Francesco Giavazzi
Dilemma salari
Corriere della Sera, 8 novembre 2025
Il ministro Zangrillo si vanta di aver chiuso il contratto degli enti locali e della scuola con un aumento in busta paga del 6%. A differenza di Cisl e Uil, il segretario della Cgil Landini non lo firmerà. Non solo. Ieri ha proclamato uno sciopero generale contro la manovra per chiedere un aumento dei salari. Al di là delle polemiche sullo sciopero generale, polemiche soprattutto sul giorno della settimana scelto, la domanda che ci si deve porre è se le ragioni di quel no siano più o meno fondate.
L’inflazione accumulata nel periodo di vigenza dell’ultimo contratto è circa il 17%. Il nuovo accordo permette di recuperare un terzo dell’inflazione accumulata. Non basta per evitare una riduzione del potere d’acquisto. I nuovi salari lasceranno per strada circa l’11%.
Tutti i contratti intervengono a posteriori, non solo quelli della pubblica amministrazione. Non riescono quindi a tenere il passo con l’inflazione. Il contratto collettivo nazionale, che da sempre il sindacato difende, non è il sistema migliore per garantire il potere d’acquisto dei salari. I sindacati si troveranno sempre a dover affrontare un problema di recupero del potere d’acquisto.
Fu Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, applicando una proposta dell’economista Ezio Tarantelli che per questo fu ucciso dalle Brigate rosse, a cambiare in modo radicale la contrattazione stabilendo che i contratti dovessero essere firmati guardando alle aspettative di crescita futura dei prezzi, non alla crescita passata. In questo modo cancellò alla base gli effetti della scala mobile che rendeva persistente qualunque aumento temporaneo dell’inflazione. Una mina vagante nel sistema economico nazionale.
Ma la condizione perché la contrattazione riformata nel 1993 possa proteggere il potere d’acquisto dei salari è che il negoziato sia più rapido e frequente di quanto normalmente accade. Sono i ritardi, a volte anche di sette anni, come succede spesso, che non consentono ai salari di recuperare sul costo della vita. Dopo un aumento temporaneo dell’inflazione, i prezzi si fermano, come accadde nel 2022-23, ma l’aumento intanto accumulato nel livello dei prezzi non si recupera più se il contratto guarda solo all’inflazione attesa per il futuro. La contrattazione orientata al futuro difficilmente riuscirà a recuperare quanto perduto.
Chiedere al governo di usare l’arma fiscale è un errore. Usando le tasse, introdurrà altre distorsioni in un sistema fiscale già ampiamente variegato. Con il paradosso che ciascun lavoratore finirà per avere una sorta di aliquota speciale, come ha chiaramente spiegato il professor Marco Leonardi sul Foglio dello scorso 3 ottobre.
Si potrebbero considerare invece correttivi che incentivino alla contrattazione più frequente come accade in altri Paesi. Ad esempio una regola secondo la quale nel momento in cui un contratto scade e non si sia proceduto al rinnovo e quindi a un accordo, permetta di applicare aumenti che compensino l’inflazione passata.
Si violerebbe il principio che portò alla riforma della contrattazione nel secolo scorso. Ma una regola del genere toglierebbe al sindacato, e quindi anche a Landini, il potere contrattuale che si esercita al tavolo delle trattative. Garantire salari adeguati e quindi consumi è, assieme agli investimenti delle imprese, la chiave di un Paese che cresce.
Si tratta di uno snodo importante sia nelle relazioni sindacali sia in ciò che è più decisivo: la garanzia per i lavoratori di non vedere taglieggiati i loro salari dall’inflazione. Proprio Ciampi la definiva «la tassa più ingiusta» perché colpisce il potere d’acquisto dei salari e in modo progressivo penalizza i ceti meno abbienti.
Ma il mondo è cambiato e forse una riforma ideata nel secolo scorso, con ben altri poteri in campo sia sindacali sia politici, con una situazione e cicli economici completamente diversi, dovrebbe spingerci a ripensare la contrattazione. La riduzione della capacità di acquisto degli italiani è un prezzo troppo alto per proteggere il potere contrattuale dei Landini.
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