sabato 22 novembre 2025

I bambini cresciuti nel bosco


Viola Ardone
Se i bambini del bosco dividono il paese

La Stampa, 22 novembre 2025

Togliere i bambini a un genitore è il dolore più forte che esista», dice il papà dei bambini di Palmoli allontanati dalla famiglia e trasferiti, insieme alla mamma, in una casa famiglia. Ed è vero, è un dolore primigenio e assoluto, quello della separazione, del parto, del distacco, eppure la generazione è proprio questo: un processo di distacco progressivo e inarrestabile che inizia con la nascita e dura tutta la vita.

La storia dei tre bambini cresciuti nel bosco sotto l’unica cura della famiglia ci colpisce perché ci riporta a degli archetipi narrativi: il bosco, prima di tutto, che nelle fiabe tradizionali è il luogo per eccellenza dell’iniziazione. Pollicino, Hänsel e Gretel, Cappuccetto Rosso devono fare l’esperienza del bosco come rito di passaggio per diventare grandi. Non si cresce, ci dicono in modo metaforico quelle antiche storie, che allontanandosi dalla casa e attraversando il bosco, magari da soli, seminando per sicurezza delle briciole di pane per non dimenticare la strada del ritorno, una traccia effimera ma simbolica che dice: per essere capace di tornare a casa devo allontanarmi, incontrare la strega cattiva o la fata buona, finire magari tra le fauci del lupo o nella pancia della balena prima di diventare un bambino vero e non solo il feticcio di legno di un genitore demiurgo che mette al mondo e poi trattiene. Crescere significa perdersi.

C’è in questa storia anche il mito greco: racconta Esiodo nella Teogonia che Urano, figlio di Caos, si unì a Gea, la madre terra, e con lei generò molti figli, ma poi li segregò dentro al suo ventre impedendo loro di venire al mondo. Sarà poi Crono a sfidare il padre e a liberare tutti i fratelli, rendendo alfine possibile quella nascita negata.

Mettere al mondo, secondo il mito antico e secondo le favole, significa lasciare andare. Per Freud il padre è simbolicamente quello che ha il compito di porre fine alla simbiosi madre/figlio istradando quest’ultimo verso la vita autonoma, dandogli gli strumenti per emanciparsi. C’è questo drammatico rapporto di proporzionalità inversa nel destino di ogni genitore, che avrà svolto tanto meglio il suo lavoro quanto più avrà reso capace il figlio di allontanarsi da lui. È un mestiere a perdere, si sa, quello del genitore, ma è l’unica perdita di cui possiamo dirci orgogliosi.

genitori di Palmoli hanno agito per amore, per la fiducia in un sogno di indipendenza e autosufficienza, per tutelare i bambini dallo sporco e dal brutto, dalle volgarità degli stereotipi, dai pericoli a cui il vivere insieme agli altri inevitabilmente ci espone. È quello che abbiamo immaginato tutti, bisogna confessarlo, prima di mettere al mondo un figlio, una capanna in mezzo al bosco in cui tenersi stretti, senza dar retta agli altri, un’utopia di nitore e pulizia in cui la polvere del mondo non si posi sui sogni candidi dei bimbi, e da cui il male, le bugie, le maldicenze, i compromessi, la stupidità, i capricci siano banditi, tagliati fuori grazie a una siepe che protegge e separa, ma contemporaneamente imprigiona. C’è in questa fiaba amara il mito di Pandora a cui viene affidato un orcio ricolmo di ogni male così che il mondo ne sia finalmente liberato. Ma la saggia Pandora, vituperata invece dai più, sa che quello che non ci piace, quello che ci addolora non può essere nascosto. Non si può chiudere il mare in una bottiglia. Così apre l’orcio e libera di nuovo tutti i mali nel mondo, fino a che, in ultimo ne viene fuori la speranza, non a caso definita dai latini: ultima dea.

Ho letto recentemente un articolo di Chandler Fritz sull'Harper's Magazine che racconta come in America sempre più famiglie scelgano  l’homeschooling, ovvero l’istruzione parentale, o iscrivano i figli in piccole o piccolissime scuole in cui sono proprio loro, i genitori, a decidere i programmi, gli argomenti e le modalità di studio. Il risultato è che quei bambini saranno senza dubbio protetti dal vasto mondo fuori, ma anche destinati a un continuo rispecchiamento degli stessi valori, delle identiche credenze, abitudini, istruzioni che hanno appreso in famiglia. La scuola pubblica invece è complessità, differenza, confronto. Si va nel mondo per imparare l’altro, e per scoprire l’altro in sé. Questo ai bambini di Palmoli è stato tolto, la possibilità di scoprirsi, l’opportunità di perdersi (nel bosco) e di imparare a orientarsi nella bella confusione di un mondo fuori che contiene il bello e il brutto, l’orrore e la speranza, il singolo e il molteplice. E se è vero che la famiglia è il primo nido in cui i piccoli si formano, è altrettanto importante permettere loro di stendere le ali e fare prove di volo in solitaria, come l’uccellino Cipì della bellissima favola di Mario Lodi. Esiste una genitorialità allargata, una comunità educativa a cui bisogna, volenti o nolenti, affidare i nostri figli, affinché non deperiscano soffocati nell’utero di Gea. Proteggere significa anche limitare.

 

Giuseppe Sciara
Fb

A proposito della vicenda dei «bambini del bosco», consiglio la lettura del romanzo/memoir di Tara Westover "L'educazione" (2018). Tara nasce a metà degli anni Ottanta del Novecento in una famiglia che vive alle pendici di Buck Peak, una montagna dell'Idaho: suo padre è un fanatico mormone, complottista, convinto di essere sottoposto a rigida sorveglianza da parte del governo federale e al contempo sicuro del fatto che una nuova Apocalisse stia per arrivare. Trascorre molto tempo, aiutato dal resto della famiglia, a fare provviste e ad allestire un bunker per la sopravvivenza. Mentre sua moglie – la madre di Tara – lo asseconda in tutto e per tutto e trascorre il proprio tempo producendo olii e creme naturali, l'uomo mantiene la famiglia gestendo una discarica in cui raccoglie e smaltisce rottami di ogni tipo e in cui impiega i cinque figli fin da giovanissimi, in barba a qualsiasi norma di sicurezza; non a caso, quasi tutti restano vittime di incidenti anche molto gravi, ma le ferite e i traumi riportati non vengono curati all'ospedale o da medici di professione – che il capofamiglia vede come il fumo negli occhi – ma in casa, con metodi "naturali" messi a punto dalla madre. Tara cresce in questo ambiente, isolata dal resto della società: fino ai nove anni non ha neanche un certificato di nascita, non frequenta le scuole, studia a casa sotto la guida della madre e viene a sapere cosa sia l'Olocausto quando è ormai adulta. Nel particolare ambiente famigliare Tara subisce violenze fisiche e psicologiche dal padre e da uno dei fratelli maggiori. Il libro narra queste vicende e il lento e complicatissimo percorso che la porta ad emanciparsi da tutto ciò, fino al riscatto grazie allo studio, all'ottenimento di un dottorato in storia a Cambridge e l'avvio della carriera accademica. Ovviamente al prezzo di un distacco totale dalla famiglia. È un libro coinvolgente – ma su questo sono di parte perché ho un'autentica passione per i romanzi ambientati nella provincia americana – e davvero ben scritto, che intercetta diversi temi: il fanatismo religioso, l'educazione dei figli, il complottismo, la violenza che si annida tra le mura famigliari, il conflitto tra libertà individuale e appartenenza comunitaria, l'istruzione come unico strumento emancipatorio. Il caso dei «bambini del bosco» è complicato e i commenti di certi personaggi pronti a cavalcare la vicenda sono, come al solito, spregevoli.

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