Francesco Strazzari
Una non-pace "storica" per l'Ucraina
il manifesto, 21 novembre 2025
È nato un nuovo piano di pace? Se è nato, chi è il padre? Dice Peskov che i negoziati erano stati fermati «dal regime di Kiev». Come se Mosca avesse fermato i missili sui condomini ucraini, e in ballo non ci fossero le sanzioni Usa contro le russe Lukoil e Rosneft. Come se l’Ucraina non avesse niente a che fare con il via libera che Mosca ha dato a Washington per la risoluzione Onu su Gaza, che tanto è piaciuta a Netanyahu.
Putin ha creduto che Trump alla Casa Bianca avrebbe invertito il corso della guerra, ponendosi alla testa di un Occidente che, cannibalizzato dal liberalismo, si sarebbe mostrato diviso e cedevole davanti alla percussione bellica, madre di un nuovo ordine internazionale. Non è passato nemmeno un anno e Fox News ammette che la popolarità di Trump sta crollando. Nella misura in cui i membri repubblicani del Congresso temono di essere condotti al macello nelle elezioni di midterm, è verosimile che ciò avrà ripercussioni anche sulla politica estera. È vero che gli Usa si stanno ritirando dall’Ucraina, scaricando gli oneri sugli europei.
Eppure, il Dipartimento di Stato ha approvato la fornitura di Patriot a Kiev, mentre per la prima volta gli ucraini hanno condotto attacchi con Atacms in Russia con il via libera Usa. Il fronte ucraino non si è sfaldato. Gli ucraini non hanno accettato la parte che è stata loro riservata sin dal famoso scontro Trump-Zelensky nello Studio Ovale. Costretta ad avanzare poco e male sul fronte, Mosca ha intensificato i bombardamenti sulle infrastrutture e sulle città. Riuscendo a fiaccare, ma non a spezzare la volontà degli ucraini, ha ingaggiato un’escalation ibrida per indebolire la volontà degli europei di sostenerli: un crescendo di incidenti, attività di disturbo e sabotaggio (l’ultimo alle ferrovie polacche, con Varsavia sul piede di guerra) e soprattutto di infowar (in linea con la dottrina sovranista della guerra non lineare).
Come spiegare altrimenti il tweet dell’inviato speciale Usa Steve Witkoff, che (per inettitudine?) ha risposto pubblicamente al giornalista che annunciava lo scoop sul piano di pace americano con un «deve averlo ottenuto da K». Dove K è con ogni probabilità Kirill, ovvero Dmitriev, il capo negoziatore di Putin. In questo quadro confuso, c’è da chiedersi dove fosse Marco Rubio, il titolare degli Esteri, fresco di dichiarazioni sulla posizione immutata di Putin che impedisce qualsiasi prospettiva di pace. Nel frattempo, nei circoli di governo ucraini, colpiti dal mega-scandalo delle forniture energetiche, il fido Andrij Yermak cercava di ingraziarsi Witkoff. E forse si prepara il ritorno dell’ex comandante in capo Valerij Zaluzhny, oggi parcheggiato a Londra. Colpiti nella propria credibilità mentre chiedono agli europei 70 miliardi per tenere in piedi il Paese, gli ucraini provano a divincolarsi dalla morsa, con Zelensky che si reca in Turchia, mediatore della prima ora, ottenendo dichiarazioni sull’integrità territoriale.
La morsa di Mosca e Washington riduce l’intera questione allo scacco matto per la leadership ucraina, cercando le condizioni per farle accettare la capitolazione per mancanza di alternative. Si tratta di estrarre dalla guerra una non-pace da definire quotidianamente come “storica”, a consolidamento ideologico della propria aspirazione egemonica. Nei fatti, è l’estensione di una zona grigia che, calata come un sistema su macerie e cadaveri, cementi i rapporti di potere fra uomini forti fra loro ideologicamente affini. Il tutto tramite una ricostruzione estrattivista e affaristica – anche nel senso minerario e immobiliare.azione pro-Ucraina di fronte all’ambasciata russa di Praga (Ap)
Che il nuovo piano non possa definirsi di pace – come non lo è quello perseguito su Gaza e Cisgiordania – non si desume solo dal numero e dalla vastità delle questioni che lascia aperte sul campo. Perché mai i russi dovrebbero pagare una sorta di lease sulle macerie di cui stanno comunque entrando in possesso? Di fronte a un esercito ucraino più che dimezzato, all’assenza di truppe straniere e a un quadro di alleanze (Nato inclusa) sempre più “transazionale”, quanto potranno valere le garanzie di sicurezza dello staff della Casa Bianca? Su quali e quante violazioni esso è pronto a chiudere un occhio? Verso quale corso politico si avvia l’Ucraina, i cui leader sembrano già oggi trattare sul proprio futuro?
Ma, soprattutto, quale Russia ci consegnerebbe il nuovo piano? Ci troviamo di fronte a un Paese il cui leader ha tessuto una trama ideologica per ridisegnare il quadro politico domestico e internazionale, mobilitando ogni risorsa in una guerra di invasione. La Russia dovrà fare i conti con centinaia di migliaia di giovani uomini (due milioni?) che dovrebbero essere reinseriti. Questa massa umana, plasmata strumentalmente per la guerra e dalla guerra, rappresenta una risorsa per Putin se resta mobilitata su un orizzonte ideologicamente coerente; se ripiegata sul fronte domestico viene percepita come un problema (sociale, criminale e politico). È implausibile che la Russia, soddisfatta per aver annesso i distretti limitrofi, davanti a un esercito ucraino più che dimezzato, possa riavvolgere la bandiera e ritirarsi per dedicarsi alle cure agresti. Non sarà semplice per Putin spiegare ai russi l’enormità delle spese e delle perdite.
Nel frattempo, il perdurare della guerra ha innescato dinamiche di espansione che il nuovo piano, ignorando l’Europa, non affronta affatto. Esiste una dinamica di scontro accesa sulle frontiere europee, incluse quelle marittime (il Baltico, l’Artico e il Mediterraneo). Qualcuno pensa che la Russia rimarrà inattiva nelle Svalbard, nel momento in cui gli Usa premono sulla Groenlandia? Non sarà ignorando la vastità e la profondità di questo scontro che gli europei potranno uscirne indenni.
Il nuovo piano russo-americano, ammesso e non concesso che Trump ne abbia cognizione, sancisce platealmente, probabilmente per la prima volta, che la sicurezza dell’Europa è decisa completamente da forze esterne. Nel parlamento europeo il cordone sanitario che separava i popolari dall’estrema destra sembra in procinto di saltare. Un’Europa impegnata nel riarmo lungo linee nazionali, con le sue capitali fanno a gara a chi piazza le migliori commesse agli ucraini, si trova oggi rappresentata come un proxy che non ha voce in capitolo sul proprio destino. Anzi, con esplicito disprezzo per il suo contributo sulle sue stesse frontiere. Un terreno di coltura per quel nazionalismo armato che, da Parigi a Londra, da Berlino a Roma, ne avvelena la storia.

Nessun commento:
Posta un commento