Dino Piovan
Settembrini: cultura classica, amore e rivoluzione
il manifesto Alias, 23 novembre 2025
La denuncia dell’ideologia, anzi delle ideologie del classicismo inizia, almeno in Italia, negli anni settanta. Fu allora che la decolonizzazione cominciò a investire anche gli studi classici e una nuova generazione di studiosi (bastino qui i nomi di Luciano Canfora, Diego Lanza e Mario Vegetti) si confrontò con l’appropriazione della cultura greco-romana in funzione di conservazione dell’ordine sociale quando non, semplicemente, reazionaria (si pensi all’abuso della romanità da parte del fascismo). Questa denuncia ha conosciuto negli ultimi anni una nuova stagione, con punte talora così aspre da poter sembrare vicine a, se non confondersi con, la cosiddetta Cancel culture, che percepisce il passato come troppo compromesso con forme di sessismo, razzismo e imperialismo per poter essere salvato. Anche senza raggiungere questi estremi, la prospettiva critica dei classicismi, in sé salutare, da sola può portare a un’impasse: se i classici sono stati strumento per affermare una concezione suprematista, vale ancora la pena leggerli? E come, senza ritornare ad atteggiamenti di venerazione acritica?
Una risposta coraggiosa viene da un libro, scritto a quattro mani da Andrea Capra e Barbara Graziosi: Classics, Love, Revolution The Legacies of Luigi Settembrini (Oxford University Press, pp. 224, USD 100,00). Gli autori, entrambi antichisti di professione, non esitano nella prefazione a indicare il loro scopo: «esplorare la relazione tra cultura classica e pensiero rivoluzionario sottolineando il ruolo che l’amore può e dovrebbe ricoprire in entrambi» (p. VII, corsivi degli autori).
Il caso di studio è rappresentato da un’opera di Luigi Settembrini (1813-1876), uno di quei patrioti del Risorgimento a cui sono tuttora dedicate vie e strade in tutte le città italiane; oppositore del regime borbonico, pagò l’adesione agli ideali mazziniani con tredici anni di carcere, di cui ben otto trascorsi nel famigerato ergastolo di Santo Stefano, costruito come un panopticon. Qui egli riuscì a trovare una via per non soccombere alle sofferenze e agli orrori della vita carceraria negli studi classici; fu proprio in quegli anni infatti che, pur con pochissimi strumenti a sua disposizione, Settembrini portò a termine la traduzione di tutte le opere di Luciano di Samosata (tra i più brillanti e ironici scrittori in lingua greca che ci siano pervenuti, vissuto nel II secolo d.C.); a posteriori riconobbe che Luciano lo aveva «salvato dalla morte totale dell’intelligenza». La traduzione venne pubblicata nel 1861, a Italia unificata, e fu talmente apprezzata per la fedeltà e l’eleganza da essere ristampata più volte fino quasi ai nostri giorni (nel 1944 uscì con le illustrazioni di Alberto Savinio; l’ultima ristampa risale al 2007 per Bompiani).
L’opera in questione è I neoplatonici, scritta probabilmente negli ultimi anni di vita dell’autore e rimasta inedita per un secolo dopo la sua morte; fu pubblicata soltanto nel 1977 dal filologo Raffaele Cantarella, che in realtà l’aveva scoperta ben quaranta anni prima in un armadio della Biblioteca Nazionale di Napoli, quando dirigeva l’Officina dei papiri di Ercolano. Negli anni trenta, imbarazzato dal contenuto, Cantarella non si era sentito di pubblicarla; così d’altronde si erano comportati i pochi che già ne erano a conoscenza, tra cui Benedetto Croce; timore comune era di offuscare l’aura da padre della patria di cui Settembrini godeva anche sotto il fascismo, che gli aveva perfino intitolato un sommergibile.
I neoplatonici si presentano come una traduzione dal greco di un certo Aristeo di Megara ma si tratta solo di un travestimento, visto che tale autore non è mai esistito. Il racconto, ambientato nell’antica Grecia, è incentrato sull’educazione sentimentale di due ragazzi coetanei, Doro e Callicle:essi sperimentano un appassionato rapporto omoerotico che reputano fedele alle teorie sull’amore di Platone apprese dal filosofo Codro; in seguito conoscono un rapporto felice con due ragazze fino al matrimonio, pur continuando ad amarsi per il resto della loro vita. Il racconto sembra ispirarsi agli Amori di Luciano, che discute se sia meglio l’amore omosessuale o eterosessuale, e soprattutto alle storie del romanzo ellenistico, in cui a essere protagonista è sempre una coppia eterosessuale di aspiranti fidanzati, mentre in Settembrini il focus è sulla dimensione omosessuale, vissuta su un piano di reciprocità tra gli amanti, senza quella differenza di età e divisione di ruoli che caratterizzano la pederastia della Grecia classica.
Nel ’77, complice anche la prefazione di Giorgio Manganelli, I neoplatonici furono accolti come una rivelazione autobiografica, come se Settembrini avesse voluto fare un personale coming out svelando, sotto la copertura del falso ellenizzante, esperienze vissute nei lunghi anni carcerari. Da quel momento inizia la fortuna di Settembrini in ambito queer, con continue ristampe del racconto e perfino traduzioni in varie lingue europee, senza però né una sua contestualizzazione nella vita e nelle opere dell’autore né un tentativo di colmare la distanza tra la dimensione eroica del patriota risorgimentale e quella del cantore dell’amore greco; tuttora chi parla dell’una tende a trascurare l’altra, e viceversa.
Capra e Graziosi provano a colmare la lacuna con questo volume, che raccoglie svariati anni di lavoro spesi a esplorare materiali sepolti negli archivi (come l’epistolario con Gigia, la moglie amatissima di Settembrini) e che include anche una traduzione inglese annotata del racconto. I due studiosi rintracciano una serie di paralleli tra gli scritti memoriali di Settembrini (in particolare le Ricordanze della mia vita, pubblicate postume a cura di Francesco De Sanctis) e i temi e le atmosfere dei Neoplatonici, soprattutto l’aspirazione a instaurare rapporti intensi ed egualitari con individui di entrambi i sessi, che pervade anche un’altra operetta di ispirazione platonica, il Dialogo delle donne (pure pubblicata postuma ma senza attirare nessuna attenzione). Ne emerge una considerevole distanza rispetto all’immagine virilizzata che gli uomini del Risorgimento, Garibaldi in testa, tendevano a dare di sé, anche per reazione agli stereotipi sull’effeminatezza degli italiani, allora piuttosto diffusi nei paesi dell’Europa centro-settentrionale; ed è proprio la consapevolezza di questa distanza che può spiegare, secondo i due studiosi, perché Settembrini non completasse le proprie memorie, preferendo invece dedicarsi alla stesura (o revisione) del suo romanzo erotico.
Quanto alla scelta di «neoplatonici» per il titolo, l’analisi ne rivela l’intento polemico e ironico nei confronti del neoplatonismo ascetico promosso in quell’epoca dall’abate Vincenzo Gioberti; gli viene contrapposto tutt’altro tipo di platonismo, identificato in una gioiosa celebrazione dell’amore sensuale, vissuto sempre in rapporti paritari.
Andrea Capra e Barbara Graziosi hanno il merito di recuperare alla nostra consapevolezza un classicista e intellettuale perlopiù sottovalutato (forse anche per l’understatement che aveva per se stesso), ma portatore di uno stimolante approccio al passato, per nulla acritico ma capace di immaginazione e associato all’impegno per la giustizia nei rapporti sociali. Un approccio intriso di gioia e di amore, come quello che si respira leggendo questo libro.

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