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| Josiah Ober |
Maurizio Ferrera
Il software democratico
Corriere della Sera La Lettura, 9 novembre 2025
Professore emerito della Stanford University, Josiah Ober è uno dei più importanti storici e teorici della democrazia. Ha dato fondamentali contributi alla conoscenza di questa forma di governo nel corso del tempo, a partire dalla democrazia ateniese. Per le sue ricerche pionieristiche e interdisciplinari è stato insignito del Premio Balzan 2025 per le Scienze dell’antichità. Nelle sue pubblicazioni più recenti Ober ha allargato lo sguardo alle sfide che la democrazia si trova oggi ad affrontare, soprattutto nelle sue componenti liberali. In dialogo con «la Lettura», Ober illustra il percorso evolutivo del «software democratico», le ragioni della sua crisi e i possibili scenari futuri.
In un suo recente scritto lei ha paragonato la democrazia a un software: un insieme di istruzioni per il governo della società. La prima versione di questo software fu adottata da Atene nel VI secolo avanti Cristo. Ci riassume i tratti essenziali del governo ateniese di quel periodo?
«Il tratto fondamentale, che caratterizza anche le versioni successive del software democratico, è l’assenza di un capo. L’insieme dei cittadini si autogoverna. Viene rifiutata per principio l’idea che ci sia un boss (un tiranno, una giunta oligarchica) a dettare legge per tutti. Per evitare l’anarchia si disegnano delle istituzioni che consentano di arrivare a decisioni vincolanti per tutti».
E quali erano le istituzioni della democrazia ateniese?
«C’era un’Assemblea (ecclesìa) a cui partecipavano con diritto di voto tutti i cittadini. L’ordine del giorno veniva deciso da un Consiglio più ristretto (boulé), i cui componenti erano estratti a sorte».
Di quali numeri stiamo parlando?
«I membri del Consiglio erano 500, all’Assemblea partecipavano in media circa 7 mila persone. Gli aventi diritto (circa 30 mila) erano i maschi adulti, titolari di cittadinanza ateniese. Erano escluse le donne, gli schiavi, gli stranieri. I cittadini dovevano anche prestare servizio nei vari organi che amministravano la giustizia».
Un impegno gravoso, da svolgere entro istituzioni affollate. Come si evitava il caos?
«Qui entra in gioco un altro tratto fondamentale della democrazia ateniese: il radicamento di una robusta cultura della cittadinanza. Ciascuno rispettava le regole scritte e non scritte su come interagire con gli altri: rispetto, tolleranza, senso del dovere. La democrazia non era solo un metodo di governo, ma anche una norma di condotta».
Chi inventò il software democratico e chi decise di sperimentarlo?
«Fu un processo graduale. Il punto d’inizio fu la crisi dell’Arcontato (una specie di giunta composta da aristocratici) all’inizio del VI secolo avanti Cristo. C’erano crescenti tensioni sociali fra nobili e popolo, c’era il rischio di guerra civile. Solone fu nominato mediatore fra le parti e riuscì a calmare le acque. I nobili rinunciarono al diritto di rendere schiavi i debitori inadempienti, il popolo non ottenne la redistribuzione delle terre. La città restò unita e riuscì a contrastare le mire espansionistiche di Megara».
Insomma, si iniziò con una specie di patto civile, per evitare disgregazione interna e sconfitta esterna. Fu questo patto a dare vita al regime democratico?
«Non subito. Solone limitò i poteri dell’aristocrazia, ma il salto verso la democrazia compiuta fu promosso da Clistene, decenni dopo. Erodoto racconta che l’arconte Isagora, sostenuto dagli spartani, voleva abolire il Consiglio. Clistene propose invece un nuovo sistema in cui fosse il demos stesso ad auto-governarsi. Il Consiglio si oppose a Isagora e vi fu una sollevazione popolare in suo sostegno».
Come molte volte nella storia, anche la democrazia ateniese nacque da una piccola rivoluzione.
«Non sappiamo di preciso come si svolsero i fatti. Ma sì, possiamo dire che in quel momento il demos prese coscienza di sé stesso e si mobilitò contro il rischio di tirannide».
La formula democratica promosse un lungo periodo di crescita e stabilità per Atene. Si consolidò non solo l’etica pubblica democratica, ma anche una cultura basata sul logos, l’uso della ragione. Sappiamo però che, con il passare del tempo, i processi di deliberazione democratica caddero vittima di manipolazioni demagogiche. È la critica di Platone, che divenne molto aspra dopo la condanna di Socrate e l’ascesa dei sofisti.
«In realtà il potenziale manipolatorio dei cosiddetti demagoghi trovava molti contrappesi. I partecipanti dell’Assemblea non erano sprovveduti. La varietà di estrazione sociale garantiva un patrimonio condiviso di conoscenza ed esperienza che nessun retore poteva permettersi di sfidare. Inoltre i demagoghi erano in competizione fra loro: il pluralismo conteneva in sé stesso potenti antidoti contro la manipolazione e la malafede. Le critiche di Platone, Aristotele o Tucidide entravano anch’esse nel dibattito pubblico, contribuendo ad arginare quelle spinte populiste che potevano manifestarsi nelle deliberazioni assembleari».
Parliamo delle nuove versioni del software democratico che furono «rilasciate» dopo l’esperienza dell’Atene classica. Lo scontro fra nobili ateniesi e popolo all’inizio del VI secolo a. C. ricorda la lotta fra patrizi e plebei agli esordi della repubblica di Roma: la secessione della plebe sull’Aventino e la mediazione di Menenio Agrippa.
«Vi sono molte similitudini fra Atene e Roma. Anche patrizi e plebei giunsero infine a un “patto civile”, che arginava l’arbitrio dei primi e concedeva nuovi diritti ai secondi. La democrazia nasce da questo tipo di compromessi: vi è una situazione di grave conflitto che minaccia l’integrità del gruppo politico, si apre un negoziato e si dà avvio a quella parificazione dei diritti politici che è la condizione necessaria per evitare un “boss”, la supremazia di qualcuno che detta legge».
Quali erano le differenze fra software romano e ateniese?
«Essenzialmente due. La formalizzazione del diritto, sorretta dalla professionalizzazione della giurisdizione, da un lato. E la politica della cittadinanza, dall’altro lato. Ad Atene, i cancelli della cittadinanza si chiusero definitivamente dopo le registrazioni di massa ai tempi di Clistene. I romani usarono invece la cittadinanza come strumento per governare i popoli sconfitti, cooptandone le élite. L’allargamento della cittadinanza a milioni di persone rafforzò le tutele civili ma fece a poco a poco evaporare i diritti di partecipazione politica».
Avviciniamoci all’era moderna. Nel medioevo nacquero i primi parlamenti, ma il passaggio decisivo
verso la democrazia dei moderni avvenne con la Rivoluzione Gloriosa in Inghilterra, che nel 1689 pose fine alla monarchia assoluta.
«La Rivoluzione Gloriosa adottò una nuova versione del software democratico, imperniata sul Parlamento. Il popolo si autogoverna tramite rappresentanti, visto che la democrazia diretta non era applicabile ai grandi numeri. L’istituto della rappresentanza fu un’innovazione di grande portata. Il patto civile includeva tutti. Ma le decisioni erano delegate a un nuovo ceto che si occupava di politica a tempo pieno, maturando specifiche competenze».
Fra rappresentanti e rappresentati potevano però crearsi tensioni. Mi viene in mente il discorso di Edmund Burke ai suoi elettori di Bristol nel 1774.
«Certo, emerse il problema di definire la natura del mandato elettorale: i rappresentanti dovevano servire gli interessi del proprio collegio oppure quelli dello Stato nel suo insieme? Burke portò argomentazioni molto convincenti a favore della seconda opzione».
Un secolo dopo la Rivoluzione inglese ebbe luogo quella americana. La Costituzione che entrò in vigore nel 1789 inizia con l’espressione «We the people»: è il popolo in prima persona a stabilire come intende governare sé stesso.
«Esattamente. Oltre per il suo contenuto, la Costituzione americana fu esemplare anche per il processo costituente. La Convenzione di Filadelfia fu caratterizzata da aspri conflitti tra le parti. Alla fine si raggiunse un accordo, un esplicito patto civile il cui obiettivo era creare una “repubblica” unita, a dispetto della divergenza di interessi».
Dalle rivoluzioni inglese e americana nacquero i Bills of Rights: le carte fondamentali dei diritti. L’Assemblea costituente della Francia rivoluzionaria parlò per la prima volta di diritti dell’uomo universali. La democrazia si congiunse al liberalismo e iniziò una nuova fase. Democrazia e liberalismo sono un unico software o due diversi?
«Due diversi. Il liberalismo introduce un’idea nuova: ciascun individuo è portatore di diritti pre-politici, che non dipendono dall’appartenenza a un determinato gruppo politico. Il diritto alla vita, alla proprietà, alla sicurezza personale, alla resistenza in caso di oppressione sono indisponibili e inalienabili».
Benjamin Constant le definì le libertà dei moderni: garanzie a difesa dei cittadini dal potere politico, dal suo esercizio arbitrario.
«Per la verità anche nell’Atene classica c’era già attenzione verso le violazioni della sfera provata. Demostene se la prese con quei politici che mandavano i propri emissari nelle case degli oppositori, costringendoli a fuggire sui tetti “come miserabili schiavi”. Sul piano civile, Atene aveva dei “quasi diritti”, però non veramente esigibili. La svolta si ha con il pensiero e le costituzioni liberali. Se la democrazia è autogoverno, il liberalismo è protezione dal governo (e da ogni forma di potere illecito). Il che implica il rispetto della rule of law e della separazione dei poteri».
Capisco la separazione dal punto di vista analitico.
Mi sembra però che democrazia e liberalismo siano comunque parenti stretti. Sul piano genealogico, la democrazia dei moderni si è da subito intrecciata con le garanzie liberali.
«Certo, anch’io sono convinto che il migliore software di governo sia quello composito che chiamiamo liberal-democrazia. Ma la separazione analitica implica anche la possibilità di una separazione pratica».
Vero, l’autogoverno degli antichi era democratico ma non liberale. E in epoca moderna prima di approdare alla democrazia rappresentativa con suffragio universale vi fu una lunga fase di governo liberale (almeno parzialmente) ma oligarchico, in mano a élite che si comportavano come capi.
«Nel mio libro Demopolis (2017) ho elaborato il concetto di “democrazia di base”, un sistema di governo che preservi il nucleo essenziale del software democratico: l’autogoverno dei cittadini, il rifiuto di un capo. Nel mio schema, la democrazia di base ha due obiettivi. Da un lato salvaguardare e promuovere la partecipazione politica. Dall’altro evitare la tirannia della maggioranza: il termine stesso evoca un contesto in cui la maggioranza diventa il boss della minoranza. Per realizzare questi due obiettivi ci vogliono tre condizioni: eguaglianza politica, libertà di parola e di associazione, rispetto della pari dignità di ogni cittadino».
Mancano molte libertà liberali: un tale sistema potrebbe imporre vincoli sul piano religioso o morale.
«Sì, ma questo è proprio il punto. Si possono avere fondamenta democratiche senza costruirci sopra l’intero edificio liberale (diritti universali, neutralità dello stato e così via). Per la democrazia di base ciò che conta sono le libertà politiche».
E perché qualcuno dovrebbe o vorrebbe rinunciare all’edificio liberale?
«Ho già detto che il connubio fra democrazia e liberalismo è il software di gran lunga preferibile. Non voglio proporre un divorzio fra i due. Ritengo però che l’edificio liberale si stia oggi rapidamente indebolendo. In vari Paesi, molti elettori sia di destra sia di sinistra associano il “liberalismo” a valori o processi negativi: elitismo, globalismo, capitalismo predatorio, oppure cosmopolitismo compiacente, esaltazione di una diversità fine a sé stessa, denigrazione dei valori tradizionali. Sono risorte visioni etnocentriche della sovranità popolare, per le quali la difesa della propria sicurezza, prosperità e identità conta più dell’universalismo dei diritti umani (pensiamo alla questione dei rifugiati). La mia paura è che le libertà liberali (alcune) possano perdere il sostegno della società all’interno degli attuali regimi liberaldemocratici e perdano capacità di attrazione nei regimi ibridi».
Insomma, la democrazia di base sarebbe una sorta di linea rossa: se l’edificio liberale non ce la fa a reggere dove già c’è o a radicarsi dove ancora non c’è, almeno salviamo le fondamenta democratiche. Ma così non si rischia di legittimare la cosiddetta «democrazia illiberale» come quella di Orbán in Ungheria?
«C’è questo rischio. Del resto tutti i Paesi oggi si autodefiniscono democrazie solo perché prevedono periodiche elezioni».
Che in effetti si svolgono anche in Corea del Nord. «Il mio schema implica la libertà di parola e di associazione. Senza queste libertà non c’è democrazia, ma dittatura elettorale, legittimata da una finta investitura popolare».
Ha in mente qualche caso specifico i cui un’autocrazia o un regime ibrido potrebbe adottare la sua formula di una democrazia di base?
«Quando ho scritto Demopolis avevo in mente le primavere arabe. In alcuni Paesi islamici sembravano aprirsi spazi per un cambio di regime. Dato il peso della religione musulmana, mi sembrava difficile che le élite arabe potessero accettare l’intero pacchetto liberale. Avrebbero però potuto accettare le libertà politiche e l’autogoverno su molte questioni pubbliche, fatte salve quelle che toccano valori e pratiche fondamentali dell’islam. Sembrava una strada fattibile».
Ma non ha portato molto lontano, purtroppo.
«Vero. In una situazione in cui sembra plausibile l’emergenza di un mondo post-liberale, noi teorici politici abbiamo il dovere di fornire concetti e argomenti utili per arginare le degenerazioni autocratiche».
C’è un rischio simile oggi anche in America?
«La democrazia americana è oggi afflitta da una spirale di polarizzazione che rischia di creare uno scenario “schmittiano”: la politica come scontro fra amici e nemici, un gioco a somma (e a tolleranza) zero. Si sta erodendo quel patto civile fondativo che sta alla base della nostra Costituzione: abbiamo interessi diversi, ma concordiamo sulle regole per prendere decisioni collettive e per organizzare lo spazio pubblico. Interagendo come “amici civili” e non come nemici. A cose fatte, i Padri Fondatori riconobbero che la Costituzione era un documento imperfetto; ma anche l’unico possibile per dare vita a una federazione capace di auto-governo. Benjamin Franklin pronunciò una frase famosa: “L’America avrà una repubblica, se sarà capace di mantenerla”. Ciò che intendeva sottolineare era la necessità di promuovere attivamente la cultura democratica dei cittadini. Un compito che non si è certo esaurito, e che in momenti come questo deve ritornare a essere una priorità».

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