venerdì 4 aprile 2025

Fuoco amico


Fuoco amico. Si parla di fuoco amico quando  soldati o mezzi schierati 
sul campo di battaglia si vengono a trovare sotto un fuoco proveniente dal loro stesso schieramento. 

Meloni è finita nei guai: dove non è arrivata la sinistra, è arrivato Trump. (jena)

Flavia Perina
Se la destra è orfana dell'amico americano
La Stampa, 4 aprile 2025

Lutto nazionale, o poco ci manca. I dazi americani, orizzontali, erga omnes, indifferenti a ogni antica amicizia, costituiscono per la destra italiana molto più di un colpo all’economia e alle sue categorie del cuore (produttori di vini, formaggi pregiati, agroalimentare in genere). La obbligano a un bagno di realtà: l’amico americano non c’è più. Il suo disprezzo per i parassiti europei è circolare, riguarda tutti, anche i conservatori italiani, e quando Donald Trump e J.D. Vance bullizzano l’Unione ce l’hanno con ogni sua capitale e palazzo, Roma compresa, Chigi compreso. Dopo più di mezzo secolo si avvera l’antica ballata-profezia intonata negli scantinati del cabaret di destra: Occidente good bye. La cantava Pat Starke, una minuta italo-americana, nell’anno del disimpegno dal Vietnam e dell’abbandono di chi si era affidato al racconto di libertà a stelle e strisce. Il coro – incredibile – era quello di Nora Orlandi. Il testo, tormentato: “Le fedi spente, le guerre vinte / le date storiche, tutto per niente / Occidente che butti tutto quello che hai / Occidente good bye.

Meloni aveva molte ragioni per credere in un altro destino, almeno per lei e per l’Italia. La sintonia politica con il mondo Maga, innanzitutto, che da sempre le ha dimostrato amicizia e sostegno. Fu il primo teorico del trumpismo, Steve Bannon, a incoraggiare Meloni nel 2018, quando era Matteo Salvini a dare le carte della politica e FdI temeva addirittura di non superare lo sbarramento del Rosatellum. Piombò ad Atreju per ufficializzare la special relationship con i Fratelli d’Italia e arruolarli nella battaglia sovranista “contro quelli di Davos”: diventò un riferimento. Stessa attenzione da Elon Musk nel 2023, prima a Palazzo Chigi e poi sempre ad Atreju, con Meloni già premier ma Trump non ancora incoronato, e pure lì la promessa sembrò chiara: siamo amici speciali, siamo in sintonia, presto lavoreremo insieme. Meloni ha rispettato il patto implicito. Per almeno due volte si è rifiutata di associarsi a documenti europei con spunti urticanti contro l’America. Ha invitato a non lasciarsi andare alle tifoserie dopo l’inaudito scontro in diretta tv tra Trump e Zelensky. Ha mostrato tutto il suo scetticismo per i piani di difesa franco-inglesi, ha dato ragione a J.D. Vance nella sua intemerata contro l’Europa per il presunto allontanamento “dai valori condivisi con l’America”.

Più di questo, cosa? E cosa più della tradizionale, assoluta, ostinata fedeltà della destra italiana all’alleanza occidentale, fin dal ’52, quando il mondo neofascista che pure contro gli americani aveva combattuto in armi accettò il Patto Atlantico e la pax americana? La delusione di Giorgia Meloni è ovvia e ha fondati motivi, compresi quelli del consenso, perché i dazi sono una bomba sotto la nostra economia e i contraccolpi elettorali ci saranno, nonostante la scarsa competitività dell’opposizione. Gli appuntamenti annullati, il vertice d’urgenza a Palazzo Chigi, le prime parole critiche sugli Usa della premier – «Misura sbagliata» – sono il segno di uno choc e al tempo stesso di una presa di contatto con la realtà. La destra sapeva che la guerra commerciale era dietro l’angolo, sapeva che difficilmente avrebbe fatto sconti all’Italia, ma forse non ci ha mai creduto fino in fondo. A forza di addolcire la pillola trumpiana raccontando che tra il dire e il fare del Presidente Usa ci sarebbero state differenze, se ne era convinta davvero. Occidente good bye, figuriamoci. E invece ecco qui, è successo.

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