venerdì 25 aprile 2025

Non era solo tuo padre


Luciana Sgrena, Alessandria Today, 10 ottobre 2022 

Oggi a Masera l’ultimo saluto a Franco Sgrena. Così ho ricordato mio papà.

«Perdere un padre è sempre dolorosissimo, nel perderne uno come il tuo c’è anche più tristezza e però fierezza per come è stato» questo è il messaggio che mi ha mandato ieri Luciana Castellina. E, infatti la tristezza, il dolore per la perdita si accompagnano alla fierezza per quello che mio papà è stato e ha rappresentato.

Tanti di coloro che sono venuti a salutarlo mi hanno detto se ne va un pezzo di storia, in un momento in cui ci sarebbe più che mai necessario mantenere la memoria, la testimonianza viva di quella che è stata la lotta per la liberazione del nostro paese dal nazi-fascismo.

Franco Sgrena era una istituzione di Masera e non solo, soprattutto, mi hanno detto, non era solo tuo padre. Questa frase insieme alla commozione di chi la pronunciava – e non erano persone della mia età ma più giovani – mi ha resa particolarmente orgogliosa. La capacità di parlare ai giovani, di trasmettere valori non è da tutti.

Io sono orgogliosa di essere la figlia di Franco Sgrena, partigiano, contrabbandiere, ferroviere, comunista, sindacalista, che non si è mai arreso.

Se sono quella che sono, se ho potuto fare la vita che ho fatto è grazie a lui e anche a mia mamma Netta, come tutti la chiamavano, che è diventata Antonietta solo durante il mio rapimento. Ho avuto la fortuna di avere avuto genitori eccezionali e per lungo tempo. Non posso parlare di mio papà senza ricordare anche mia mamma; lui aspetto da duro, coerente, inflessibile, lei dolce e disponibile, ma molto forte sotto la sua apparente debolezza. La dignità era di entrambi. La coerenza che ho ereditato è quella che mi ha salvata nei momenti più difficili.

Quando sono nata mio papà non mi ha guardata per tre giorni perché ero una femmina e non poteva chiamarmi Ivan come il suo compagno georgiano che era morto combattendo accanto a lui quando, da partigiani, difendevano la val Cannobina. Forse anche per dimostrare quanto può valere una femmina sono diventata così testarda.

Mio papà era innanzitutto un partigiano e per questo sono cresciuta a pane e resistenza, resistenza declinata nei valori di libertà, giustizia solidarietà e laicità. Valori non scontati negli anni Cinquanta, soprattutto quando mi sono trovata a frequentare la scuola elementare in una classe gestita da una suora, ma era la scuola pubblica e non avevo scelta. Anche se ogni giorno la suora faceva pregare tutta la classe per la compagna Giuliana, costretta a vivere in una famiglia di comunisti, sotto accusa era mio papà perché la mamma era considerata una vittima, come me, ma io avrei dovuto redimermi facendomi suora, ma poi mi sono liberata diventando atea. Erano anni difficili, in attesa di un lavoro stabile, che sarebbe arrivato con l’assunzione nelle ferrovie, mio papà aveva fatto diversi lavori, soprattutto contrabbandiere. Un lavoro legittimato dalla necessità e dal fatto che gli spalloni conoscendo bene il territorio avevano fornito un grande aiuto quando erano entrati a far parte della resistenza, anche accompagnando ebrei oltre confine.

Spesso le difficoltà quotidiane del dopo guerra le abbiamo superate con il lavoro di mia mamma che era una sarta molto apprezzata e cuciva giorno e notte. Per necessità e anche per l’attesa snervante del papà contrabbandiere, si temeva sempre il peggio.

Mio papà ossessionato dalla coerenza con i valori della resistenza e dell’essere comunista ai tempi del Pci, anteponeva sempre i bisogni degli altri ai nostri, che eravamo considerati dei privilegiati, con la costernazione della mamma. La nostra casa è sempre stata aperta e lo è stata fino ad oggi. Casa nostra era alternativamente bivacco per gli spalloni che tornavano dalla montagna o sede politica per richieste di aiuto, distribuzione di volantini o dell’Unità.

Il primo maggio 1973 è stato invitato a Mosca come uno dei segretari di sezione del Pci con un rapporto tra popolazione e iscritti al partito più alti. Inutile raccontare il dramma della morte di Berlinguer e della fine del Pci, condiviso da molti compagni. Ha poi militato nel Pdci. Alla fine, nonostante le disillusioni, ha sempre mantenuto il suo impegno politico leggendo e informandosi.

Anche perché il suo impegno si estendeva a livello locale nella partecipazione all’amministrazione comunale più all’opposizione che nella maggioranza o nella Comunità montana e poi nel sindacato dei ferrovieri all’interno della Cgil.

Senza dimenticare il suo passato da spallone e quello che aveva rappresentato in una zona di confine come la nostra, aveva raccolto le firme per una statua e alla fine è nato il museo degli amici dello spallone, di cui vi parlerà Patrizia.

I miei genitori hanno dovuto affrontare due grandi e drammatiche prove, nel 2005 il mio rapimento, con l’assedio dei giornalisti che avevano invaso i loro spazi privati senza nessun rispetto per il dolore. Quella prova è stata superata con la mia liberazione anche se la morte di Calipari ha segnato con un lutto quella libertà.

Estremamente più drammatica e dolorosa è stata però la morte di mio fratello Ivan, un lutto che mia mamma non ha mai superato e ha segnato profondamente mio papà. Poi la morte della mamma, dopo 73 anni di vita insieme, è stato un duro colpo.

Negli ultimi anni con la malattia della mamma e poi sua, abbiamo intensificato molto il nostro rapporto. Abbiamo discusso di politica ma anche e soprattutto della resistenza della repubblica dell’Ossola. Lui non aveva mai nascosto il suo essere ribelle sempre e comunque, che l’aveva portato fin da piccolo ad essere contro i fascisti e i loro diktat e a compiere gesti che poi gli si sarebbero ritorti contro. Con amici e conoscenti ha passato le ore a raccontare episodi di quegli anni, è andato nelle scuole e ha rilasciato interviste per gli studenti che facevano le tesi sulla resistenza. Ha sempre mantenuto uno spirito critico, non si è mai fossilizzato sulle sue posizioni, nonostante le sue convinzioni

Se ne va un pezzo di storia vissuta, di memoria, un punto di riferimento, una persona coerente e resta una eredità da condividere.

Ringrazio tutti i presenti ma anche coloro che sono passati nei giorni scorsi a salutare mio papà perché la manifestazione di stima, di affetto, di partecipazione al dolore mi aiuteranno a superare questo distacco.


Andrea Pozzetta
La repubblica dell'Ossola
il manifesto, 25 aprile 2025

C’è stata una manciata di settimane, tra il settembre e l’ottobre del 1944, in cui tutto il mondo ha guardato a Domodossola e ha seguito con apprensione, attraverso giornali e radio, le vicende di quel territorio di provincia al confine tra ’Italia e la Svizzera. Giornali e radio di tutta Europa raccontavano di una piccola valle nell’estremo nord del Piemonte. Era un luogo appartato, che «dopo due millenni di esistenza a fuoco lento, fuori della storia» – scrisse in quelle settimane Gianfranco Contini – entrò «di colpo nella storia». L’Ossola era stata liberata il 10 settembre dalle locali formazioni partigiane e verrà amministrata per poco più di un mese da una giunta provvisoria composta da civili.

Con le sue valli, il territorio ossolano era sempre stato termine estremo e marginale della compagine nazionale. Terra di contrabbandieri, segnata da un confine poroso, per quanto militarmente presidiato, i suoi ritmi e i suoi equilibri erano stati sconvolti dalla guerra, dall’armistizio e dall’occupazione tedesca. Per il suo carattere di territorio montano alla frontiera con un Paese neutrale, l’Ossola era divenuta d’un tratto un potente magnete per fuggiaschi diretti oltreconfine (ebrei, ex prigionieri alleati, perseguitati politici), l’epicentro di movimenti di persone, di aspettative, il nucleo catalizzatore di idee e di esperimenti politici attorno a cui convissero solidarietà e persecuzioni, assistenza e tragiche vicissitudini.

Movimenti e resistenze furono possibili soltanto grazie alla partecipazione diretta della popolazione locale: una popolazione in gran parte rurale, composta da poverissimi contadini-pastori, intrecciata a una più esigua, seppur radicata, classe operaia. I primi gruppi di partigiani ebbero dagli embrionali comitati antifascisti il compito di mettere in salvo oltrefrontiera i fuggiaschi. Per farlo, si appoggiarono necessariamente alle comunità, che attivarono le secolari reti di contrabbando per organizzare i viaggi sulle montagne. Fu una resistenza umanitaria che mise in connessione l’antifascismo organizzato con una popolazione rurale storicamente depoliticizzata, vincolata a sentimenti di alterità e a un antistatalismo del tutto prepolitico di cui il contrabbando con la Svizzera era espressione.

Attorno ai più basilari sentimenti di umanità, attorno all’incontro tra simili aspettative e speranze, l’esistenza appartata dei montanari ossolani si ritrovò così a convergere con le organizzazioni antifasciste. Fu un profondo cambiamento di orizzonti, di certo non sempre idilliaco o privo di contrasti, eppure cominciò ad avviarsi un nesso tra la “grande politica” e le popolazioni rurali, con i loro impliciti patti di assistenza e autodifesa. Lo Stato era venuto meno dopo l’armistizio: le comunità locali rispondevano sostituendosi esse stesse a istituzioni mai come allora assenti.

Il medico socialista Ettore Tibaldi, che avrebbe assunto la guida del territorio liberato, conosceva bene i suoi montanari e i loro vincoli solidaristici. Se erano stati i partigiani a liberare l’Ossola, era stata un’idea di Tibaldi quella di creare un governo provvisorio che non solo si occupasse dell’amministrazione locale, ma che provasse a gettare le basi per nuovi istituti democratici guardando al futuro dell’Italia, forzando volutamente la mano di fronte alle precarie contingenze.

Tibaldi era un vecchio militante politico, classe 1887, licenziato nel 1926 dall’Università di Pavia per il suo antifascismo. Nell’Ossola liberata seppe cogliere la necessità di politicizzare la popolazione: diffondere i Comitato di liberazione nazionale, far rinascere le amministrazioni comunali, portare i partiti e le organizzazioni di massa laddove non erano mai esistiti, nella consapevolezza che la politica fosse emancipazione.

Quell’esperimento, forse velleitario (i nazifascisti premevano per la rioccupazione che sarebbe avvenuta verso la fine di ottobre), attirò a Domodossola la migliore intellettualità antifascista esule in Svizzera: Umberto Terracini divenne segretario della giunta, Gisella Floreanini organizzò i Gruppi di difesa della donna ed entrò nel governo provvisorio, intellettuali come Gianfranco Contini, Carlo Calcaterra, Mario Bonfantini gettarono le basi per una riforma scolastica, Ezio Vigorelli, giudice straordinario, improntò una giustizia basata sul rispetto della dignità umana e sul superamento del fascismo anche nei confronti dei fascisti stessi.

Come molte altre repubbliche partigiane, quella ossolana fu un’esperienza contraddittoria, con i limiti e i difetti di un esperimento politico che sorgeva dopo vent’anni di negazione di ogni confronto civile, se non dopo un’eternità di depoliticizzazione. Fu un’esperienza, però, che incoraggiò un’inedita presa di coscienza collettiva, dal basso, anche da parte di chi, per legge o per tradizione, era sempre rimasto escluso.

La repubblica dell’Ossola fu una palestra politica. Accanto ai vecchi antifascisti divennero protagonisti giovani cresciuti interamente sotto il fascismo, divenuti renitenti e poi resistenti. Giovane partigiano fu Licinio Oddicini, studente, che volle contribuire alla lotta di liberazione progettando e scrivendo giornali in cui diffondere il libero dibattito. Divenne addetto stampa della Giunta di governo e redattore del giornale Liberazione, una delle numerose testate sorte a Domodossola nel settembre ’44. Morirà a Milano il 25 aprile 1945 mentre tentava di liberare i detenuti politici di San Vittore.

Altri giovani ossolani, espressione del contesto rurale, contrabbandieri per necessità (anzi, “spalloni”, nel gergo locale, per distinguere il piccolo contrabbando di fatica, che nasceva dalla miseria, dai grandi trafficanti), passarono dalla resistenza alla guerra alla Resistenza armata. Franco Sgrena era uno di loro: per conto del Cln accompagnava in Svizzera i fuggiaschi lungo i sentieri del contrabbando. La chiamata alle armi della Repubblica di Salò lo avvicinò ai partigiani, totalmente privo di cognizioni politiche. Nella Resistenza Sgrena capì il fascismo e il senso di quella lotta a cui aveva aderito d’istinto. Nel dopoguerra diverrà militante comunista, sindacalista, amministratore locale. La sua è solo una delle tante storie di un rapporto a volte osmotico tra territorio e Resistenza, un esempio delle trasformazioni culturali avvenute nei giovani di allora, tra politicizzazione e militanza. Perché la storia della Resistenza è stata essenzialmente una storia di giovani e di comunità, che accanto a inevitabili diffidenze, chiusure, o alla perpetuazione di atteggiamenti di indifferenza prepolitica, suscitò anche rotture, aperture, fermenti di rinnovamento radicale.







Nessun commento:

Posta un commento