Fulvia Caprara
Juliette Binoche: "Educata al femminismo, eppure cercavo un uomo che mi proteggesse
La Stampa, 26 novembre 2025
Un arcobaleno di emozioni si apre sul viso luminoso di Juliette Binoche, sorrisi, lacrime accennate, dolore per i mali del mondo, tristezze personali, ragionamenti profondi, andate e ritorni tra i pensieri. Superdiva di Francia, ovunque acclamata, premio Oscar, paladina del cinema europeo, capace di recitare con i maestri iraniani come Abbas Kiarostami e di dire tre di volte di no a Steven Spielberg, Binoche, premiata con la Stella della Mole, ha aggiunto alle sue imprese quella di dirigere “In-I in Motion”, il documentario, in concorso al Tff, realizzato in sei mesi con il ballerino-coreografo britannico Akram Khan a partire dallo spettacolo di teatro- danza che i due, insieme, hanno portato in giro sui palcoscenici del mondo. Tra gli spettatori, a New York, c’era stato Robert Redford che aveva suggerito a Binoche l’idea di trasformare lo show in film: «Volevo condividere un’esperienza che non avrei mai pensato di vivere nella mia vita – spiega l’attrice -. Un’esperienza che mi ha spinto a mettermi alla prova con nuove forme di creazione. Non conoscevo nulla della danza, per fare lo spettacolo ho dovuto prendere le distanze da me stessa, affrontare quesiti inediti, misurarmi con una persona come Khan, diversa da me in tutto, conoscerla, non reagire in modo impulsivo, ritrovare l’umiltà».
E’ un’attrice pronta a tutto, che non teme né sfide né salti nel vuoto. Dipende dal suo carattere o dal suo amore per il lavoro che ha scelto?
«Sono nata così, ci sono cose che non si imparano, che nascono insieme a noi, che abbiamo dentro istintivamente. Sono sempre stata spinta dalla curiosità, dal desiderio di conoscenza e dal bisogno di condividere. Senza queste caratteristiche non si può essere attori».
Fare cinema, per lei, è anche un modo per non perdere il contatto con il contesto sociale in cui vive?
«Si, non è un modo per esprimere giudizi o prendere posizioni. Piuttosto è una maniera per reagire a un mondo che va verso la catastrofe, a livello umano, ecologico, politico. Di solito sono ottimista, ma devo ammettere che, in questa fase, sono molto pessimista e questo mi rattrista molto. Vedo prevalere, in tantissimi Paesi, la tendenza al ripiegamento su se stessi. Per questo sono anche convinta che serva un’azione concreta nel quotidiano, non basta firmare appelli o petizioni, è più utile aiutare chi ci sta accanto, familiari, vicini di casa, gente del quartiere».
Da dove trae, nei momenti bui, la forza per andare avanti ?
«Amare è la risposta migliore, sempre. Siamo nati in un mondo meraviglioso, il sole resta sempre bello, così come la natura e gli animali. Amare e rispettare tutto questo è l’unico modo per sopravvivere al disastro in cui ci troviamo».
Ieri era il 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne. Che cosa pensa di quest’ondata che non si ferma, del numero dei femminicidi sempre in aumento?
«Sono cresciuta con una madre femminista, eppure l’idea dell’uomo che ci protegge ho continuato ad averla anche io. La forza delle donne è innata, genuina, perché ce l’abbiamo dentro, perché diamo la vita, ma non c’è niente da fare, abbiamo ancora una mentalità che deriva dal modo con cui, nei secoli, siamo state educate, secondo cui la forza sia qualcosa di maschile. Ci viene detto da sempre che possiamo ricevere protezione da chi possiede questa forza fisica, quindi da un uomo, ma non è così, anche io, per anni, ho pensato che avrei dovuto avere accanto un uomo che mi facesse sentire protetta, ma poi ho capito che è una pura illusione, che quell’uomo non esiste. Penso che le nuove generazioni, su questo tema, siano molto più avanti di noi».
Su cosa può basarsi quindi l’intesa tra uomo e donna?
«Forse sul piano spirituale, staccandosi un po’ dalle questioni quotidiane, dal quel genere di contrapposizioni tipo chi, in casa, fa la lavatrice, oppure “io ho lavato i piatti, adesso tocca a te fare il bucato”. Credo che avere una vita spirituale possa aiutarci molto, stimolando una diversa propensione all’ascolto, spingendoci a capire quello che è diverso da noi».
Tra le tante conquiste del MeToo c’è quella dell’”intimacy coordinator”, una presenza che dovrebbe tutelare le attrici sui set, durante le sequenze di sesso. Che cosa ne pensa?
«Credo che questa presenza possa levare spontaneità alle scene d’amore, un intervento così razionale e censorio, in un ambito in cui dovrebbe prevalere il desiderio, può rendere le cose molto difficili. Capisco che l’”intimacy coordinator” sia una conquista dovuta a tutte le cose orrende che sono avvenute in passato. Ritengo però che, forse, la soluzione migliore sarebbe lasciare gli attori liberi di girare la scena come sentono di farla e poi, una volta girata, sottoporla al loro giudizio, per sapere se va bene oppure no».
Perché ha rifiutato per ben tre volte di lavorare diretta da Steven Spielberg?
«Ogni volta mi sono sentita onorata e felice della proposta, ma per ragioni diverse, non ho potuto accettarla. La prima volta ho rifiutato perché stavo girando con Leo Carax “Gli amanti del Pont- Neuf”, era un progetto cui avevamo lavorato tanto e non potevo abbandonarlo, la seconda è successo che Spielberg mi abbia chiamata per “Jurassic Park”, ma nel frattempo Kieslowski mi aveva già chiamata per “Film Blue” e io ho preferito vivere quell’esperienza perché la storia mi interessava profondamente. La terza volta è successo con “Schindler’s List”, ma ero incinta, e non me la sono sentita di interpretare, proprio in quel momento della mia vita, il personaggio di una donna torturata, violentata, e uccisa. Credo comunque che Spielberg sia poco interessato alle donne e abbia spesso preferito raccontare storie di uomini, gliel’ho anche detto, e penso che la stessa cosa valga un po’ anche per Scorsese».

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