domenica 16 novembre 2025

Guerre prive di legittimità



Pasquale Preziosa

Analisi geostrategica comparata dei conflitti ucraino e israelo-palestinese

European Affairs, 15 novembre 2015

A quasi quattro anni dall’inizio della guerra russo-ucraina e a due dall’esplosione del conflitto tra Israele e Hamas, entrambe le crisi restano aperte e prive di un percorso di soluzione prevedibile. Le ostilità non sono cessate e, nel caso di Gaza, si registra soltanto una tregua fragile, ripetutamente violata e caratterizzata da un elevatissimo costo umano.

La simultaneità dei due conflitti va collocata all’interno di un sistema internazionale segnato dalla frammentazione dell’ordine globale, dall’erosione delle norme sulla sicurezza collettiva, dalla crisi della deterrenza e dalla crescente competizione tra potenze revisioniste e status quo powers. In questo contesto, fin dalle prime fasi, la percezione delle responsabilità e delle dinamiche di potere da parte dell’opinione pubblica globale si è immediatamente polarizzata, amplificata da ecosistemi informativi saturi di manipolazione, disinformazione e guerra cognitiva.

La reazione dell’opinione pubblica internazionale è stata caratterizzata da una divisione profonda, spiegabile attraverso due dinamiche principali: la crescente ibridazione tra guerra e informazione e la capacità degli attori statali e non statali di influenzare la percezione degli eventi mediante strategie comunicative avanzate.

Attraverso forme sofisticate di propaganda, gli attori coinvolti hanno cercato di modellare il racconto pubblico: la Russia, con una strategia di delegittimazione dell’Ucraina e di attribuzione delle responsabilità alla NATO; Hamas, presentando l’offensiva del 7 ottobre come risposta a condizioni strutturali di oppressione; Israele, invocando un diritto all’autodifesa senza limiti, sebbene in un contesto di marcata sproporzione militare e di crescente critica internazionale. In tale ambiente cognitivo, il confine tra aggressione e reazione è stato in parte offuscato, contribuendo alla confusione interpretativa di osservatori esterni e popolazioni coinvolte.

L’aggressione russa all’Ucraina costituisce il caso più evidente, nella storia recente, di violazione simultanea dell’integrità territoriale e del principio di sovranità. Il conflitto non nasce nel 2022: trova le sue radici nell’intervento russo a Donetsk e Luhansk del 2014, nell’annessione della Crimea e, più in generale, in una strategia di revisionismo geopolitico, geografico e identitario portata avanti dal Cremlino. La narrativa della “provocazione NATO”, pur funzionale alla legittimazione interna e alla costruzione di un frame comunicativo, non trova un riscontro empirico sufficiente.

Il movente principale dell’offensiva russa risiede principalmente nella volontà di ristabilire un’area di influenza post-sovietica, nella percezione di vulnerabilità strategica e nel timore dell’emergere di un’Ucraina pienamente integrata nel mondo occidentale. Gli eventi successivi al 2022 rappresentano dunque la continuazione di un progetto geopolitico di lungo periodo più che la risposta a uno shock improvviso.

Nel teatro mediorientale, il conflitto tra Israele e Hamas, esploso con l’attacco del 7 ottobre, ha riattivato una frattura storica mai ricomposta dalla fine del Mandato britannico e dalla stagione delle guerre arabo-israeliane. Dal 1948, lo Stato di Israele ha costruito una dottrina di sicurezza fondata su una percezione strutturale di precarietà esistenziale. Tale paradigma, tuttavia, si è progressivamente irrigidito, soprattutto dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin, riducendo la capacità di generare soluzioni politiche inclusive nei confronti dei palestinesi, la sua morte ha eliminato l’unico attore che poteva “vendere la pace” alla società israeliana senza essere delegittimato come debole.

La risposta militare israeliana successiva al 7 ottobre ha determinato una devastazione sistemica delle infrastrutture civili di Gaza, un numero molto elevato di vittime non combattenti e condizioni di assedio esteso nel tempo. Questi fattori hanno accelerato un processo di erosione del soft power israeliano, con un crescente distacco sia di parte della diaspora ebraica sia dell’opinione pubblica occidentale. Parallelamente, la governance palestinese rimane frammentata e priva di un’autorità legittimata e coerente, mentre l’ascesa di Hamas, sostenuta da attori regionali e inserita in logiche di proxy warfare, ha ulteriormente ridotto la possibilità di una soluzione politica sostenibile.

In entrambi i conflitti, l’Unione Europea ha evidenziato limiti strutturali nel tradurre la propria capacità normativa in influenza geopolitica. La risposta europea è stata tardiva, divisa e priva di strumenti coercitivi adeguati. L’UE rimane una potenza regolatoria, non una potenza strategica, e tale asimmetria rende marginale il suo ruolo nei negoziati e nella gestione delle ostilità.

L’avvicendamento alla Casa Bianca era stato percepito inizialmente come un possibile elemento di discontinuità nei due teatri. Tuttavia, la politica statunitense recente è stata caratterizzata da una leadership molto diversa: selettiva, pragmatica e orientata più alla gestione dei costi che alla risoluzione delle cause profonde dei conflitti.

La politica estera americana è oggi influenzata da tre fattori principali: stanchezza strategica verso guerre prolungate, competizione con la Cina come priorità assoluta e soprattutto polarizzazione interna, che riduce il consenso necessario per iniziative diplomatiche impegnative. Questi vincoli hanno limitato la capacità di Washington di agire come mediatore efficace sia nel conflitto russo-ucraino sia in quello israelo-palestinese.

Un elemento di rilievo è lo spostamento dell’opinione pubblica internazionale nei confronti di Israele. La narrativa della “nuova Sparta”, sostenuta dall’attuale governo, ha progressivamente perso consenso. La combinazione tra operazioni militari ad alta intensità, gestione degli ostaggi, politiche interne percepite come illiberali ed erosione dei valori democratici ha alimentato una crisi reputazionale senza precedenti nella storia recente dello Stato ebraico.

Ancora oggi, il conflitto israelo-palestinese rimane ancorato alla tensione tra due aspirazioni statuali incompiute: quella di Israele, nato da una decisione internazionale su un territorio conteso e spesso incapace di riconoscere le aspirazioni palestinesi e quella del popolo palestinese, privo di una leadership unitaria e spesso ostaggio di attori che hanno privilegiato la militarizzazione rispetto allo sviluppo istituzionale ed economico.

Entrambe le parti, in diverse fasi storiche, hanno fatto ricorso a tattiche violente e strumenti incompatibili con un processo di costruzione statuale responsabile.

La guerra in Ucraina e il conflitto israelo-palestinese rappresentano due manifestazioni di una crisi più ampia dell’ordine internazionale i cui elementi peculiari sono: la sfida revisionista della Russia, la crisi identitaria e sistemica del Medio Oriente, la debolezza strategica dell’Europa, la leadership selettiva degli Stati Uniti e soprattutto la crescente polarizzazione cognitiva globale.

Pur differenti nelle cause e nelle dinamiche operative, i due conflitti evidenziano tre elementi comuni: il ritorno della forza come strumento di politica estera, la crisi della diplomazia multilaterale e la trasformazione della guerra in fenomeno cognitivo oltre che militare.

Qualsiasi soluzione duratura richiederà non soltanto un cessate il fuoco, ma una ridefinizione profonda delle strutture di legittimità, sicurezza e governance nelle regioni coinvolte. Tale processo non potrà prescindere da un più ampio ripensamento dell’architettura della sicurezza internazionale, oggi messa in discussione da attori revisionisti, crisi regionali e dal progressivo slittamento della guerra verso il dominio informazionale e cognitivo.

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