martedì 25 novembre 2025

Un'altra Babele

Gianni Santamaria
Dall'esperanto al klingon: perché ci affascinano le lingue inventate
Avvenire, 22 novembre 2025

«Patru nia chi estas en la cielo», «Patre nostro, Qui es in celos», «O Fat obas, kel binol in süls», «Mama mi sewi o». Se nelle prime due frasi è facilmente riconoscibile l’incipit del “Padre nostro”, la terza e la quarta sono davvero ostiche. A meno di non essere cultori di idiomi pianificati a tavolino. Si tratta, in sequenza, della traduzione della preghiera universale di Gesù fatta dall’inventore dell’esperanto Ludwik Lejzer Zamenhof, di quella in latino sine flexione, creatura del matematico piemontese Giuseppe Peano, della versione in Volapük - lingua che deforma le radici lessicali di parole tedesche, inglesi e di altre lingue - realizzata da Johann Martin Schleyer. Infine, della possibile resa in Toki Pona, lingua “minimale” ideata nel 2001 dalla linguista canadese Sonja Ellen Kisa. Sono alcuni degli esempi – l’ultimo approntato ad hoc come una sorta di “stele di Rosetta” del Toki Pona - che il linguista Davide Astori cita lungo le pagine di Che cos’è una lingua inventata (Carocci, pagine 128, euro 13,50), saggio in cui lo studioso fornisce una carrellata degli ambienti storici in cui tali lingue sono nate, dei personaggi che le hanno escogitate, e illustra le classificazioni delle varie loro tipologie, di cui si occupa l’interlinguistica. Questa disciplina, che è stata definita “la branca eterodossa della linguistica”, vanta ben due date di nascita, il 1879 in cui è apparso il Volapük e il 1974, anno in cui uscì Le lingue inventate dell’orientalista Alessandro Bausani, considerato il fondatore di questo indirizzo di studi alla stregua di Ferdinand de Saussure per la linguistica generale.
Astori, che insegna proprio Linguistica generale, Interlinguistica e Linguistica delle Lingue segnate all’Università di Parma, descrive accuratamente, e con stile brillante, un fenomeno che fino a oggi ha visto progetti di oltre mille lingue inventate - molte effimere - delle quali prende in esame le principali. Oltre alle quattro già dette, troviamo il Markuska, creazione infantile italiana, analizzata da Bausani (che, si scopre, è proprio quel bambino creativo). Lo studioso distinse le lingue inventate in “laiche”, a scopi ludici o di comunicazione, e “sacrali”. Di queste ultime Astori dà tre li esempi: il Balaibalan, usato tra XIV e XVI secolo da una confraternita sufi egiziana, l’Enochian dell’astronomo e occultista inglese del Cinquecento John Dee e la “lingua ignota” della mistica medievale Ildegarda di Bingen, dottore della Chiesa, considerata loro patrona dai conlangers, i creatori di con-structed lang-uages. Seguono gli esempi antichi legati alla prefigurazione di società ideali: l’Uranopoli di Alessarco, «primo esempio attestato di creazione linguistica con finalità politico-identitaria» e la natyve tong che Tommaso Moro pensò per la sua Utopia. L’effimera esperienza dell’Isola delle Rose, fondata nel 1968 davanti a Rimini - che si proclamò Stato e che nei suoi 55 giorni di vita fece in tempo a darsi un inno, una moneta, una bandiera e persino a emettere francobolli - non riuscì invece a elaborare una lingua propria, adottando perciò l’esperanto. Esistono anche lingue “musicali”, come il Solresol, basato sulla combinazione sequenziale delle note. Nata in Francia nel 1827 con un’attenzione alle disabilità, paradossalmente contribuì al divieto Oltralpe della lingua dei segni fino al 1991. Non mancano, infine, le “lingue di Hollywood” come il Klingon, appartenente all’universo diegetico di Star Trek, e il Lì’fya leNa’vi, lingua della popolazione aliena di Avatar. La prima, opera del linguista americano Mark Okrand, ha addirittura un dizionario, un’enciclopedia, un istituto di studi in Pennsylvania, una sua versione di Google e in essa sono stati tradotti l’epopea di Gilgameš, l’Amleto di Shakespeare e il Tao Te Ching.
Il fenomeno coinvolge, dunque, aspetti personali, emozionali, ludici, legati all’infanzia (si pensi al cosiddetto “alfabeto farfallino”) e anche le dimensioni della creazione artistico-letteraria (Tolkien docet). fino alla ricerca di una lingua ausiliaria internazionale, nata dall’esigenza di creare un comune mezzo per comprendersi tra i popoli. A quest’ultimo crinale appartengono gli esperimenti di fine Ottocento, che a Parigi portarono alla nascita di numerose società dedite allo scopo. La Belle Époque, che viveva l’ideale del progresso e aveva ereditato quello della pace perpetua kantiana, produsse molti progetti linguistici. Il primo fu il Volapük (letteralmente “la lingua del mondo”), ideato nel 1879 da Schleyer, un sacerdote cattolico antimodernista, incarcerato durante il Kulturkampf. Il suo afflato universalistico era di carattere religioso e, di conseguenza, concepì tale lingua come un “dono di Dio” all’umanità. Il movimento volapukista crebbe rapidamente, ma presto si divise e altrettanto rapidamente declinò. L’idea fu perseguita anche dall’esperanto, nato a Varsavia nel 1887 con l’uscita dell’Unua libro (“Primo libro”) scritto da Zamenhof, di professione oftalmologo, il quale si era scelto come pseudonimo quello di Dottor Esperanto. Si tratta dell’unico tentativo che, ricorda Astori, 130 anni dopo, ha ancora vitalità, essendo usato - a seconda dei livelli di competenza e delle statistiche - da un numero di parlanti che oscilla tra i 30-300mila, fino a qualche milione. Di essi alcuni sono denaskuloj, “parlanti dalla nascita”. L’esperanto è anche quella, tra le lingue pianificate, che ha avuto attestati internazionali, a partire da quello della Società delle nazioni nel 1924.
Ma come si classificano tali lingue, dovute a un processo di glossopoiesi, da cui derivano i tremini di glottopoieta, o glottoteta, per definire chi le crea? Una distinzione è tra “a priori”, “a posteriori” e “miste”. Le prime seguono la riflessione filosofica che parte da Cartesio e arriva a Leibniz. Un filone di ricerca della “lingua perfetta” descritto ai giorni nostri nel famoso saggio di Umberto Eco (che non a caso si è meritato una traduzione in esperanto). Ad essa appartengono le pasigrafie, sistemi di segni convenzionali tali essere compresi da persone di lingue diverse. L’interlinguistica contemporanea presta maggiore attenzione, però, a quelle “a posteriori”, cioè derivate da lingue naturali. Le più famose sono i citati esperanto, mix di lingue indoeuropee, e latino sine flexione, tratto dall’idioma che in passato è stato lingua internazionale per eccellenza, veicolare e accademica, come oggi accade con l’inglese. Dopo un incontro con un collega giapponese, nel quale toccò con mano la difficoltà a comprendersi, Peano (1858-1932) concepì questa versione semplificata della lingua di Cicerone. Pur essendo principalmente scritta, il matematico le diede anche regole di pronuncia e accentazione. Ma l’esperimento non gli sopravvisse. “Miste” sono, invece, quelle a metà strada tra le altre due, come il Volapük.
Una menzione meritano anche le altre figure di conlangers storici che popolano l’affascinante saggio di Astori. Da René de Saussure, fratello di Ferdinand, che fu tra i primi esperantisti e si dedicò in parallelo alla ricerca di una moneta universale, a Graziadio Isaia Ascoli, pioniere della glottologia, che in gioventù, nel 1851, si dedicò a una pasigrafia telegrafica e ancora prima aveva realizzato il cosiddetto Ascolino.
Sono solo alcune delle figure di un caleidoscopio che introduce a una disciplina complessa che «nonostante lo scetticismo e il pregiudizio nei suoi confronti non siano ancora del tutto superati», affascina molti. E chi volesse farsi una lingua tutta sua - e non si accontentasse di chiedere a ChagtGpt di realizzarla, ammesso che ne sia capace – può ricorrere a strumenti moderni per conlangers, come il Language construction kit messo a punto dal linguista Mark Rosenfeder. E giocare al piccolo glottoteta.

Nessun commento:

Posta un commento