Il Sole 24ore, 23 aprile 2025
Papa Francesco si è in tutto conformato a san Francesco e la sua vita e il suo magistero si sono ispirati al Cantico delle creature: nel giorno della Pentecoste 2015 egli promulgò la Lettera enciclica Laudato sii, così inaugurandola: “«Laudato si’, mi’ Signore», cantava san Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba»”.
L’inno al creato di san Francesco entrava dunque, all’esordio del Magistero, come una matrice fondamentale del pontificato: secondo una profonda tradizione medievale (e che a sua volta risaliva agli Esameroni della tradizione patristica) il Dio invisibile continua a manifestare la sua generosa provvidenza nella creazione che si rinnova: se l’uomo ha peccato, la Natura è rimasta fedele al compito affidatole nel libro della Genesi ed ad essa dobbiamo conformarci per ritrovare l’ordine (il “cosmo”) del disegno divino universale.
Egli arrivava a suggerire: “Insistere nel dire che l’essere umano è immagine di Dio non dovrebbe farci dimenticare che ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua. Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi. Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio.” (IV.84). Riprendeva così una lezione antica, che già si era manifestata nell’Antico Testamento: Dio non è nei simboli e nel tuonare delle potenze, nella bufera e nelle tempeste, ma nella brezza leggera, nel soffio dello Spirito.
Il centro della sua testimonianza è stato in quel contemplare: “Dio ha scritto un libro stupendo, «le cui lettere sono la moltitudine di creature presenti nell’universo»” (IV, 85), in piena continuità con quel Liber creaturarum di cui noi siamo fors’anche refusi (direbbe Montale) ma iscritti per sempre con il nostro nome dall’inchiostro eterno della Vita.
Ereditando dai Padri e dal Paradiso di Dante e da Teilhard de Chardin, con uno slancio colmo di speranza, egli concludeva: “Alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1 Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine. Sì, stiamo viaggiando verso il sabato dell’eternità, verso la nuova Gerusalemme, verso la casa comune del cielo. Gesù ci dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). La vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati.» (IX, 243).
Nel 2019, il Sinodo sull’Amazzonia darà a quelle parole il volto del presente, incarnato in una sorta di città dell’uomo redenta e che conserva ancora la traccia dell’istante adamitico prima della Tentazione: “La ricerca di vita in abbondanza dei popoli indigeni amazzonici si concretizza in quello che essi chiamano il “buon vivere”, il quale si realizza pienamente nelle Beatitudini. Si tratta di vivere in armonia con sé stessi, con la natura, con gli esseri umani e con l’essere supremo, giacché esiste un’intercomunicazione tra tutto il cosmo, dove non ci sono né escludenti né esclusi, e dove possiamo forgiare un progetto di vita piena per tutti.” (I,9).
Si parla molto delle riforme di Papa Francesco, del suo ardore per una Chiesa povera tra i poveri; ma tutto questo non è che la conseguenza contingente della visione di una Redenzione cosmica che è il frutto dell’Incarnazione e della Risurrezione, dove anche la “morte corporale” è francescamente sorella nell’alito della rinascita: “Mors stupebit et natura / cum resurget creatura” (Dies irae). Finalmente una Chiesa fatta per l’universo, non per centellinare la goccia di balsamo sul peccato!
La vita di papa Francesco è stata esattamente l’incarnazione di quella Laus creaturarum, anche del suo finale – di fronte alla morte. Due anni or sono, infatti, celebrando il centenario della nascita di Pascal (nella Lettera apostolica Sublimitas et miseria hominis), papa Francesco scrisse profeticamente, anche per sé: «Apertura alla realtà significa per lui [Pascal] non chiudersi agli altri nemmeno nell’ora dell’ultima malattia. Di quel periodo, quando aveva trentanove anni, si riportano queste parole, che esprimono il passo conclusivo del suo cammino evangelico: “Se i medici dicono il vero, e Dio permette che mi rialzi da questa malattia, sono deciso a non avere alcun altro impiego né altra occupazione per tutto il resto della mia vita che il servizio ai poveri”. È commovente constatare che, negli ultimi giorni della sua vita, un pensatore così geniale come Blaise Pascal non vedesse altra urgenza al di sopra di quella di mettere le sue energie nelle opere di misericordia: «L’unico oggetto della Scrittura è la carità».
Tale è stata la preparazione di papa Francesco al transito e alla gloria, servendo strenuamente sino al giorno in cui morte e Risurrezione sono confluite in grazia. Non est hic: non una perdita, ma una rinascita con tutti i suoi poveri nel sempre.
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