domenica 9 novembre 2025

Jacques-Louis David, un maestro arrogante e dispotico

Vincenzo Trione
La moltiplicazione del potere
Corriere della Sera La Lettura, 9 novembre 2025


Il potere. Il suo volto. La sua identità. E la sua ostinata necessità di imporsi attraverso continui e calcolati giochi di moltiplicazioni. Con un fine: situare atti e gesti legati a determinate circostanze storiche nella sfera del mito. Una dinamica già conosciuta nell’antichità, come aveva rivelato Serial Classic, una bella mostra, curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, allestita nelle sedi di Venezia e di Milano della Fondazione Prada nel 2015. Un percorso in cui era stato interrogato l’ambivalente rapporto tra originalità e imitazione nella cultura romana. Che, sovente, si è affidata alla diffusione di «repliche», pensate come omaggi all’arte greca. L’obiettivo critico: ribaltare tante consuetudini storiografiche consolidate, rivelando la genealogia di una categoria moderna come quella di riproducibilità. Molto spesso tendiamo a considerare l’unicità come uno tra i tratti distintivi dell’arte classica. In nessun periodo dell’arte occidentale, invece, la creazione di copie di capolavori del passato è stata tanto cruciale quanto nella Roma della tarda Repubblica e dell’Impero: si ricordino le diverse versioni del Discobolo, di Venere, di Apollo, di Penelope, delle Cariatidi.

Potrebbe essere, questa, la premessa per accostarsi a un lato segreto e poco esplorato dell’opera di Jacques Louis David, celebrata ora, in occasione del bicentenario della morte (in esilio, a Bruxelles, il 29 dicembre 1825), in una grande retrospettiva, curata da Sébastien Allard e da Côme Fabre, al Musée du Louvre di Parigi (fino al 26 gennaio). Un’occasione imperdibile che consente di incontrare una figura decisiva per «sentire» l’aria di un’intera età: non solo un grande pittore, ma anche un influente attore sociale che ricoprì alte cariche politiche al fianco di Robespierre (1793-1794), per diventare poi «Primo Pittore» della Corona; impareggiabile interprete-testimone dell’incalzare drammatico della storia; aedo dell’epopea napoleonica; creatore di drammaturgie che ancora oggi abitano l’immaginario collettivo (da La morte di Marat a Napoleone che attraversa le Alpi, a L’incoronazione di Napoleone).

Siamo invitati a compiere un viaggio attraverso lo stile di un maestro arrogante e dispotico, furbo e carrierista, moralista e anche immorale, algido e spietato, arringatore di folle e devoto a ideologie contraddittorie. Cuore impavido, sedotto da Robespierre e, in seguito, da Napoleone. Ma, innanzitutto, pittore magnifico, sempre sorretto da una tensione di alta idealità. Dotato di talento naturale e di straordinaria cultura: conoscitore dell’archeologia classica; classicista influenzato da Mengs, da Milizia e da Quatremère de Quincy; profondo conoscitore dell’arte di Correggio, di Caravaggio, di Rubens, di Canaletto e di Piranesi, che insegue, imita, sfida; sedotto dalle passeggiate a Pompei e a Ercolano; affascinato dalla vita dei romani; magistrale voyeur della storia dell’arte, anello di congiunzione tra l’eros sublimato di Bronzino e di Poussin e la sessualità congelata di Canova, di Ingres, di Modigliani e di Schad.

La svolta poetica e culturale avviene durante il soggiorno romano (1775-1780), che si conclude con l’esecuzione del Ritratto equestre del conte Potocki (17801781), poi terminato a Parigi: la criniera e la coda del destriero «volano», mentre uno sgretolato muro accoglie misteriose ombre, che danno risalto ai chiari e agli scuri.

È il preludio ai ritratti equestri dedicati a Napoleone, dipinti tra il settembre del 1800 e il 1803. In filigrana, una precisa convinzione: l’Atene di Pericle e la Roma di Augusto avrebbero potuto rinascere nella Francia dell’Illuminismo. È quasi la prefigurazione della concezione estetica sottesa all’azione politica di Napoleone Bonaparte: per riprendere le parole di Alberto Arbasino, evitare gli abbandoni allegorici, prediligere le stilizzazioni monumentali, adottare «il trovarobato del classicismo rivoluzionario come stile ufficialissimo per garantire un’immagine al proprio Impero», grazie a una «formalizzazione estrema nella rappresentazione realistica della storia contemporanea».

Un ciclo in cinque «capitoli», in cui David adotta il medesimo artificio già sperimentato nelle diverse rielaborazioni de La morte di Marat del 1793 (conservate nel Musée des Beaux-Arts di Bruxelles, nel Musée des Beaux-Arts di Reims e al Louvre). La prima versione è commissionata da Carlo IV, per favorire l’intesa tra il suo regno e la Repubblica Francese; le tre successive vengono commissionate con fini propagandistici, per decorare il castello di Sant-Cloud, la biblioteca dell’Hôtel des Invalides e il palazzo della Repubblica Cisalpina; priva di committenti, l’ultima è rimasta di proprietà di David fino alla morte.

Rigidità statuaria, enfasi teatrale, retorica mitologica, una certa ipocrisia borghese affettiva. L’impianto generale del Ritratto equestre di Napoleone deriva dalla tradizione barocca. L’impetuosità del cavallo è debitrice di Van Dyck. Per «fermare» l’eroe in primo piano — imponente come una statua antica — David coniuga echi tratti dalla pittura francese e da quella inglese del Settecento. Inedita, invece, è la messa a fuoco: il personaggio è modellato con un colore denso, mentre lo sfondo è ottenuto con un colore diluito e con una pennellata veloce. Luci perfette «scolpiscono» un’oratoria stupefacente, sottolineata dallo splendore metallico dei passaggi cromatici.

Ricorrenti, alcuni elementi. Si tratta di tele di grande formato (circa 2,6 x 2,2 metri), che ripropongono sempre la medesima situazione. La scena è rivolta verso lo spettatore. In questi ritratti, Napoleone viene colto nel momento dell’attraversamento del Colle del San Bernardo. Indossa l’uniforme di generale; sul capo, un bicorno gallonato d’oro; impugna una spada; è avvolto da un mantello mosso dal vento; monta un cavallo; con la mano sinistra, si aggrappa alle briglie; con la destra, indica la direzione. In secondo piano, un gruppo di soldati risale la montagna, trasportando un cannone. In basso, a destra, si trova un tricolore che garrisce nell’aria. In primo piano, incisi nella roccia, i nomi BONAPARTE, ANNIBAL ET KAROLVS MAGNVS IMP. Una maniera per associare Napoleone ad altri due condottieri che valicarono le Alpi: Annibale e Carlo Magno, appunto.

Minime le differenze. Nelle diverse riscritture cambiano pochi elementi: il volto dell’imperatore (prima giovane, poi maturo, infine anziano); i colori del mantello; i ricami sui guanti. Eterogenee le fonti iconografiche alle quali David si richiama. Per la postura del cavaliere e per quella del cavallo, egli guarda a diversi modelli dall’antichità, del Rinascimento, del Neoclassicismo. L’Apollo del Belvedere, i personaggi ritratti sui sarcofagi romani, la stele funeraria di Dexileos. E ancora: Eliodoro cacciato dal Tempio di Raffaello, Cheveux de Marly di Guillaume Cousteau, La distruzione del tempio di Gerusalemme di Nicolas Poussin, la Battaglia di Alessandria di Charles Le Brun, il Ritratto del principe Tommaso Francesco di Savoia Carignano di Van Dyck. E, poi: la statua di Pietro il Grande di Étienne Maurice Falconet e Alessandro in groppa a Bucefalo di Nicolas-André Monsiau.

Significativa la valenza simbolica dei gesti, come

sempre nelle opere di David. Il dito di Bonaparte dice volontà di potenza e autorità, comando e determinazione. Rivelatore anche il ricorso alle iscrizioni, un altro elemento ricorrente nei quadri del maestro francese. Sulla roccia, sono incisi i nomi di Annibale e di Carlo Magno, affiancati da tre lettere inequivocabili: IMP.

Archetipo del ritratto di propaganda, questo ciclo su Napoleone suscitò l’apprezzamento di Baudelaire il quale, nelle sue divaganti cronache d’arte, annotò: «È il solo Bonaparte poetico e grandioso che la Francia possieda». Una grandiosità che è stata ripresa da allievi, da eredi e da epigoni. Jean-Auguste-Dominique Ingres la utilizza come fonte fisiognomica, per dipingere un’immagine neobizantina, di allucinata perfezione, densa di memorie raffaellesche, simbolo di un potere ieratico e ultratemporale; Théodore Géricault se ne serve per gli studi dell’Ufficiale dei cacciatori a cavallo della guardia imperiale in carica; Eugène Delacroix si ispira alla posa del Ritratto equestre di Napoleone per il cavaliere turco di Scena del massacro di Scio; Paul Delacroche ne propone una nuova versione meno eroica e più realistica; John Everett Millais ne cita gli schemi compositivi; Eduardo Arroyo sostituisce la testa dell’imperatore con quella di un cane San Bernardo, per denunciare la brutalità del regime franchista; Robert Rauschenberg rimodula la medesima suggestione in chiave new dada; Kehinde Wiley mette al posto di Bonaparte la figura di un giovane africano con in testa un turbante. Per arrivare a tante derivazioni pop, talvolta kitsch: poster, foulard, francobolli. Un’autentica disseminazione. Forme di ri-locazione, le definirebbe Francesco Casetti: un’opera d’arte viene portata fuori dalla cornice museale, per essere riattivata in luoghi diversi da quelli nei quali originariamente era stata esposta. In questi transiti, qualcosa si perde, qualcosa si guadagna.

Siamo dinanzi a tributi che possono essere letti da prospettive differenti. Per un verso, artisti di generazioni e di culture non contigue riconoscono in David un padre sulle cui spalle è possibile salire. Per un altro verso, colgono la sensibilità moderna di quell’antenato. Che, con slancio profetico, in anticipo sulle teorie di Walter Benjamin sulla riproducibilità tecnica, aveva avuto un’intuizione: per esistere, il potere ha bisogno (anche) di affermarsi attraverso sequenze fondate sulla centralità dell’«iperimmagine», che è dilatazione allucinata, gigantismo invasivo, simulazione diffusa, spettacolarizzazione totale.

È da questa idea che muoverà, con sensibilità prepostmoderna, Andy Warhol, autore di una serigrafia policroma per «Vogue», nella quale il dipinto di David viene profanato (Diana Vreeland Rampant): ne affiora una sorta di Minotauro, in cui sul corpo di Napoleone è innestato il volto di Diana Vreeland, leggendaria critica di moda. Ecco, allora, l’artista dell’impercettibile ripetizione differente, esperto nell’infrangere il principio di autenticità, cultore del già-visto, del già-fatto, del già-accaduto, impegnato a collocare le celebrities della sua epoca nella cornice di una specie di Metafisica industriale, debitrice della lezione di Giorgio de Chirico. «Tutte le mie immagini sono le stesse (...) benché al contempo siano anche diverse. Cambiano con la luce dei colori, col movimento e lo stato d’animo (...). Non è la vita stessa una serie di immagini che cambiano nel loro stesso ripetersi?», ha detto Warhol, forse memore degli omaggi a Napoleone (e a Marat) dipinti da David.

Dalla Roma antica al neoclassicismo, fino alla Pop Art. Dalle «serialità classiche» a David e a Warhol, dunque. L’arte come interminabile moltiplicazione di immagini. Per provare a lambire l’essenza del potere. Che si alimenta sempre della propria intangibilità. Dell’aura in cui è avvolto.

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