Aldo Torchiaro / Cristopher Cepernich
Il Riformista, 7 novembre 2025
Cristopher Cepernich, sociologo dei media e della politica all’Università di Torino è uno dei più lucidi osservatori italiani della comunicazione politica contemporanea. Studia da anni campagne elettorali, leadership e narrazioni collettive, con un’attenzione particolare ai cortocircuiti tra miti mediatici e realtà dei contesti. Con lui proviamo a capire perché una parte della sinistra italiana si è innamorata «a scatola chiusa» del nuovo sindaco di New York, Zohran Mamdani.
Professor Cepernich, perché Mamdani è diventato all’improvviso il “fenomeno” della sinistra italiana?
«Perché è il volto giusto al momento giusto dentro un racconto sbagliato. Mamdani viene caricato di aspettative salvifiche prima ancora di essere analizzato: ognuno ci proietta sopra il proprio desiderio, la propria idealizzazione di leader progressista e, in questo gioco di specchi, la sinistra italiana si innamora più dell’idea di Mamdani che di ciò che realmente rappresenta».
La sua elezione viene letta come modello politico-comunicativo da imitare. Ha vinto malgrado tutto e tutti… È così?
«No. Mamdani vince in una condizione in cui avrebbe vinto qualsiasi candidato democratico: New York è strutturalmente democratica, fortemente ostile a Trump, polarizzata in modo favorevole a chiunque lo contrasti. Il suo successo è agevolato dal contesto più che da una formula magica comunicativa: estrarre da lì un modello esportabile è un fraintendimento di base».
Quindi il confronto con l’Italia è metodologicamente sbagliato?
«Assolutamente sì. New York è una metropoli progressista con storia, scala, composizione sociale e sistema politico completamente diversi. La sinistra americana di New York non è la sinistra europea, men che meno quella italiana. Pensare di tradurre meccanicamente un linguaggio, uno stile, una coalizione nati lì dentro i nostri equilibri è un’operazione che non regge né scientificamente né politicamente».
Perché allora la sinistra italiana ha bisogno, ciclicamente, di un nuovo modello esterno da inseguire?
«Perché non ha mai chiuso il cantiere della propria identità. Il Partito democratico, che dovrebbe esserne il baricentro, non è mai diventato un brand politico chiaro: convive con correnti, sotto-correnti, lessici e culture diverse che rendono difficilissima la traduzione in un messaggio riconoscibile. In questa incertezza, aggrapparsi a figure come Mamdani è una scorciatoia cognitiva: invece di definire sé stessi, si prova a importare un simbolo già pronto».
È un problema di comunicazione o di contenuti?
«Di entrambi, ma nell’ordine: prima di identità, poi di comunicazione. Se non sai esattamente chi sei, non puoi raccontarti bene. Ogni nuovo leader si trova a maneggiare la stessa ambiguità di fondo: messaggi che cambiano tono, target, agenda, senza mai diventare una proposta nitida. In questa condizione cronica, il modello “prendiamo quello che funziona altrove” diventa una tentazione quasi inevitabile».
Quelli che dicono: “Facciamo come Mamdani”, fanno solo retorica?
«Sì, è retorica allo stato puro. Nessuna delle condizioni che hanno favorito Mamdani – dalla struttura dell’elettorato alla personalizzazione del conflitto con Trump – è replicabile nel contesto italiano. Si tratta di slogan motivazionali per classe dirigente e commentatori: comodi per i talk show, inutili come bussola strategica».
Nei giornali di oggi Mamdani appare, a seconda dell’autore, moderato, estremista, icona woke o minaccia. Come mai questo prisma di interpretazioni diverse?
«Un ventaglio di opinioni così distanti ci dice che lo stiamo leggendo con le nostre lenti europee, e spesso con i nostri conflitti interni. Le etichette su Mamdani raccontano più le ossessioni italiane che la realtà newyorkese. New York, per storia e composizione, ha una capacità di integrare identità e fratture molto diversa dalla nostra: noi frantumiamo il fenomeno per confermare le nostre narrative, non per capire la sua».
Che lezione dovrebbe trarre la sinistra italiana da questo “innamoramento a scatola chiusa”?
«Che il bisogno di eroi esterni è il sintomo di un problema profondo, non la cura. Finché si rincorrono figure lontane per riempire un vuoto di progetto e di lingua politica, ogni Mamdani di passaggio verrà usato come poster e poi archiviato. La vera sfida è costruire una grammatica autonoma della sinistra italiana, invece di vivere in traduzione permanente».

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