domenica 2 novembre 2025

Il fascino di "Guerra e pace"


Alessandro Piperno
Il paradosso della guerra e della pace

Corriere della Sera La Lettura, 2 novembre 2025

Rileggo Guerra e pace di Lev Tolstoj ogni cinque o sei anni. Non si tratta di un impegno, e nemmeno di una fissazione, ma di una necessità dettata da una smania improvvisa e improrogabile. A finirlo impiego meno di un mese. E ogni volta mi maledico per non aver studiato il russo. A muovermi, immagino, è lo stesso amore che induce un mio vecchio amico dei tempi dell’università a rivedere a intervalli altrettanto regolari la trilogia del Padrino. Sa bene, il mio vecchio amico, che alla fine Fredo verrà assassinato per ordine di Michael, e che quel fratricidio graverà sulla famiglia Corleone come una maledizione biblica. Così com’è consapevole di non poter fare niente per evitarlo. Il film è quello, è stato girato così, non c’è modo di alterarne la trama. E allora perché rivederlo così spesso? Se glielo chiedi lui ti risponde: «Perché mi piace starci dentro».

Ecco, potrei dire altrettanto. Non rileggo Guerra e pace nella speranza che Hélène, la prima viziosa moglie di Pierre, alla fine si ravveda, o che Mar’ja, la virtuosa sorella di Andrej, perda la fede, ma perché mi piace starci dentro.


La prima volta


La prima volta avevo diciassette anni. Mi fiondai sull’edizione rilegata che ammuffiva da chissà quanto tempo nella libreria dei miei genitori. Dio, che obbrobrio! Aveva i nomi italianizzati (Andrea, Piero, Anatolio), le descrizioni belliche troncate a metà, interi capitoli eliminati nel modo più sconcio e arbitrario. Eppure, per orrenda e incompleta che fosse, assolse al suo compito come una balia: con tenerezza e efficacia.

Benché la mia memoria non sia in grado di restituirmi il nucleo di quelle impressioni, ricordo il modo in cui durante le lunghe sedute di lettura il piacere, la meraviglia, lo smarrimento, la commozione si davano incessantemente il cambio. Così come ricordo il sospetto, inebriante e penoso a un tempo, che la forza emanata dalle pagine che stavo leggendo non avesse uguali in nessun altro romanzo, in nessun’altra letteratura: un sospetto, sia detto per inciso, che non sarebbe mai venuto meno.

Pezzi di vita

Tolstoj conosce l’arte di manipolare il tempo, di piegarlo alle necessità dei suoi affreschi grandiosi. Ma lo fa con tale destrezza che il lettore non se ne accorge. Come ha scritto George Steiner: «Ampie sezioni di Guerra e pace sono state rifatte sette volte. I romanzi tolstojani terminano con riluttanza, come se la pressione della creazione, quell’estasi occulta che nasce dal dar forma alla vita attraverso la lingua, non si fosse ancora esaurita».

Quando un eroe o un’eroina hanno bisogno di riflettere, concede loro il tempo di raccogliersi. Quando una festa, una battaglia, una battuta di caccia reclamano spazio Tolstoj, ben lungi dallo spazientirsi, dà fondo a tutto il suo impareggiabile genio pittorico, e il bello è che riesce a farlo senza bisogno di esibirsi in qualche inutile pezzo di bravura. Niente gli è più estraneo della voluttà con cui Flaubert indugia sulla singola immagine preziosa.

I dettagli di Tolstoj — la parrucca di un vecchio principe, la medaglia di un generale, il rossore diffuso sulle tempie di una debuttante — sono sempre funzionali al quadro, adeguati al carattere del personaggio, in sintonia con la temperatura emotiva della scena. È da questa attitudine, e dal sapiente uso del tempo e dello spazio, che deriva l’impressione di realtà che sorprendeva tanto i primi lettori di Tolstoj. Quanto a noi, è quasi impossibile non sottoscrivere l’affermazione del suo celebre contemporaneo Matthew Arnold: «La verità è che non dobbiamo considerare Anna Karenina come un’opera d’arte, la dobbiamo considerare come un pezzo di vita». Vale per Anna Karenina, certo, e anche per I racconti di Sebastopoli, Infanzia, adolescenza, giovinezza e persino per il

Resurrezione, ma vale soprattutto per Guerra e pace.


La gestione del tempo e dello spazio


Per chi scrive romanzi, o almeno un certo tipo di romanzi di impianto realista, poche cose sono difficili come attribuire l’età di un personaggio senza ricorrere ai soliti espedienti corrivi. Si dà il caso che nella connotazione anagrafica dei suoi eroi e delle sue eroine Tolstoj non abbia rivali. Benché ricordassi piuttosto bene la scena in cui Nataša, Sonja, Boris, Nikolaj e il piccolo Petruša fanno la loro prima apparizione, avevo dimenticato il paio di pennellate che permettono a Tolstoj di collocarli nel tempo, nello spazio e in società. Ma prima di farvelo vedere consentitemi una postilla. Per dare naturalezza alla scena (uno scrupolo che Tolstoj non dimentica mai), fa in modo che l’allegra brigata di ragazzi irrompa nel salotto dei Rostov come un uragano. È proprio così che avviene. Mentre gioca con i suoi compagnucci, la piccola pestifera Nataša precipita nel mondo degli adulti, e lo fa con l’impeto e l’impertinenza di chi vuole distruggere la barriera oltre la quale c’è la vita vera, quella dei grandi. Ed ecco perché Tolstoj tiene a farci sapere che lei è «in quella dolce età in cui la fanciulla non è più una bambina, ma la bambina non è ancora una ragazza». Per presentarci Sonja, la nipote del conte Rostov — per il momento più carina di Nataša e comunque decisamente più posata —, Tolstoj ricorre a una similitudine di stupefacente efficacia: «Per la fluidità dei movimenti, la morbidezza ed elasticità delle piccole membra e i modi un po’ scaltri e trattenuti ricordava una micetta bella ma non ancora formata, pronta a diventare una gattina deliziosa». La cosa che non finirà mai di sorprendermi è la semplicità delle immagini. La proverbiale ostilità nei confronti degli artifici retorici — che Tolstoj esprimerà molti anni dopo in Che cos’è l’arte? — trova un costante riscontro nelle migliaia di pagine dei suoi capolavori. Mai un’affettazione, mai un ammiccamento. È come se in ogni riga Tolstoj ti indicasse la giusta via da seguire: perché devi complicare ciò che potresti dire con tanta maggiore semplicità ed efficacia? E a te viene voglia di rispondere: perché purtroppo non sono Tolstoj.

Il tempo relativo

Ma il tempo non si arresta, scorre silenzioso e implacabile. Talvolta la sua lentezza ti esaspera, ma capita anche che a sorprenderti sia la furtiva rapidità con cui ti scivola via dalle mani. In Guerra e pace Tolstoj ha un modo tutto suo di plasmarlo alle necessità drammaturgiche. Facilitato in questo dalla scansione in capitoli, dagli intrecci multipli, dalla scelta di procedere per piccoli o grandi tableau, può indugiare per pagine e pagine su un istante, e condensare un paio d’anni in un capoverso.

Anche qui gli esempi non mancano.

Tutti ricordiamo lo stato in cui versa Pierre Bezuchov dopo la morte del padre. Non è stato mai così ricco, mai così esposto, mai così confuso. Insomma, proprio ora che è il partito più ambito di Russia, ora che tutti lo prendono seriamente, ora che il mondo è ai suoi piedi, dovrebbe darsi una mossa. Ma non ci riesce. È perplesso e imbarazzato. Quando tutti iniziano a brigare affinché sposi Hélène, la figlia dell’untuoso principe Vasilij Kuragin, le idee del nostro giovane milionario s’ingarbugliano ancora di più. L’attrazione animalesca per l’avvenentissima principessa, infatti, non è sostenuta né da affetto né da tenerezza. Eppure, a fronte del disprezzo intellettuale e morale che prova per lei, la desidera come non ha mai desiderato altro. Quanto ai sentimenti di Hélène, è facile figurarseli. Pierre è brutto, grasso, maldestro, affetto da una grave miopia, irrimediabilmente eccentrico, ma è anche ricco, spaventosamente ricco. Tolstoj dedica alle schermaglie dei futuri coniugi tutte le attenzioni di cui è capace. Indugia sulle amletiche esitazioni di Pierre, sul gioco di ritegni e civetterie di Hélène, sulle losche macchinazioni mondane che indurranno entrambi a capitolare. Per poi liquidare l’intera faccenda in tre righe: «Dopo un mese e mezzo era sposato e si sistemò, felice possessore (come dicevano) di una moglie bellissima e di milioni di rubli, nella grande, rinnovata casa pietroburghese dei conti Bezuchov». Già, non una parola sulla cerimonia di nozze, la prima notte insieme, la vita coniugale. Quel che bisognava dire è stato detto. Il resto va affidato all’immaginazione del lettore, una facoltà alla quale Tolstoj, a dispetto di molti suoi colleghi, accorda la massima fiducia.


Il senso della vita e la felicità


Da ragazzo a colpirmi erano soprattutto le grandi questioni sollevate da Tolstoj. Era un modo di leggere un po’ ingenuo, forse, ma anche, lasciatemelo dire, parecchio coinvolgente. Aspettavo con trepidazione il momento in cui uno degli irrequieti eroi tolstoiani — ispirato da chissà quale contingenza, rovello o intuizione — avrebbe preso a porsi le domande che almeno una volta nella vita ciascuno di noi ha rivolto a se stesso: perché esisto? Che ci faccio qua? A che serve il mondo? Cosa devo fare della mia vita? Posso viverla così, alla giornata, senza credere che essa abbia uno scopo preordinato? D’altronde, senza uno scopo preordinato e un Legislatore perché dovrei comportarmi bene, perché dovrei rigare dritto?...

Ricordo quasi a memoria il dialogo sul senso della vita tra Pierre e Andrej. Con un espediente molto tolstojano, per dare il giusto dinamismo alla conversazione dei due giovani amici, la scena è tutta in movimento: prima in carrozza, poi in traghetto. Sono diretti a Lysye Gory, la tenuta del principe Andrej. Per diversi che siano i loro stati d’animo, per antitetiche che siano le loro posizioni, il fervore che li anima è talmente contagioso da rappresentare per entrambi una specie di pietra miliare: «L’incontro con Pierre segnò per il principe Andrej l’inizio di una nuova vita interiore, benché quella esteriore fosse sempre la stessa».

Un’altra cosa che mi affascinava erano la frequenza e la precisione con cui Tolstoj dava conto della felicità dei suoi personaggi. E non alludo agli attimi epifanici per antonomasia: il senso di pienezza che invade Andrej contemplando il cielo di Austerlitz, la frenesia che stravolge Nataša durante la sua famosa danza, la presa di coscienza che la prigionia ispira a Pierre. Le gioie di cui parlo sono contingenti, effimere, e tuttavia non solo altrettanto incontenibili ma persino più toccanti. È sempre sconvolgente constatare come il romanziere epico per eccellenza padroneggi una gamma così ricca e variegata di registri. Prendete il seguente passo: «Nella casa dei Rostov si era creata in quel periodo una particolare atmosfera, come capita nelle case dove ci sono ragazze molto graziose e molto giovani. Ogni giovanotto che arrivava, guardando quel correre brioso, quei visi femminili giovani e ricettivi che sorridevano a chissà che (probabilmente alla propria felicità), ascoltando il cinguettio di quelle giovani donne, incoerente ma affettuoso verso tutti, pronto a tutto e pieno di speranza, ascoltando quei suoni incoerenti, ora canto, ora musica, provava lo stesso sentimento di disposizione all’amore e di attesa della felicità che provava la gioventù di casa Rostov».


Polifonia interiore


A colpirmi oggi è una cosa meno visibile: lo spazio di libertà che Tolstoj concede ai suoi eroi. Altro che genio dispotico! Come un Dio misericordioso lui fornisce a ciascuno l’opportunità di esprimersi, e a seconda dei casi di evolvere o di regredire. Non mi vengono in mente narratori capaci di intrattenere con le proprie creature una relazione altrettanto dialettica. Non solo con quelle di prima grandezza ma anche e soprattutto con quelle secondarie. L’esigenza di entrare nelle loro teste e nei loro cuori, di dare spazio ai pensieri e ai sentimenti, porta Tolstoj ad allestire una polifonia interiore che non ha eguali nella storia della letteratura.

Chi è abituato al sarcasmo dei grandi realisti francesi è sorpreso dal modo in cui Tolstoj tratta i suoi personaggi. Con equanimità, come se li ritenesse davvero esseri umani, e in quanto tali degni di riguardo e comprensione. Il punto non è che alla base di questo atteggiamento ci sia un’esigenza etica. Il punto è che tale necessità produca caratteri così incredibilmente sfaccettati. Ecco per

ché se da un lato Tolstoj non ha alcun ritegno a rivelarci i difetti dei suoi eroi positivi, dall’altro si prodiga per dare ai più spregevoli l’opportunità di ravvedersi. Di Andrej scopriamo presto che è arrogante e permaloso, di Nataša che sa essere vanesia e altezzosa, di Pierre che è incline alla pigrizia e al vizio, del vecchio principe Bolkonskij che è crudele e collerico. Per contro, a forza di frequentarli, ci convinciamo che Boris ha più di una ragione per essere così arrivista, e che altrettanto si può dire di Berg e della sua grettezza. Per non parlare di quel delinquente di Dolochov! Se è vero che niente è più esecrabile del modo in cui tradisce la fiducia di Pierre e in cui riduce sul lastrico il giovane Rostov, è altrettanto vero che è un figlio tenero e sollecito.

A proposito di questo, non ricordavo (o forse non gli avevo dato il dovuto peso) quanto complessa e contraddittoria fosse la personalità della principessa Mar’ja Bolkonskaja. Per qualche strana ragione di lei ricordavo la virtù, l’intelligenza, la bruttezza fisica e gli splendidi occhi. Ricordavo la devozione religiosa, la misericordia nei confronti del prossimo, lo stoicismo. Ma soprattutto ricordavo il rapporto malato con il rabbioso padre. Di certo non ricordavo i lati più ipocriti e risentiti del suo carattere. Oggi si direbbe che la brutta principessina è una passiva aggressiva. Se ci pensate bene è lei a mandare a monte il matrimonio tra suo fratello Andrej e Nataša, e lo fa per invidia della loro felicità. «Nataša non le piacque fin dalla prima occhiata. Le sembrò troppo elegante, superficialmente allegra e vanitosa. La principessina Mar’ja non sapeva che ancor prima di vedere la sua futura cognata era già prevenuta contro di lei, perché senza volerlo ne invidiava la bellezza, la giovinezza e la felicità, e perché era gelosa dell’amore del fratello». Sì, forse è la cosa che oggi più mi colpisce di questa immensa opera d’arte, l’umanità che Tolstoj riesce a infondere ai suoi personaggi, come se attraverso di essi volesse dare corpo ai dubbi che lo affliggono.


Non c’è pace senza guerra


Rileggere Guerra e pace nell’autunno del 2025 non è come rileggerlo nella primavera del 2018. È evidente che oggi le due parole che compongono quel mirabile titolo hanno assunto, almeno per noi, e lo dico senza retorica, un significato nuovo, diverso, per certi versi meno astratto, di sicuro più incombente. Tolstoj scrisse il suo capolavoro epico rievocando fatti risalenti a più di mezzo secolo prima. Per lui ciò che era accaduto in Europa durante le cosiddette guerre napoleoniche era a dir poco paradigmatico, e proprio per questo andava interrogato fino allo sfinimento. A colpirlo erano la follia, la sfrenatezza e la crudeltà di quegli avvenimenti, ma anche e soprattutto la feroce inanità e la tragica insensatezza che li avevano determinati.

Per molti decenni la filosofia della storia di Tolstoj è stata fatta oggetto nei casi migliori di critiche feroci, nei peggiori di autentici sberleffi. Più di recente, grazie ai contributi di studiosi del calibro di Isaiah Berlin, George Steiner, Orlando Figes, ma anche del nostro Nicola Chiaromonte, si è tornati a discuterne con rispetto e cautela. Quanto a me, non credo di disporre delle conoscenze adeguate per poterne parlare in modo appropriato. Per questo mi limiterò a qualche impressione personale. Del resto, assodata la mia incompetenza, nessuno potrà mai accusarmi di non essere un lettore devoto di Tolstoj.

Parlando dell’invasione della Russia da parte dell’esercito di Napoleone nell’estate del 1812, Tolstoj scrive: «Milioni di uomini commisero l’uno contro l’altro una quantità così innumerevole di scelleratezze, inganni, tradimenti, furti, contraffazioni ed emissioni di banconote false, rapine, incendi e omicidi, quale gli annali di tutti i tribunali del mondo non raccoglierebbero in secoli interi, senza che in quel periodo di tempo gli uomini che li commettevano li considerassero crimini». Questo per Tolstoj è il paradosso della guerra. Rendere legittimo l’illecito, legale il crimine, funzionale la crudeltà, giusto l’omicidio. Cosa autorizza tale gigantesco stravolgimento della morale comune? — non fa che chiedersi. E cosa induce le masse a sottostare alla volontà di potenza e distruzione di una manciata di monarchi psicopatici? Perché, le suddette masse, non si ribellano?

«Il fatalismo della storia — scrive Tolstoj all’inizio del Terzo libro — è inevitabile per spiegare i fenomeni irrazionali (cioè quelli di cui non comprendiamo le ragioni). Quanto più ci sforziamo di spiegare razionalmente questi fenomeni storici, tanto più irrazionali e incomprensibili essi diventano per noi».

Se è vero, come molti sostengono, che Tolstoj non abbia le idee chiare, che brancoli nel buio, che sia confuso e per questo tenda a contraddirsi, è altrettanto vero che le domande da lui poste sono le sole su cui è giusto arrovellarsi. Da profano quale sono, mi sembra del tutto legittimo chiedersi perché la guerra abbatta i nostri standard morali, e per quale ragione renda accettabile ciò che di solito consideriamo inammissibile.

Per anni ho cercato le risposte a questi interrogativi nelle parti saggistiche del romanzo, nelle meditazioni che qua e là Tolstoj si concede, e naturalmente nel tanto famoso quanto controverso secondo epilogo. Solo in quest’ultima rilettura ho intuito che per capirci qualcosa bisognava considerare il romanzo nella sua interezza. Solo così ho inteso perché Tolstoj avesse un tale ritegno a tenere la pace separata dalla guerra, perché considerasse l’una inesorabilmente intrecciata all’altra, e perché nel titolo le abbia volute associare con una congiunzione copulativa. È fuorviante cercare il senso della storia di Tolstoj nelle pagine in cui indugia sulla presunzione di Napoleone o sull’irresolutezza di Alessandro I, o in quelle in cui dà conto della sorniona scaltrezza di Kutuzov o in cui biasima l’insipienza del generale Campan. Da irriducibile moralista qual è, Tolstoj è attratto dalle fatali contraddizioni dei suoi eroi, dai contorcimenti della loro psiche. Ciò spiega come mai per capire cosa induca gli esseri umani a uccidere e a morire in guerra, Tolstoj li osservi vivere e prosperare in tempo di pace. Del resto, lui non fa che ricordarcelo, tra guerra e pace non c’è soluzione di continuità. «La vita intanto, la vita vera delle persone con i suoi interessi fondamentali di salute, malattia, lavoro, riposo, con i suoi interessi di pensiero, scienza, poesia, musica, amore, amicizia, odio, passioni, scorreva come sempre, indipendentemente e al di fuori dell’amicizia e dell’ostilità politica con Napoleone Bonaparte».

P.S.

Date le circostanze mi preme specificare che le citazioni sono tratte dalla mirabile traduzione di Emanuela Guercetti.

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