venerdì 14 novembre 2025

Le madri assassine

Titti Marrone
Giovanni ucciso dalla madre a nove anni. Lo strazio dell'amore capovolto in morte

La Stampa, 14 novembre 2025

Un genitore assassino del figlio è il sommo stravolgimento dell’ordine naturale della vita. È il più traumatico rovesciamento che si possa immaginare del ruolo parentale votato a cura e protezione, il suo assoluto tradimento. Talmente inaccettabile da essere evocato, nel racconto biblico, come prova estrema ordinata da Dio in quella discesa agli inferi della coscienza chiamata “sacrificio di Isacco”, fermato dalla divinità ma non inconcepibile dalla mente del padre, pronto a eseguire.

Ma la declinazione peggiore di questo orrore è l’amore che dispensa morte al frutto del ventre suo. È la madre assassina. Come la donna che ieri a Muggia, in provincia di Trieste, ha troncato di netto la carotide con una coltellata al figlio di nove anni. Come l’altra madre figlicida di Bergamo, Monia Bortolotti, assolta ieri per insufficienza di prove dall’accusa di aver ucciso Alice, quattro mesi, e ritenuta penalmente irresponsabile per l’assassinio dell’altro suo piccolo, Mattia, due mesi, che sarebbe stato commesso in totale incapacità d’intendere e volere. Una coincidenza della cronaca avvicina queste due storie, ma a leggere le statistiche che nessuno mai dovrebbe stilare si apprende che in Italia dal 2000 al 2023 sarebbero 535 i genitori ad aver levato una mano assassina sul figlio. E sei volte su dieci, la mano sarebbe stata materna.

Gli antichi lo sapevano già: la madre assassina svettava tra gli archetipi dell’orrore nella mitologia greca e nei classici latini, nella tragedia per antonomasia racchiusa nella figura di Medea da Euripide e poi da Seneca e Ovidio, fino a Christa Wolf. Succede dalla notte dei tempi che le madri ammazzino i figli, anche se non risultano incapaci d’intendere e volere come la madre di Bergamo. Anche se le loro condizioni non avevano allertato i servizi sociali, come nel caso della madre di Muggia. Succede a Nord come a Sud, a Cogne come in Liguria o in Calabria, in famiglie di italiani o stranieri, nullatenenti o benestanti.

Nella realtà, proprio come nel testo di Euripide, la rottura del patto di chi dà la vita si presenta spesso con caratteristiche simili: tra le mura di casa, con modalità violente, con l’efferatezza di chi strappa il figlio dalla scena dell’esistenza come in un parto alla rovescia. Nelle motivazioni di psicologi e inquirenti, ricorrono espressioni come «patologia depressiva inserita su personalità fragile», e non è raro che i luoghi dei delitti siano villette dall’aria idillica dove si celano abissi di solitudine, di disagio interiore, inadeguatezze capaci di sovrastare la gioia di essere madri. Mai che qualcuno se ne accorga prima, però: le spiegazioni arrivano sempre postume, quando è troppo tardi e il peggio è già avvenuto.

Noi leggiamo cronache e spiegazioni – buio nella mente, baby blues, depressione - e vorremmo passare oltre. Prima però tendiamo a rassicurarci dicendoci che non potrebbero mai capitare a noi. Che quel buio nella mente mai ci riguarderà. Invece dentro quelle storie c’è qualcosa che dice di tutti perché ricapiterà da qualche parte, ovunque ci siano la solitudine, la disperazione, la mancanza di ascolto, il deficit di umanità che toccano in sorte soprattutto alle donne. E che possono fare di una madre fragile la depositaria malvagia di un amore capovolto in mort

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