lunedì 24 novembre 2025

Simenon, un'idea dell'Africa

Ezio Mauro
Simenon l'africano, ritratto dello scrittore che non era solo Maigret

la Repubblica, 3 novembre 2025

Compaiono all’improvviso da un angolo qualunque della loro vita, e qui nessuno li aspettava. Li vediamo arrivare alla stazione di una città di provincia, sbarcare da un traghetto con le mani in tasca, scendere da una scala di ferro, chiudere con la sbarra la porta interna del bistrot, dove l’alone di fumo si rifugia ormai sotto la cupola delle grandi lampade, mentre l’odore di cibo se ne sta andando come ogni notte, quando si spalanca la porta della cucina sul buio perché il freddo cambi l’aria. Sono uomini ruvidi, pugili della vita perché hanno dovuto fare a pugni con l’esistenza e ne portano i lividi sull’anima, ricordo di una sconfitta che lascia il segno, ma non riesce a fermarli: domani torneranno a sedersi ai tavolini del bar davanti al tribunale, dove stamattina la ragazza col grembiule blu ha sorriso due volte e si è voltata a guardare, tornando al banco dopo aver servito il caffè con l’acquavite.

Oppure sono medici, giudici, avvocati e notai che stanno guidando a tarda sera le loro automobili potenti dall’abitazione dell’amante fino al cancello di casa, e non si sa se sapranno frenare davanti al precipizio che tra poco si aprirà nelle loro abitudini di comando e di benessere, oppure se rovineranno fino in fondo, senza nemmeno capirne la ragione. È la stessa storia vista dai due lati della vita: perché c’è sempre un punto in cui il presente si imbizzarrisce e non accetta di diventare futuro com’era stato programmato, anzi deraglia ribaltando ogni cosa, quando si rovescia la prospettiva, e insieme il destino.

È qui che il romanzo di Simenon può cominciare, per risalire la vicenda senza una morale, una lezione, una tesi, un giudizio, senza nemmeno compassione: semplicemente con lo sguardo innocentemente crudele del testimone. Tutto è già avvenuto, o tutto deve ancora compiersi: e leggendo ci avviciniamo a quell’appuntamento guidati dal peso segreto dell’accaduto, con cui alla fine bisogna fare i conti, oppure dall’accumulo di segni che preparano la disgrazia, crescono pagina dopo pagina come un tormento e conducono inevitabilmente alla rivelazione della rovina, alla distruzione dell’ordine fittizio in cui ogni cosa sembrava vivere fino al giorno prima, nella fragilità dell’apparenza.

Queste fotografie provengono dalla macchina fotografica personale di Simenon: qui sopra, uno scatto del mercato a Stanleyville

Queste fotografie provengono dalla macchina fotografica personale di Simenon: qui sopra, uno scatto del mercato a Stanleyville

Ma prima dell’esplosione della realtà c’è la sua costruzione, pezzo per pezzo, con la scenografia e la sceneggiatura che arredano il palcoscenico, svelano il paesaggio, aggiungono i colori, accendono le luci, verso sera: e attirano all’interno del disegno il lettore come se lo mettessero a parte di una confidenza, gli mostrassero un accesso riservato, gli concedessero il privilegio di essere al centro della scena.

Che può essere un semplice simbolo ossessivo come una camera azzurra, una coppia di persiane verdi, le finestre di fronte, la neve già sporca, una porta che si aprirà nell’ultimo capitolo mostrando il dramma; o la geografia domestica di un appartamento in cui già a pagina venti sappiamo muoverci da soli, lasciando il cappotto sull’attaccapanni di vimini all’ingresso dove c’è un ombrello nero, per sederci sul divano a frange del salotto, dov’è esposto il servizio da pranzo buono mai usato, con le bollette della luce appoggiate sulla zuppiera, di fianco alla stufa di ghisa arroventata dal suo stesso calore: mentre si può scorgere quella lama di luce come un segnale o una spia sotto la porta chiusa della camera verde.

Oppure la scena si dilata fino a comprendere un paese, e raccoglierlo tutto, case, viali e piazze, nella giornata scandita quasi fosse un rito: come se guardassimo dalla finestra dentro una casa qualunque, ascoltiamo il suono della sveglia alle sei e mezza del mattino, immediatamente prima delle campane che chiamano in chiesa, poi la scala che scricchiola al quarto gradino, quindi riconosciamo l’odore di legna bruciata e petrolio subito sormontato dal profumo caldo del caffè, i passi rasenti ai muri nel buio che diventa grigio, per finire con le litanie mattutine di una messa sbrigativa e fredda, con la macchia dei vestiti scuri delle vedove nei banchi.

Traversata sul fiume Congo in un altro scatto dalla macchina fotografica personale di Simenon
 

Traversata sul fiume Congo in un altro scatto dalla macchina fotografica personale di Simenon
 

 

È questa ricostruzione della normalità che prepara l’avvento del mistero pronto adesso ad emergere per rivelarsi, travolgendo tutto. Attorno c’è il coro delle abitudini quotidiane che continuano indifferenti, come se il mondo non prevedesse deviazioni, rifiutasse tentazioni, cancellasse le eccezioni. Tutto ottusamente disciplinato in un ordine refrattario alle sorprese, che non vuole guardare e vedere al di là di sé. Con la geografia del mercato montata come sempre ancora prima dell’alba, tra i padiglioni con la carne rossa sulla ceramica lucida, le piramidi di verdura che s’innalzano tra i banchi, i mazzi di anemoni, le prime fragole pallide impreziosite dai cestini di paglia, la fruttivendola con una giacca da uomo sopra tre maglioni, le donne che sbattono le braccia e battono i piedi per scaldarsi e il primo vino bianco della giornata che comincia a girare nel caffè sulla piazza. Anche stamattina nel vento del porto passa il suono delle sirene che annunciano navi scure e fradicie in movimento, ma non riescono a rompere la bruma dell’inverno: anzi, visto da qui sembra eterno, come una minaccia capace di durare tutto l’anno.

È a questo punto, mentre ogni cosa sembra al suo posto e in ordine, che bisogna andare a prendere i personaggi e portarli al centro dell’azione. Aspettano nella cabina del Polarys ormeggiato in porto, in una camera d’albergo col nome di animale, nella stanza d’angolo sottotetto al secondo piano di una pensione, nel letto di ferro della mansarda dove una volta dormiva la servitù, nell’insoddisfazione di una situazione di potere e di un ruolo sociale di spicco, cui però corrisponde in segreto il vuoto quotidiano della loro vita: tutti luoghi precari, di passaggio, mobili, sradicati e provvisori, da cui ora possono staccarsi facilmente e fare quel passo in più, decisivo per renderli interpreti dell’ineluttabile che li aspetta nel cuore della vicenda. Nell’instabilità di questi mesi hanno visto tendersi il filo lungo il quale si svolge questa avventura, nel corso delle settimane il caso li ha scelti come protagonisti, nelle ultime giornate il destino ha fatto il resto, annodando insieme le loro storie.

Adesso sono pronti, stanno arrivando, eccoli. Conoscono a perfezione la scena, l’hanno frequentata ogni giorno, in qualche caso l’hanno anche maledetta e odiata, cercando di forzarla e liberarsene. Ma sta piovendo da una settimana, con qualche fiocco di neve grigiastro mischiato alla trama della pioggia, le vetrine dei negozi devono restare illuminate tutto il giorno, per strada si sente soltanto il rumore dei passi che finiscono nelle pozzanghere: meglio restare in cucina, con le mani appoggiate alla tovaglia lucida a quadri piccoli, bianchi e rossi, nel conforto caldo del legno bruciato che si spezza nella stufa e il rumore del tizzone che cade in un tonfo, cedendo al fuoco. Infine: accada quel che deve accadere.

Poi, quando tutto è consumato e la storia si è compiuta, l’uomo se è superstite abbandona la scena. Lo vediamo di schiena, con il colletto dell’impermeabile sollevato sulla nuca e quella piccola valigia nera dove sta l’intero saldo delle sue avventure: e un livido in più. Con lui c’è la ragazza che aveva il grembiule blu, quando serviva il caffè ai tavoli davanti al tribunale. Camminano non si sa verso dove: forse li aspetta un bar che si chiama Mocambo.

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