sempre quando si tratta di stile e non di formalismi, ha a che fare con l’umano. Ha scritto Raffaele La Capria in un articolo del «Corriere della sera» del 12 agosto 2015: «In un suo racconto Čechov scrive che esistono talenti letterari, drammatici, artistici, ma egli preferisce un particolare talento, il talento umano [...] Mi ricordo che anche Goffredo Parise mi diceva che lui più che al talento letterario dava la preferenza al talento umano, e che cosa sia poi questo talento umano non è facile dire, ma certo esso nasce da una grande comprensione della sofferenza dell'altro, una comprensione fatta di pietà e immedesimazione, che ha un carattere conoscitivo».
Sembra strano che un autore come Parise, tra i più attenti al letterario, lo posponga in modo così esplicito all’umano, come se fossero separabili; ma, appunto, quel suo talento per la scrittura è stato fin dall’inizio un tentativo di comprendere gli uomini.
La scrittura e gli altri
Il processo, da Il prete bello a I Sillabari, è stato un processo di rarefazione di una medesima sostanza e delle strategie per ridurla alla leggerezza, e quello che nel romanzo giovanile sembrava entusiasmo per le possibilità della scrittura, anche nella sua vena picaresca, diviene nei Sillabari alta sprezzatura: il tentativo di comprensione, che passa spesso anche nel libro maturo attraverso gli occhi di un bambino (o di un adulto che non ha ancora compreso) fa di uno stile attento, lieve, sempre più raffinato, il grimaldello della scoperta.
Si ricordi il racconto intitolato Gli altri, anche in questo caso una storia di miseria vista attraverso lo sguardo di un bambino, che stavolta appartiene però a un altro mondo, quello dei ricchi. In vacanza sul Lido di Venezia, in un momento in cui la tata lo ha perso di vista, gli si avvicina un uomo dall’apparenza misera, si spoglia davanti a lui e resta di in mutande e facendo un fagotto dei propri cenci gli chiede di controllarli, mentre lui va a lavarsi i piedi e vedere il mare che non ha mai visto. Il bimbo prova curiosità, disgusto, poi odio per quell’uomo, ma quando gli adulti si accorgono e il mendicante viene allontanato dalla spiaggia, allora il bimbo prova pietà e commozione.
Chi era? Un ladro, un ex carcerato, un povero, un ricco diventato povero (avrebbe potuto accadere anche a lui, da grande, una cosa simile?), un ammalato, e com'era possibile che non avesse mai visto il mare? Aveva o non aveva famiglia? E lui perché aveva pianto? Tutte queste domande rimasero senza risposta nel bambino e più tardi anche nell'uomo adulto, ma fu da quel giorno che egli seppe, proprio perché nessuna risposta ebbero mai le sue domande, dell'esistenza degli «altri». E ora si pensi, procedendo a ritroso, alla scena della visita di Sergio all’amico Cena, in carcere, e al tentativo del bambino ci capire quel nuovo modo di essere e di vivere dell’inseparabile compagno di scorribande: Non era ammalato, credo che gli dessero da mangiare a sufficienza, tuttavia quella espressione aveva mutato il suo viso di bambino, pieno di scatti, di gesti comici e ridanciani un tempo, in quello di un lillipuziano; provai infatti l’impressione che il viso fosse diventato duro, forte nei muscoli così teneri alla sua età, nelle mandibole, negli zigomi e negli orecchi.
Le mani, dalle dita quasi prive delle unghie che erano state rosicchiate fino alla radice, stavano appese alla grata e sembravano degli uncini di piombo. «Be’! si mangia sempre qui» disse, e mi guardava; sentivo che voleva qualcosa ma non riuscivo ad intendere il suo sguardo. Era uno sguardo troppo difficile, perfino enigmatico e mi parve ad un certo momento ostile.
Per chiudere. Parise, credo, avrebbe potuto sottoscrivere quanto ha confessato Sebald: «Non so davvero che cosa ci sia in certi oggetti e in certe creature che a volte mi commuove così tanto».
Nessun commento:
Posta un commento