mercoledì 19 novembre 2025

La modernità in forma di fuga

Francesco Antonelli
Zygmunt Bauman, attraverso le ferite della modernità
il manifesto, 18 novembre 2025

Ne La condizione postmoderna (1979) il filosofo Jean-François Lyotard annunciava, tra i primi, l’apertura di una nuova epoca segnata dal tramonto delle grandi narrazioni prodotte dalla modernità. Vale a dire quei discorsi totalizzanti e unificanti – come l’emancipazione del genere umano, la rivoluzione o il progresso scientifico – che nella società post-industriale, frammentata, preda dell’individualismo e dominata dalla tecnologia, non sarebbero più stati in grado di fornire un senso alla realtà.

Quelle narrazioni, osservava Lyotard, tenevano insieme destino individuale e collettivo orientandoli verso un futuro radioso. La loro crisi ci consegna invece un mondo che, da una parte, ha cercato di sostituirle con nuove (e spesso tragiche) epiche locali, fondate su identità culturali, etniche o religiose; e dall’altra ci affida il peso di ritrovare dentro noi stessi il senso della nostra esistenza, sperimentando continuamente l’insufficienza di ogni cornice interpretativa. Anche il soggetto diventa più malinconico, disincantato, spaesato. Soprattutto il soggetto-intellettuale che, da aspirante «legislatore» sociale, si trasforma in un più modesto ma forse più efficace interprete: sia della realtà che osserva, sia del nesso tra quella realtà e la propria traiettoria biografica.

Siamo dunque condannati all’intimismo e all’impolitica leggerezza dell’essere? Non necessariamente, se riusciamo a trasformare le sofferenze e gli spaesamenti individuali – nati dall’incrocio tra vicende personali e storia collettiva – in un linguaggio universale ed empatico, capace di far specchiare ciascuno nell’altro e di ricostruire così un terreno comune per un nuovo agire politico e intellettuale.

Il grande merito di La mia vita. Un’autobiografia in frammenti (Il Margine, pp. 296, euro 20) sta proprio qui. La curatrice, Izabela Wagner, non si limita a raccogliere gli scritti autobiografici di Zygmunt Bauman: li ordina, li ricostruisce e li monta con grande attenzione filologica ed emotiva, restituendoci non solo un documento biografico, ma una chiave di lettura della sua intera opera. Il lavoro di Wagner è prezioso: fa emergere un Bauman privato e vulnerabile senza tradirne il rigore intellettuale.

La vita del sociologo appare come un vero patchwork di lettere, appunti, memorie e confessioni: un’esistenza segnata da migrazioni forzate, scelte politiche laceranti, delusioni e ripartenze. Ritroviamo l’infanzia ebraica in Polonia, l’antisemitismo viscerale che lo colpirà più volte, la fuga del 1939, l’arruolamento nell’esercito sovietico e poi nel Kbw (il Corpo di Sicurezza Interna della Polonia comunista). Un passato a lungo indicibile e spesso strumentalizzato contro di lui.

Senza tr

Seguono il graduale distacco dal comunismo – ma non dall’idea di socialismo come giustizia sociale – e il trauma dell’espulsione dall’università di Varsavia durante la campagna antisemita del 1968. Inizia un nuovo esilio: prima Israele, poi, grazie ai buoni uffici di Anthony Giddens, l’approdo a Leeds, dove Bauman troverà finalmente un luogo da cui pensare un mondo in trasformazione.
I frammenti autobiografici illuminano in controluce il suo pensiero: la metafora della liquidità, l’idea dell’interregno, la sensibilità per l’estraneità e la fragilità dei legami sociali nascono da un’esperienza personale segnata dall’insicurezza e dalla discontinuità.

IL LIBRO MOSTRA il Bauman privato, vulnerabile, spesso ferito, ma sempre animato da un ostinato ottimismo etico: il desiderio di capire la complessità del presente e di partecipare, attraverso la scrittura, alla vita degli altri. Quattro capitoli sono particolarmente significativi, a questo proposito. Il capitolo due («Il destino di un profugo e di un soldato») ricostruisce gli anni in cui Bauman, adolescente ebreo polacco, fugge con la famiglia dopo l’invasione nazista del 1939. L’esilio nelle zone occupate dall’Urss significa precarietà, fame, lavoro duro e un’identità continuamente messa in discussione. In Unione Sovietica vive la paura del sospetto politico e le difficoltà di adattamento a un nuovo sistema che, però, egli ammirava. Da giovane si arruola nell’esercito polacco sotto comando sovietico, dove sperimenta insieme idealismo e disillusione. L’insieme di queste esperienze – guerra, esilio, violenza istituzionale – plasmerà la sua futura sensibilità verso fragilità, estraneità e insicurezza sociale.

Nel capitolo quattro («Maturazione») Zygmunt Bauman racconta invece il passaggio dall’adolescenza alla prima età adulta, un periodo in cui si intrecciano formazione personale, impegni politici, scelte morali e cambiamenti storici radicali. È un capitolo di snodo, perché segna il momento in cui la sua biografia individuale si fonde definitivamente con la storia europea del Novecento. Centrale è qui la sfera emotiva: il capitolo si sofferma sulla vita famigliare, il rapporto con i genitori e la nascita della relazione con Janina, che diventerà la sua compagna di vita. Questa dimensione affettiva non è un semplice sfondo, ma uno dei motori della sua maturazione: la costruzione di una famiglia, la necessità di mediare tra responsabilità lavorative e aspirazioni intellettuali, la ricerca di stabilità dopo anni di incertezze.

NEL CAPITOLO SEI («Prima del crepuscolo») Bauman riflette sul rapporto fra memoria, responsabilità e identità, intrecciando il proprio vissuto con riferimenti filosofici e letterari, in particolare a Jean Améry, testimone dell’orrore di Auschwitz. L’autore indaga il ruolo dell’intellettuale in tempi di oscurità politica e morale, facendo i conti con le derive autoritarie che hanno attraversato la Polonia e l’Europa. Riemergono episodi biografici legati al 1968, all’antisemitismo e alle campagne d’odio che lo colpirono, ripresentate come monito contro ogni forma di nazionalismo semplificante. Nel «crepuscolo», suggerisce, non c’è resa ma un ultimo esercizio di coraggio intellettuale. Infine, il capitolo conclusivo di questa raccolta, il sette («Guardando al passato, per l’ultima volta»), uno scritto del 2016, assume la forma di un testamento intellettuale.

LA DISTANZA DELL’ETÀ avanzata permette a Bauman di valutare senza rancore la durezza del passato e le sue contraddizioni. Così, l’ultimo sguardo è rivolto alle generazioni future: non come eredità dottrinale, ma come invito a coltivare un’etica della responsabilità, della curiosità e dell’apertura. È il congedo di un autore che ha fatto della propria inquietudine, delle proprie appartenenze e identità multiple, personali e pubbliche, una forma di attenzione al mondo: la stessa che abbiamo oggi, in una fase di profondi ed incerti sconvolgimenti, il dovere di coltivare e rilanciare con forza.

Wlodek Goldkorn
Cent'anni e tre esili di un uomo fuori dalla tribù

Huffington Post, 19 novembre 2025

Alle domande a cui non voleva rispondere reagiva con la frase “sono un sociologo”, un modo non per troncare il discorso ma per spiegare che lui raccontava, interpretava e analizzava i fenomeni sociali, le loro cause e svolgimento ma non gli interessava fare il profeta, indicare le ricette su “che fare”, né tantomeno azzardare previsioni sul futuro. Diceva anche di essere una specie di uccello, una “rara avis” e al contempo un ornitologo, ossia, che nelle ricerche e narrazioni partiva dalla sua esperienza personale, a riprova dell’assurdità di ogni pretesa per cui la validità e la qualità del racconto dipendano dalla presunta imparzialità e dal non coinvolgimento personale di chi parla. E infatti la sua principale opera è stata la riflessione sulla modernità, articolata in quella che lui chiamava la “trilogia” - La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti; Modernità e olocausto e Modernità e ambivalenza – scritti fra gli ultimi anni Ottanta e i primi Novanta del Novecento. Confessava che quelli erano i suoi tre libri più personali. Aggiungiamo che in quei testi dimostrava di essere un erede dei giganti del pensiero critico del secolo scorso; prima fra tutte Hannah Arendt.

Cent’anni fa, il 19 novembre 1925 a Poznan, in Polonia, nasceva Zygmunt Bauman. Nella sua vita è stato due, o forse tre volte un esule. Ma prima di tutto questo, da ragazzo ha conosciuto il fenomeno dell’antisemitismo, dell’esclusione in quanto “altro” sulla base di un pregiudizio antico quanto idiota (nel senso di irriflessivo) e che torna ciclicamente. Il primo esilio fu la fuga, assieme al padre, in Unione sovietica nel 1939, dopo l’invasione nazista della Polonia. Raccontava spesso un paradosso: fu in Urss che venne riconosciuto come polacco, un’appartenenza che gli veniva negata invece dagli antisemiti dell’estrema destra del suo Paese. Il secondo esilio era quello del 1968. Questa volta in seguito a una campagna antisemita scatenata non da estrema destra, ma dal potere comunista e mascherata da una “lotta al sionismo” ma con l’uso della stessa retorica dei fascisti d’anteguerra. Per la cronaca: sulle pagine dei giornali di regime, Bauman era raccontato come un capo “sionista”, nemico della patria. Il terzo esilio, questa volta volontario, ebbe inizio nel 1971, quando infastidito dal clima dell’euforia nazionalista in Israele in seguito alla guerra del 1967 e dalla realtà dell’occupazione, dopo tre anni di insegnamento all’Università di Tel Aviv se n’era andato a Leeds, in Gran Bretagna.

Da queste esperienze trasse una conclusione semplice: occorreva non solo essere contro ogni nazionalismo (cosa per lui ovvia) ma non aderire ad alcun pensiero “tribale”, ai codici semantici rigidi e alle terminologie che segnano appartenenze ma non spiegano niente. Critico del capitalismo non si dichiarava anticapitalista, avversario del sionismo non si definiva antisionista, critico e vittima del comunismo mai si è arruolato (parole sue) nelle file degli anticomunisti.

Il pensiero di Bauman è stato eclettico, le sue fonti variegate, spesso a sostegno delle sue ipotesi citava romanzi o opere teatrali, in particolare Molière, amava richiamare i filosofi, Heidegger e Lévinas, Derrida e ovviamente Arendt. In privato si divertiva a discorrere di calcio e di come le squadre cambiavano carattere a seconda dell’avversario. Il suo metodo era una specie di “non metodo” e infatti ha lasciato molti orfani, ma non una scuola di pensiero né allievi veri: un po’ come appunto Arendt. O se vogliamo, il suo “non metodo” era un metodo: ascolto, attenzione ai dettagli che svelano il rimosso, capacità di stupirsi per le cose considerate ovvie e insofferenza per la banalità.  Non costruiva la sua identità su contrapposizione a un soggetto avversario o nemico, ma sulla sua libera scelta. Parlava della necessità di essere indipendenti dal giudizio altrui, di avere un linguaggio autonomo, a patto di essere consapevoli che il foro interno, il tribunale della coscienza che ognuno di noi ha nel suo intimo, sarebbe stato severo. Curioso, accettava volentieri di farsi intervistare non per vanità ma perché le conversazioni con i giornalisti erano fonti del sapere. Tuttavia non tollerava le domande ossequiose né scontate, conversava con tutti a patto di essere stimolato e anche contestato.

Si è detto che i suoi testi più personali e più importanti erano quelli sulla modernità. Si tratta di libri che contengono le tesi più difficili da digerire per chi si rifiuta di accettare che nella modernità e specie nel pensiero illuminista è insita una contraddizione di conseguenze atroci. Bauman amava ricondurre questa contraddizione alla disputa intorno al terremoto di Lisbona nel 1755 su come padroneggiare la natura, come riordinarla, controllarla, sottoporla al regno e alle regole della Ragione. L’ambivalenza era questa: i propositi di stampo razionalista e illuminista hanno portato l’Occidente alla prassi di esclusione e eliminazione di ogni elemento considerato nocivo, nella natura e fra gli umani. L’origine del razzismo, dell’antisemitismo, dei genocidi, della Shoah stava in quella ambivalenza in quella contraddizione; per rendere il mondo perfetto, per includere tutti si escludono e eliminano parti del genere umano. 

Negli ultimi decenni della sua esistenza terrena, Bauman ha molto riflettuto sulla frammentarietà del mondo, su coincidenza (e non determinismo che cerca l’origine “vera” dei processi) come fattore degli accadimenti, sulle incognite di un universo al tramonto e l’incertezza del nuovo. Sempre da “sociologo” (e semplificando) prediligeva il “disordine” di Simmel alla “razionalità” di Durkheim. Per qualche anno ha praticato la fotografia, un modo questo per raccontare con un linguaggio visivo le riflessioni sul tema di solitudine e disgregazione della società. Poi è tornato alla scrittura con una serie di libri su vari aspetti della modernità “liquida” o se vogliamo della società “liquida”. Non usava il termine “post-modernità”, ha sempre insistito invece sulla parola modernità, che cambiava carattere e volto. Parlava del divorzio fra potere e politica per cui i politici fanno promesse che sanno di non poter mantenere, della dissoluzione del legame fra capitale e territorio per cui non esistono più città fabbrica, spiegava come la crisi della sinistra andasse pensata in termini sociali e non di ideologia: era la scomparsa dei modi di vita della classe operaia con i suoi quartieri, luoghi di aggregazione, comunanza del destino la causa di questa crisi. E ancora, aveva capito come la rete e i social media fossero dei dispositivi per creare solitudine, aggressività e come un clic o un post non fossero impegno né politico né sociale. Spiegava come la rete incoraggiasse la chiusura nella bolla di chi la pensa allo stesso modo e favorisca la cancellazione dell’altro. E rifletteva sul modo in cui, in certi periodi, come questo che stiamo vivendo, quando viene posta l’alternativa fra libertà e sicurezza, le persone optano per la sicurezza (o il suo simulacro). 

Non si può sapere cosa avrebbe detto e pensato una persona che non c’è più. Ma so che gli avrei chiesto cosa pensasse di questa America, non l’America di Trump, ma di New York che coopta al massimo livello un immigrato prodotto di un’élite cosmopolita e laicizzata, figlio di un intellettuale di origini indiane cacciato dall’Uganda allo stesso modo in cui lui Bauman fu cacciato dalla Polonia, e sposato con un’artista figlia della borghesia siriana. Gli avrei chiesto se Zohran Mamdani è un’eccezione o invece un segno della vitalità della società Usa e della sua capacità di rinnovarsi. Una domanda a un sociologo, saggio teorico delle contraddizioni e ambivalenze e non un ideologo.



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