venerdì 28 novembre 2025

Per un bilancio dell'avanguardia

Alessandra Sarchi
Avanguardia, spirito irresistibile
Corriere della Sera, 28 novembre 2025

Nel suo ultimo libro, Rifare il mondo. Le età dell’avanguardia (Einaudi), Vincenzo Trione ha trovato il modo di riversare anni e anni di ricerca, cui accenna con garbo e passione nel prologo autobiografico, in una forma estesa e percorribile anche da chi non sia un esperto di arte, e di Novecento in particolare. La sfida riuscita anche grazie a una scrittura che procede per nodi tematici, per corrispondenze interne e per una sorta di mimetismo stilistico con la propria esuberante materia, è quella di dipanare il lascito infinito, e forse non ancora del tutto compiuto, che le avanguardie di primo Novecento hanno lasciato non solo all’arte, in senso stretto, ma al nostro modo di rapportarci con qualsiasi fenomeno estetico o di concepire lo sguardo stesso sul mondo.
Trione prima di tutto periodizza le età di questo movimento, adottando una scansione esiodea dall’età dell’oro a quella del ferro attuale, e dimostra come le cosiddette avanguardie storiche, con maîtres à penser pure molto diversi fra di loro come il poeta francese Guillaume Apollinare e il futurista Filippo Tommaso Marinetti, abbiano elaborato una rottura con il passato rivoluzionaria, non solo per il superamento delle forme e dei generi, ma per la spinta a porsi sempre sulla cresta della crisi, cercando di innovare proprio a partire da quella. La forza, e forse il limite, dell’avanguardia sta proprio in questo: nell’accettare la crisi come stato permanente di una rivoluzione sempre da compiersi. Gli sforzi di far convergere istanze del Futurismo — semplificando molto: rottura con la tradizione, contaminazione fra le arti, introduzione di una sensibilità attenta alla velocità, alla macchina, al linguaggio della pubblicità, alla molteplicità e instabilità percettiva — con quelle del cubismo che Apollinaire ha visto nascere — di nuovo abbreviando: rifiuto della prospettiva rinascimentale, reinvenzione delle forme, volontà di rappresentazione totale e sinestetica della realtà — nel manifesto dell’antitradizione (1913) portano Apollinaire a una sintesi che preconizza quasi tutta l’arte a venire del ventesimo secolo e oltre, attraverso lemmi che Trione analizza e ricontestualizza uno per uno.
Si diceva del limite di una crisi perenne: cosa rimane dopo aver distrutto tradizione, forme e liturgie con le quali l’arte si è manifestata nel passato? Domanda che tanto Apollinaire, più attento alla continuità, che Marinetti, specie il tardo Marinetti, per non dire di un pittore d’avanguardia ma antimoderno come De Chirico, si sono posti per tempo, ma che invece sembra essere decaduta nella attuale fase epigonale dell’avanguardia, che è termine logorato dall’uso proprio perché della sovversione sembra essere rimasto solo il gesto e più nessun significato sostanziale. Insomma il lascito di chi voleva rifare il mondo per paradosso si è tradotto in un mondo largamente conformista, che ama il kitsch e il midcult.
Trione cuce un vasto arazzo raccogliendo le voci di scrittori, artisti, critici e teorici che di volta in volta hanno avvertito l’inesorabilità dell’imperativo «il faut être absolument moderne» ma anche il progressivo svuotamento che il binomio modernità-cambiamento ha patito nel corso di un secolo lunghissimo. Se già De Chirico davanti alla perdita di terreno della pittura lamentava: «Insomma, si vorrebbe trasformare il mondo in una specie di fiera, ove la sola merce in vendita sarebbero la bruttezza e l’assurdo. La stampa e la radio lavorano di comune accordo al compimento di tale ignominia», a un secolo di distanza Milan Kundera scriveva nel romanzo L’immortalità: «Non c’era nessuna traccia della gioiosa pennellata sulla tela; nessuna traccia del piacere; toro e torero erano spariti; i quadri avevano cacciato via la realtà, oppure le assomigliavano con una fedeltà cinica ed esangue». Lo scrittore premio Nobel Mario Vargas Llosa non meno del critico Carlo Argan constatano come il sistema dell’arte si sia svuotato da di dentro: andare alle Biennali d’arte contemporanea significa entrare dentro un’esibizione autoreferenziale, dove spesso il gesto ha preso il posto dell’opera, dove la provocazione è rassicurante anche perché ripetuta per la milionesima volta e «ciò che prima era rivoluzionario è diventato moda, passatempo, gioco, un acido sottile che snatura la creazione artistica». Se la pars destruens del movimento d’avanguardia è stata così massiccia, e le forze del capitalismo così pronte ad assimilarne e normalizzarne la spinta critica e politica, lasciandoci oggi nel dubbio e nella perplessità, quando non in un’esaltazione che ha i toni della mitomania alla Elon Musk, davanti a opere come quelle di Damien Hirst, Francesco Vezzoli, Jeff Koons o Maurizio Cattelan, dove volgere lo sguardo per cercare i semi costruttivi dell’avanguardia?
Trione ha le sue predilezioni e sono rivolte ad artisti e fenomeni in cui rintraccia una riflessione che lungi dall’essere inconsapevole del passato vi attinge per ridare consistenza al futuro poiché «lo spirito della nostra epoca, ha ricordato Kundera, si concentra su un’attualità tanto ampia, accogliente ed espansiva da escludere l’avvenire dal proprio orizzonte. È una scelta quasi scandalosa: da secoli inclini a ricercare mondi oltre questo mondo, ci concentriamo soprattutto sull’attimo che stiamo attraversando. Un attimo senza radici né prospettive».
Dunque Trione indica artisti che non hanno abdicato alla manualità del fare e della tecnica e lavorano con quell’intermedialità, auspicata e praticata dall’avanguardia, come il poliedrico William Kentridge, di cui significativamente campeggia in copertina l’opera To What end, ma anche David Hockney, strenue sperimentatore di tecniche diverse, dal foglio e matita all’ipad, ma anche strenuo difensore dell’idea che la tecnica debba essere al servizio di una incoercibile vocazione alla rappresentazione che rende il gesto moderno di toccare uno schermo e produrre un’immagine assimilabile a quello dell’uomo del Neolitico che stampava la propria mano sulle pareti di una caverna, o il Jean Luc Godard degli ultimi anni, quello che gira Adieu au langage (2014) e «interroga la drammatica aporia dell’avanguardia. Abbandonarsi al sogno di una totalità condannata a dissolversi in una proliferazione di affioramenti privi di nessi evidenti. Inventare un linguaggio, fino a toccare le vette dell’inattestabile — ciò che sfugge a ogni rappresentazione e costringe ad annunciare l’irrappresentabile».
La convivenza con il fallimento, e la sua seduzione, forse il suo potere rigenerativo, sembrano essere l'eredità permanente dell'avanguardia. 

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