lunedì 30 giugno 2025

La pagina 666


Gianni Oliva
Sui libri di storia decidono i docenti
La Stampa, 30 luglio 2025

Sono invidiosissimo dei colleghi che hanno scritto il manuale di storia della Laterza: una polemica nazionale è un’iniezione di pubblicità senza paragoni, insieme insperata, radicale e gratuita.

Non so quali fossero le intenzioni dell’onorevole Montaruli, che l’ha sollevata per prima: certo è che le battaglie identitarie servono a compattare la “curva sud” del proprio elettorato ma hanno, come inevitabile effetto, quello di scatenare una presa di posizione identitaria di segno opposto.

E così il manuale scolastico incriminato sta uscendo dal “gruppo” dei manuali in adozione e rapidamente sta diventando un testo da esaminare con più attenzione: non è più “il manuale della Laterza”, ma “il manuale che la Destra non vuole”. Come risultato, mi sembra discutibile e mortificante per tutti, detrattori e incensatori.

La Storia, si sa, è terreno insidioso perché per sua natura non è oggettiva, non approda a verità incontrovertibili come le scienze esatte. «La storia nasce dalle domande che il presente pone al passato» scriveva Marc Bloch: cambia il presente, cambiano le domande, cambiano gli indirizzi di ricerca e, in parte, cambiano le interpretazioni. Per questo Benedetto Croce sosteneva, a sua volta, che «la storia è sempre storia contemporanea»: anche se si studiano gli antichi Fenici o gli antichi Romani lo facciamo sempre dal punto di vista del presente.

Il dovere della storia è quello di essere “obiettiva”, cioè di partire dai documenti per arrivare ad una interpretazione, e non da un’interpretazione per trovare i documenti che la confermino. Mi sono laureato con un grande intellettuale torinese, Alessandro Galante Garrone, che un giorno mi sintetizzò il messaggio metodologico con una semplicità tanto incisiva quanto disarmante: «Quando scrivi un saggio di storia, nessuno di coloro che lo leggono devono capire per chi voti». Deve essere così per i saggi, deve essere così per i manuali.

Ma se di fronte ad un saggio il giudizio sull’obiettività (e quindi sulla validità) spetta al lettore che lo acquista, di fronte ad un manuale scolastico chi stabilisce se il testo ha o meno i requisiti adatti? Nell’Italia liberale operava nel ministero dell’Istruzione un’apposita Commissione sui libri di testo, deputata all’approvazione preventiva. Nel 1923 Giovanni Gentile ha ripristinato lo strumento, indirizzandolo prevalentemente al controllo dei testi destinati alle scuole elementari e alla formazione professionale; dopo il 1928 il problema è stato superato con l’introduzione del libro unico di Stato.

Ma nella scuola repubblicana il compito di stabilire l’idoneità è stata trasferita ai docenti e, con i decreti delegati del 1974, ai Consigli di classe e ai Collegi Docenti, chiamati in primavera ad approvare le adozioni per l’anno scolastico successivo. Ciò significa che il processo decisionale è stato trasferito a coloro che utilizzano i testi, ed è stato trasferito in una dimensione collegiale, dove ognuno spiega le proprie ragioni e, al momento del voto, ognuno conta per uno.

Qual è il proposito, ora? Tornare alle Commissioni che danno il parere preventivo? Alla supervisione ideologica del Ministero? E quante pagine (o quante righe) devono essere incriminate perché un manuale venga respinto?

Se posso permettermi, un consiglio ai decisori politici. Lascino che siano i docenti a giudicare e a scegliere e si preoccupino, invece, di un’altra cosa: e cioè che a pag. 666 del manuale, non arriverà mai nessuna classe. Perché nella nostra scuola la storia è poco in onore e, soprattutto, non è in onore la storia contemporanea. Questo è il vero problema, il vero vulnus: avere studenti che qualcosa di Annibale hanno orecchiato, ma non hanno quasi mai sentito parlare di Piazza Fontana e di Aldo Moro. Altro che gli equivoci sul sovranismo, sulle politiche sull’emigrazione, o sulle radici ideologiche di FdI. La politica rifletta su questo e intervenga, anziché fare battaglie identitarie sulla pag. 666…!

La democrazia senza la politica

Sabino Cassese
Ci sono più democrazie occidentali, ma sono più vuote

Il Sole 24ore, 29 giugno 2025

Aumenta il numero degli abitanti del pianeta che vive in regimi democratici, ma si svuotano le democrazie occidentali. La politica è spogliata di valore. Si registrano indifferenza e diffusione di sentimenti antipolitici. I segni di questa fase di passaggio delle democrazie sono molti e vanno dall’elettorato, ai partiti politici, alla prevalenza della democrazia costituzionale, all’europeizzazione.

I cittadini si allontanano dall’arena politica convenzionale, declinano la coesione elettorale e l’identità collettiva tra gli elettori. L’affluenza alle elezioni diminuisce, l’elettorato è volatile e imprevedibile. In secondo luogo, diminuiscono il numero degli iscritti ai partiti e il loro senso di appartenenza, aumenta la distanza tra partiti e elettori, sempre meno fedeli a causa del minore radicamento sociale dei partiti. I partiti sono sempre meno attenti all’integrazione, mobilitazione, aggregazione degli interessi e finiscono per rappresentare il governo nella società piuttosto che il contrario.

Tutto questo produce un aumento della componente costituzionale della democrazia (dei pesi e contrappesi), il ricorso a istituzioni non maggioritarie, un governo neo corporativo, in cui le politiche sono decise attraverso negoziati tra interessi e il coinvolgimento degli stakeholders, invece che con la partecipazione popolare. Contribuiscono a questo allontanamento dei partiti dalla società la disciplina legislativa dei partiti e il loro finanziamento pubblico. C’è, infine, una relazione tra l’integrazione europea e la crescente depoliticizzazione perché l’UE opera come una struttura in cui prevalgono le organizzazioni degli interessi e svolge una funzione di regolazione, piuttosto che di redistribuzione.

Quindi le democrazie sono sempre più alla ricerca di legittimità procedurali, registrano un disimpegno dell’élite, mentre perde peso la divisione tra destra e sinistra e si assiste a una presidenzializzazione della leadership politica.

Queste le conclusioni principali di una riflessione straordinariamente efficace, analitica, ben argomentata, fondata su un attento esame di tutti i dati disponibili, dello studioso irlandese Peter Mair, che è stato uno dei principali protagonisti della scienza politica contemporanea e ha insegnato all’università di Leiden e all’Istituto universitario europeo di Fiesole. Questo libro fornisce un contributo fondamentale alle trasformazioni in corso delle democrazie, certamente le più importanti da quando, nel 1835 e nel 1840, Alexis de Tocqueville analizzò la democrazia moderna e ne fissò i concetti principali. C’è ora da chiedersi se queste trasformazioni costituiscano soltanto una fase del ciclo di vita dei regimi democratici o, invece, rappresentino un segnale della sua definitiva obsolescenza.


Peter Mair

Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti

Rubbettino, pagg. 198, € 18

Dio è nel dettaglio

 

Vladimir Nabokov

LEZIONI DI LETTERATURA
ed. orig. 1980, trad. dall’inglese di Franca Pece
pp. 526, € 26
Adelphi, Milano 2018

Nel leggendario corso di letteratura, Nabokov annuncia agli studenti: “Lo stile e la struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee sono risciacquatura di piatti”. Lontano dalle mode e politicamente scorretto come è sempre stato, lo scrittore che più ha influenzato la letteratura contemporanea ci offre, in queste lezioni in forma orale, una guida senza tempo all’arte del romanzo, basata sugli appunti che prendeva nel prepararle, nei quali è contenuta in nuce la sua ars poetica. Ora possiamo di nuovo gustarle nella nuova accurata traduzione italiana, basata su quella classica introdotta da John Updike del 1980. Da allora molti inediti sono stati pubblicati, le società di studi nabokoviani si sono moltiplicate, e una nuova introduzione che tenesse conto di queste novità non sarebbe stata sgradita. Leggendo queste lezioni, abbiamo il privilegio di entrare in quelle classi assieme ai fortunati studenti della Cornell nei rispettabili e dignitosi anni cinquanta. Dalle testimonianze di alcuni abbiamo l’immagine di un insegnante appassionato, magnetico, ma soprattuto ironico: “È vietato parlare, fumare, lavorare a maglia, leggere il giornale, dormire, e, fatemi il piacere, prendete appunti!”. Nabokov si divertiva, più degli studenti, svolgendo l’ennesimo lavoro intrapreso per sopravvivere, così come si era divertito nei mestieri disparati che l’avevano sfamato nella povertà dell’esilio, nonostante la grande fama che aveva già acquisito negli ambienti dell’emigrazione russa. A Berlino si mantenne dando lezioni su un bizzarro insieme di discipline: inglese, francese, pugilato, tennis e prosodia, ma soprattutto tenendo conferenze che gli fecero guadagnare di più della vendita delle sue opere in russo.

Costretto due volte all’esilio, prima dalla Russia a causa del bolscevismo, poi dall’Europa a causa di Hitler, con l’arrivo in America nel 1940, fu a Wellesley che per la prima volta nel 1941 tenne una serie di conferenze, ma solo con l’insegnamento a Cornell dal 1948 al 1958 iniziano gli anni americani veramente produttivi per Nabokov. L’ambiente universitario di Cornell ritorna magistralmente ritratto in Pnin e soprattutto in Fuoco pallido, dove la minuziosa ricostruzione degli spazi, delle dimore, dei giardini intorno al campus, ci fa immaginare la backyard della casa di Ithaca dove la moglie Véra gli impedì di bruciare le pagine iniziali di Lolita, che Nabokov completò nel 1953. Le riletture alle quali dovette applicarsi per preparare i corsi degli anni cinquanta insieme alle riflessioni che accompagnavano l’insegnamento, avevano contribuito al suo reinventarsi come scrittore americano. Facendo tesoro dei suggerimenti di Edmud Wilson, si volge a Dickens e Jane Austen, che all’inizio non gli piaceva e, scoprendo il suo valore leggendo e rileggendo Mansfield Park, Nabokov trova inedite, modernissime anticipazioni del flusso di coscienza nella tecnica che definisce la “mossa del cavallo”. L’autrice così morigerata, grazie alla sua passione per gli scacchi, finisce per dargli spunti per i cugini incestuosi, protagonisti di Ada.

“Il mio corso è, tra le altre cose, una sorta di indagine poliziesca sul mistero delle strutture letterarie” recita l’epigrafe alle lezioni. Se le sue letture spaziano da Poe a Dickens a Joyce, da Flaubert a Proust, i suoi eroi infantili appartenevano invece al mondo dell’avventura e della detection: la Primula Rossa, Phileas Fogg, Sherlock Holmes, anticipando profeticamente le diverse identità che lui avrebbe dovuto inventarsi e la passione della ricerca del dettaglio, della traccia, della spia che porta a svelare l’enigma. Per inciso, l’“indagine poliziesca”, in italiano, pone i soliti problemi di traduzione: come sappiamo, il detective non è la polizia, specie per Nabokov e i suoi protagonisti, in costante fuga dalle polizie dei regimi totalitari.

Fu la sua grande passione di entomologo, instancabile investigatore di dettagli a consentirgli di acquisire quella conoscenza nitida del “magnifico, fiducioso, sognante, enorme paese” di adozione che fa splendere le pagine di Lolita. Nabokov ci insegna che nel leggere si deve cogliere e accarezzare il dettaglio, il “divino dettaglio”, che acquisisce vita propria e trasmigra da un romanzo all’altro come la lorgnette di Madame Bovary che passa nelle mani di Anna Karenina e poi della Signora con il cagnolino di Čechov, così come l’oggetto che intrama uno degli ultimi romanzi Transparent Things. “Dio è nel dettaglio” sosteneva Aby Warburg.

È la combinazione dei dettagli che fa scattare la scintilla sensoriale, il brivido rivelatore in grado di provocare il fremito lungo la spina dorsale che ci fa riconoscere un grande romanzo. Per questo Nabokov disegna alla lavagna gli schizzi dei giardini e la pianta del palazzo di Mansfield Park, la facciata della casa del dottor Jekyll, la mappa dei vagabondaggi di Bloom e Stephen Dedalus attraverso Dublino. Senza una percezione visiva del dettaglio e dell’itinerario dell’oggetto (la saponetta di Leopold Bloom nell’Ulisse), l’insieme del mondo inventato con cura e passione si riduce a un’immagine volgare, come quella della copertina in brossura, tratta dalla riduzione cinematografica di Il dottor Jekyll e Mr Hyde, “mostruosa, abominevole, atroce, criminale, abietta, disgustosa, corruttrice di minorenni”. Nemico delle generalizzazioni preconcette, che ci fanno vedere in Madame Bovary una denuncia della borghesia, o in Bleak House uno studio della Londra ottocentesca e non l’invenzione di una Londra fantastica, Nabokov sostiene che i grandi romanzi non sono che grandi favole, e che solo i minori non si prendono la briga di reinventare il mondo. La realtà per Nabokov va sempre messa tra virgolette e la grande arte nasce dall’arte di vedere il mondo come una potenzialità per la finzione, la fiction che è sempre poíeis, invenzione artistica, che fa dei grandi romanzi “favole supreme”, dove la magia del poeta non è disgiunta dall’ipotesi dello scienziato.

Con la consueta verve polemica, dai lontani anni cinquanta Nabokov ricorda alla nostra contemporanea “sete di realtà” che definire “vera” una storia è insultare sia l’arte che la verità. La letteratura, sostiene, non è nata il giorno in cui un ragazzino inseguito da un grande lupo grigio corse via gridando “al lupo, al lupo”, è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò “al lupo, al lupo” e non aveva nessun lupo alle calcagna; la magia dell’arte stava nell’ombra di quel lupo che lui aveva volutamente inventato. Solo così la storia dei suoi inganni divenne una storia proverbiale. E qui Nabokov diventa insieme grande critico e lodatore di se stesso. Se lo scrittore contiene in sé le tre dimensioni, del narratore, del maestro e dell’incantatore, è nell’ultima che risiede la sua grandezza. Con un’ulteriore “mossa del cavallo”, Nabokov infine inverte le nozioni convenzionali dell’artista e dello scienziato: per la grande arte occorrono sia la precisione della poesia che l’intuizione della scienza. Il grande scrittore scrive le sue favole supreme su uno svolazzo di magia che è soprannaturale e surreale insieme, come il poeta di Fuoco pallido che, riflettendo sulla propria ricerca dell’assoluto fa commentare al suo autore: “Fa piacere ricordare che la differenza fra il lato comico e il lato cosmico delle cose dipende da una sibilante”.

Giuliana Ferreccio, l'Indice, gennaio 2019

domenica 29 giugno 2025

Clara Maria


Una sera, sul finire dell’anno 1655, mentre si appresta a chiudere il suo negozio di spezie nel centro di Amsterdam, il giovane Baruch Spinoza incontra Frans van den Enden, medico e commerciante di libri che ama radunare intorno a sé le menti più brillanti e originali. Da allora la sua casa diventa per il giovane filosofo il luogo in cui coltivare la passione per gli studi filosofici, abbandonati a causa delle difficoltà economiche della famiglia. A quelle appassionate discussioni assiste anche Clara ­Maria, talentuosa suonatrice di clavicembalo a cui il padre affida il compito di insegnare il latino a Spinoza. Tra la giovanissima maestra e l’allievo nasce un rapporto intenso e contrastato, che chiama in gioco il lato più passionale di Spinoza, non soltanto pensatore rigoroso, distaccato dalla realtà terrena – l’inafferrabile tornitore di lenti dedito allo studio di Dio e della natura immutabile dell’essere –, ma uomo in carne e ossa, tormentato da pulsioni scaturite dal corpo e dai sensi. Da questo apparente conflitto tra due anime sgorgano le incalzanti domande della conversazione immaginaria in cui Spinoza ripercorre gli episodi salienti della propria vita, cercando di ristabilire il legame tra mondo interiore ed esteriore, tra pensiero ed eventi: le peregrinazioni dei suoi antenati, una famiglia di ebrei sefarditi in fuga dalla Penisola iberica fino all’Olanda; la morte prematura della madre; la cacciata dalla comunità ebraica di Amsterdam e dalla città; gli incontri con alchimisti, religiosi e cabalisti che nell’epoca dell’Inquisizione si muovevano sul pericoloso crinale tra fede e scienza. Un romanzo affascinante che è la biografia di un’idea e della complessa, sfuggente personalità che a quell’idea dedicò tutta se stessa. (presentazione editoriale)

L'avvento dello strutturalismo

 


Michel Onfray
Teoria della dittatura
traduzione di Michele Zaffarano
Ponte alle Grazie, Milano 2020

Il Sessantotto segna la fine del dominio gollista-comunista e la sua sostituzione con il tandem liberal-libertario. Prima del Sessantotto, la filosofia era globalmente marxista; dopo il Sessantotto, diventerà strutturalista e decostruzionista. La formula marxista filosovietica viene insomma sostituita da una formula neoliberale e atlantista. Volendo parlare per personaggi: il Sartre normalista che lasciava de Gaulle di stucco con la sua Critica della ragione dialettica (1962) cede il posto a un altro normalista, Bernard-Henri Lévy , autore di un libro come La barbarie dal volto umano (1977) che così tanto rallegra Valéry Giscard d'Estaing...

Lo strutturalismo è una delle metamorfosi del platonismo, un pensiero cioè che considera l'idea più vera della realtà. Parliamo della tabula rasa di Barthes in materia di linguistica e di linguaggio, di quella di Lévi-Strauss in ambito antropologico, di quella di Lacan sul terreno della psicologia, di quella di Althusser nel settore della storia, di quella di Derrida nel campo della verità, di quella di Foucault nella sfera della sessualità, di quella di Deleuze per quanto riguarda la razionalità.

Il materialismo dialettico sfuma a favore di un nichilismo decostruzionista. Ecco che si scopre che la lingua è fascista, che la civiltà giudaico-cristiana viene messa ai margini, che il soggetto cosciente scompare sotto l'inconscio letterario, che le masse e il proletariato non fanno più la storia, che la verità di ognuno si trasforma nella verità tout court, che la marginalità sessuale diventa norma e che lo schizofrenico viene assunto a prototipo della ragion pura.

Sono, queste, alcune delle linee di forza del gauchismo culturale in cui viviamo grazie al post-Sessantotto. E quali sono gli articoli di fede di questo gauchismo? Distruggere il linguaggio, fallocratico portatore degli stereotipi di classe e di genere; accelerare il processo del crollo della civiltà giudaico-cristiana e celebrare qualsiasi cosa contribuisca alla sua perdita; negare la natura umana, la biologia, l'anatomia e la fisiologia in nome di un corpo concettuale che viene decretato più vero del corpo reale; abolire la libertà, la scelta e la responsabilità individuale in nome dei determinismi sociali e sociologici; offrire alle minoranze razziali, sessuali, culturali e religiose il ruolo di autori avanguardisti della Storia; smantellare una volta per tutte la verità una e unica a tutto vantaggio di un prospettivismo in cui ogni cosa vale qualsiasi altra cosa; mandare in frantumi l'immagine patriarcale della coppia monogama a profitto della meccanica raggelata di concatenazioni egotistiche; mettere in causa la ragione ragionevole e ragionante e ratificare il discorso del metodo del pazzo.

L'ideologia strutturalista soddisfa gli Stati Uniti. È del resto proprio negli USA che questo pensiero si trasforma in French Theory! Il pensiero sessantottino soddisfa lo Zio Tom perché è critico nei confronti del blocco sovietico - che comunque scompare nel 1991... Aureolato del prestigio ottenuto in un paio di campus oltreoceano, questo pensiero rientra in Francia dopo aver vinto una guerra ridicolmente inconsistente. A importare non sono tanto i giochi verbali della teoria francese, quanto il fatto che quest'ultima è capace di sviare dal marxismo culturale, dal comunismo politico, dalla rivoluzione proletaria e dalla minaccia sovietica: è tutto quello che le si chiede.









La democrazia che non c'è


Marco Aime

Orbán e i discriminati, a che cosa si è ridotta la vecchia democrazia
Domani, 29 giugno 2025

Ci siamo adagiati su una certezza che si è rivelata fasulla, e ora tutto ci sta scappando di mano. Abitudine, pigrizia, scarsa conoscenza ci hanno portato ad associare quasi inconsciamente la parola “democrazia” al riconoscimento dei diritti umani, al loro riconoscimento e alla pace. Non è così, o meglio non sempre è così. A volte la democrazia si riduce a un semplice e puro meccanismo elettorale, neppure troppo democratico. Basti pensare alle sempre più ridotte percentuali di votanti, per dedurne che non governa chi ha una reale maggioranza di voti, ma chi ha la percentuale maggiore tra i votanti, che a volte sono meno della metà.

Il paradosso democratico è che può arrivare a governare chi democratico non è affatto: Trump, Netanyahu, Putin, Orbán, Modi, Milei sono tutti stati “eletti”, come lo fu Adolf Hitler nel 1933. A questo punto dovremmo chiederci se è democratico un governo in cui i cittadini sono discriminati sulla base del colore della pelle, della religione, dell’etnia o delle idee politiche. È una democrazia quella in cui la libertà di espressione è repressa e l’informazione nelle mani di pochi, che per interesse personale supportano il governo? È democratico un paese che non riconosce i diritti umani e che espelle, rinchiude, deporta donne, uomini, bambini che cercano un rifugio dalla miseria, solo per sopravvivere?
L'illusione postbellica (forse questo termine andrebbe rivisto, in effetti) della metà del Novecento, dopo la sbornia dittatoriale e feroce, sta svanendo. L’equivalenza democrazia uguale giustizia non è più scontata. Se in precedenza poteva accadere che una maggioranza reale poteva ignorare le istanze di una minoranza, dando vita a quella che Gabriel García Márquez chiamava la «dittatura della maggioranza», oggi assistiamo a una dittatura di una percentuale neppure maggioritaria. Spesso le minoranze, cioè quelle il cui rispetto dovrebbe essere l’elemento fondante di una vera democrazia, vengono totalmente escluse da ogni percorso decisionale. Basta notare come tanto a livello europeo quanto a quello italiano il parlamento venga ridotto a mero organo di ratifica delle decisioni della Commissione o del governo.

Nessuna discussione, tempi ridotti, cavilli organizzativi, strategie opportunistiche impediscono ogni confronto. Le decisioni sono state già prese a monte. Vediamo sempre più spesso rappresentanti delle opposizioni parlare, mentre gli esponenti del governo nel migliore dei casi li ignorano, in altri li deridono, li sbeffeggiano.

La vittoria elettorale garantisce l’annullamento dell’altro, questo è il risultato di uno slittamento democratico i cui colpevoli siamo noi cittadini. La nostra indifferenza, l’aver creduto che una cosa conquistata sia garantita per sempre, la scomparsa della memoria che ha ormai perso tutti i testimoni delle tragedie passate, ci ha ridotti a meri osservatori. Le passioni politiche si sono spente nel momento in cui nessuno più guarda al futuro. Inutile stupirsi, se i giovani dimostrano scarsa attenzione verso la politica: primo, nessuno parla di loro e dei loro problemi; secondo, hanno come riferimento genitori che a loro volta si disinteressano sempre di più alla vita pubblica. Inutile rimpiangere le belle bandiere del passato, se le abbiamo ripiegate nel cassetto o appese al muro dei ricordi.

La politica è slancio, è immaginare il cambiamento, lavorare per una società diversa, migliore, seguire un principio in cui si crede, non l’umore giornaliero, condizionato dall’informazione. Non è facile, soprattutto per i giovani, entusiasmarsi per passioni deboli come quelle espresse dalla politica attuale. Servono giganti, non nani per smuovere coscienze in subbuglio e in cerca di punti di riferimento solidi. Così la delusione e l’apatia degli adulti, lo sconforto e il vuoto attorno ai giovani, ci hanno allontanato dalla politica. «La libertà è partecipazione», cantava il mai troppo compianto Giorgio Gaber, e anche la democrazia, quella vera, lo è. È faticosa, forse, sì, ma ne vale la pena.

Il calcio ritrovato


Pasquale Di Palmo
Pol Vandromme dall'infanzia al tifo bestiale: uno struggente epicedio del calcio che fu
il manifesto Alias, 29 giugno 2025

Pol Vandromme è stato uno scrittore e critico letterario di rilievo, con una bibliografia ricchissima alle spalle, nato a Charleroi nel 1927 e scomparso a Loverval, nelle immediate vicinanze, nel 2009. Autodefinitosi «belga di passaggio e provinciale di Parigi», faceva parte di quella frangia di intellettuali cosiddetta buissonière, termine con il quale si designano i simpatizzanti di una destra anticonformista e sui generis. Studioso di Céline e Drieu La Rochelle, di cui apparvero in Italia per l’editore Borla due importanti monografie negli anni sessanta, recentemente ristampate, si occupò anche di altre figure legate all’intellighenzia conservatrice: da Charles Maurras a Lucien Rebatet, da Marcel Aymé a Roger Nimier, con la variabile Georges Simenon sullo sfondo; si interessò al contempo a chansonniers come Brassens e Brel e nel 1959 pubblicò un libro intitolato Le monde de Tintin, ispirato al celebre personaggio dei fumetti, ideato dal disegnatore belga Hergé, la cui ristampa del 1994 è curiosamente prefata da Nimier.

Grande appassionato di football, Vandromme scrisse un toccante epicedio sullo stesso, intitolato Le gradinate dell’Heysel Una morale per il calcio (pp. 110, € 15,00) che ora Vydia editore licenzia nell’ottima traduzione di Massimo Raffaeli, il quale, da raffinato esperto della materia, ne ha fortemente caldeggiato la pubblicazione presso svariati editori. L’argomento è considerato respingente, in quanto l’autore belga prende abbrivio, per la sua singolare analisi, proprio dalla tragedia dello stadio Heysel di Bruxelles, dove il 29 maggio 1985 persero la vita trentanove tifosi italiani, con centinaia di feriti, in seguito alle intemperanze degli hooligans prima della finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool (un ricordo inquietante per chi scrive, trovandosi il padre sull’anello opposto dello stadio). Emersero notevoli lacune a livello organizzativo. Per la cronaca la squadra torinese, in cui militavano campioni del calibro di Scirea, Rossi, Tardelli e Boniek, vinse uno a zero, con rigore trasformato da Platini e inaccettabile festeggiamento finale.

In realtà il titolo del libro risulta fuorviante, in quanto Vandromme non si sofferma ad approfondire solo l’episodio tragico dell’Heysel ma si avventura in un panegirico sul calcio (o sulle aberrazioni del «neocalcio», palesi a tutti), sconfinante in un’appassionata, poeticissima dichiarazione d’amore. Les gradins du Heysel, edito nel 1992 da La Table Ronde, è in effetti una sorta di Bildungsroman, caratterizzato, oltre che dallo strascico di illusioni e disillusioni di un vecchio adolescente, dal senso di frustrazione per non essere mai riuscito a praticare proficuamente tale sport, a causa dell’intransigenza dei genitori. Questo «contemplativo del calcio», come lui stesso si definisce, vòlto alla ricerca di un piacere estetico mai fine a sé stesso, diventa così ideale cantore di un avvenimento drammatico che si configura, nella sua emblematicità, quale diretta emanazione di un tifo dai tratti irriconoscibili e vampireschi, paragonato a una «Bestia insaziabile» assetata di sangue.

Con ben altro spirito Vandromme, acceso tifoso dello Sporting Charleroi, la cui divisa ricorda paradossalmente quella zebrata della Juventus, si recava a vedere le partite della sua squadra presso il vecchio stadio Mambour: «Da me, al Mambour, sono le nozze mistiche del nero e del bianco». Gli assi di quella compagine si chiamavano Jean Capelle e Jules Henriet, rispettivamente attaccante e centrocampista. Quest’ultimo, nonostante fosse alto un metro e sessantatré, riusciva sempre a spuntarla di testa, divenendo il beniamino di Vandromme che ricorre ai soprannomi di «fuoco fatuo» e «passamuraglie», ricavati dai titoli più rappresentativi degli amati Drieu La Rochelle e Aimée. Stendhaliano di elezione, Vandromme cita un altro Nume tutelare della destra, Henry de Montherlant, interessatosi a più riprese agli eventi sportivi e al calcio, paragonati alle leggendarie imprese atletiche di greci e romani.

Il football per Vandromme deve essere puro divertimento e, come tale, andrebbe affrancato da ogni esasperato tatticismo. Inaccettabile misurarsi per il pareggio (si pensi alla celebre teoria di Gianni Brera e Annibale Frossi secondo cui il risultato ideale sarebbe lo zero a zero), bisogna solo aspirare alla vittoria. Con «la sua scrittura netta e calcolatamente deragliante» (Raffaeli), Vandromme riesce nell’intento di contrapporre le partite idilliache della propria infanzia, giocate clandestinamente nei cortili di scuola sotto cieli ammantati di fuliggine, alle derive di un tifo che concepisce l’avversario alla stregua di nemico da distruggere. D’altronde non c’è alcun intento sociologico nella requisitoria di Vandromme, bensì il tentativo di rapportarsi al mediatico «connubio di idiozia e mercantilismo» con sguardo critico, teso al recupero di aspetti autenticamente lirici del football. Non è un caso che il curatore, nell’intensa prefazione, memore di certi inarrivabili approdi di Saba e Sereni, sostenga che il calcio «nel suo moto desultorio, rammenti ancora una volta le dinamiche della poesia»

Giono, l'artificio e la gloria


Pierluigi Pellini
Giono, esteta antimoderno

il manifesto Alias, 29 giugno 2025

Nel suo esilio danese, Louis-Ferdinand Céline non si capacitava di vedere a piede libero, in Francia, scrittori compromessi ben più di lui, a suo dire, con il regime di Vichy. Tra questi, Jean Giono, di cui una lettera del 1947 abbozza un ritratto folgorante e nella sostanza esatto, anche se la stizza induce il reprobo a qualche eccesso caricaturale: «Vale la pena di leggerlo, direi. Tanto istrionismo, panteismo affettato, rousseauismo forsennato. Bardo delirante della natura, enormemente artificioso. L’insieme suona orribilmente falso e gratuito, ma il dono poetico è indubbio… poesia piuttosto inglese, però, cosa alquanto singolare – nato inglese, direi, sarebbe stato grandioso – naturista lirico affettato… In francese fa un po’ ridere – anzi molto». Giono scrittore inglese, o forse meglio americano: autodidatta, traduttore di Melville, innamorato di Whitman, incline all’avventura, al mito e soprattutto al panismo, ostinatamente proteso a infondere in ogni sua pagina un respiro epico. La sua Provenza selvaggia e sottratta al tempo storico sembra farsi Frontiera, trascolorare in Far West. Quanto di meno conforme all’esprit de finesse della tradizione francese, certo; e al tempo stesso del tutto alieno alla vena popolare e urbana di chi, come Céline, quella tradizione cercava di sgretolarla. Giono, decisamente, nel Novecento francese è uno scrittore anomalo.
Da noi, un’unica sua opera ha avuto davvero successo. Non il cosiddetto Ciclo dell’Ussaro, che pure comprende uno dei rarissimi romanzi di qualche valore dedicati al nostro Risorgimento, Una pazza felicità (1957); ma una favola pedagogica antimoderna, pronta a trasformarsi in catechismo ecologista, L’uomo che piantava gli alberi (del 1953; in Italia lo pubblica Salani): un racconto che esibisce un ottimismo naturista e passatista un po’ stucchevole, cantando le gesta di un pastore che, da solo, riesce a rimboschire una landa desolata. Non è il libro più tipico dell’autore, né il migliore. Ma che effetto fanno i libri importanti di Giono, in italiano? Più che mai, dipende dalla traduzione. Se molte vecchie versioni – per esempio quelle di Ferdinando Bruno per Guanda (fra gli altri titoli: Collina, Un re senza distrazioni, Angelo) – oscillano fra approssimazione zoppicante e sprazzi di un kitsch vagamente dannunziano, tutt’altra tenuta, impeccabile, ha lo stile italiano del grande romanzo del 1934, mai prima tradotto, che l’editore Settecolori manda ora in libreria per le cure di Leopoldo Carra: Il canto del mondo (pp. 294, € 26,00).
In Giono dominano le correspondances orizzontali: similitudini e metafore, presenti letteralmente in ogni frase nelle pause descrittive (che sono poi il grosso del testo), sembrano germinare spontaneamente da un’auscultazione della natura in cui i sensi più legati alla materialità corporea, il tatto e l’odorato, scardinano il privilegio della vista – non a caso, la donna amata dal protagonista, Antonio, è Clara la cieca, alle cui rabdomantiche percezioni è demandata una porzione significativa delle pagine finali, che celebrano l’esplosione sensuale della primavera. La cosa davvero stupefacente, però, è che un romanzo lirico, d’impianto (se così posso dire) sistematicamente sinestetico, nella Francia degli anni Trenta, contragga debiti tutto sommato irrilevanti nei confronti della tradizione simbolista.
Che fra i rari estimatori italiani di Giono ci sia stato il pontefice degli ermetici, Carlo Bo, è frutto di un equivoco: i modelli del Canto del mondo sono forse biblici (Henry Miller, ancora un americano, lo paragonava al Cantico dei cantici), sicuramente omerici – non mallarmeani. Lo dimostrerebbe chiaramente, credo, un’analisi puntuale dell’invenzione figurale, il cui primum è sempre immediatamente sensoriale, mai intellettuale: metafore e similitudini si chiudono circolarmente, nell’immanenza della natura. Così, per fare solo tre esempi, Clara ha «occhi di menta», come foglioline verdi, profumate, brillanti, impenetrabili; fin dalla prima frase del libro, il fiume «scorreva a spallate», mentre in profondità la sua acqua era «morbida come pelo di gatto»; nei capitoli finali, «la pioggia pendeva sotto la tramontana come i lunghi peli sotto la pancia dei caproni». Forse la personificazione degli elementi naturali è affettata e artefatta, come voleva Céline; forse invece riesce a tratti a rinnovare, quasi miracolosamente, il panismo dell’antica Grecia; di certo, è tanto insistita e perfino ridondante da costringere il lettore a darle credito, o a chiudere il libro.
Il panismo pagano si accompagna a un altro tratto smaccatamente epico, antico: la frequente estetizzazione del corpo maschile e della sua energia flessuosa, in armonia con le più sublimi forze della natura – un tratto che non poteva non indurre oggi qualcuno, nell’accademia americana, a svolgere il suo triste temino su Queer Ecology and the Ecology of Queerness in the Work of Jean Giono. Sta di fatto che, in un romanzo che pure annovera tre comparse femminili memorabili (oltre a Clara, le due Gina, zia e nipote, che esibiscono non a caso un nome stendhaliano), i protagonisti sono tutti uomini. Quello epico, si sa, è un mondo maschile, e maschilista. Il pescatore Antonio, quarantenne nel pieno della sua virilità, vive da solo, su un’isola del basso corso di un fiume (che è la Durance, ma potrebbe anche scorrere fra le foreste del Nuovo Mondo) e incarna esemplarmente quell’eroismo anarchico e primitivo che ha indotto la critica degli anni Trenta a parlare, per lui come per altri personaggi di Giono, di ‘tarzanismo’. Risale il fiume, oltre le gole, in una Haute-Durance ribattezzata Rebeillard e più selvaggia e violenta del West, per ritrovare il gemello dai capelli rossi, unico figlio sopravvissuto di Marinaio, anziano boscaiolo (un tempo imbarcato sui velieri) che lo accompagna nell’impresa. Affronteranno un rigido inverno in una cittadina di conciatori, fra le montagne; e uno scontro violentissimo con Maudru, l’allevatore di tori cui il gemello ha sedotto la figlia: il canovaccio è, nientemeno, quello della guerra di Troia.
Ma il cupo Maudru, pur essendo il dominus tirannico del Rebeillard, pur circondandosi di schiere di mandriani che all’occasione si trasformano in spietati bravacci (accoltelleranno alle spalle Marinaio), non è affatto, semplicemente, il «cattivo», come suggerisce Carra, che oltre all’ottima traduzione firma anche la postfazione (La natura e le sue leggi, pp. 285-294, dove Giono è troppo frettolosamente scagionato dall’accusa di collaborazionismo). Maudru non è il Male, precisamente perché Il canto del mondo non è né un roman-feuilleton melodrammatico, né un’avventura trucemente salgariana, ma appunto un romanzo epico, dove al nemico non è negata una barbara e dolente maestà. Nel suo struggimento per un matrimonio finito troppo presto (per colpa sua, ma lui non può capirlo), nel suo rapporto profondo, paradossalmente francescano, con i suoi tori, nel suo silenzio impietrito, Maudru incarna lo spirito selvaggio della montagna; la sua sconfitta non fa che accentuarne la sinistra grandezza.
Di indole individualista e ribelle, Giono non ha esitato, ai tempi di Vichy, a dare protezione a ebrei e altri fuggitivi; eppure, è stato doppiamente complice del nazifascismo: perché ha scritto sui fogli della Collaborazione e ne ha accettato l’incenso (e i soldi); e perché il suo antimodernismo estetizzante, pur discendendo da presupposti filosofici e ideologici in parte diversi, era oggettivamente solidale con il ritorno alla terra predicato da Pétain.  Ma Giono è uno scrittore vero, che (a volte, non sempre) sa scavare senza manicheismo nelle ambivalenze del reale: quantomeno, come diceva Céline, «vale la pena di leggerlo».

sabato 28 giugno 2025

Il nuovo disordine mondiale

 

Marc Semo

Storico e direttore dell'Istituto Francese di Relazioni Internazionali (IFRI), Thomas Gomart affronta attraverso il suo lavoro i rischi geopolitici del mondo contemporaneo e della diplomazia francese. È autore di numerosi libri, tra cui L'accelerazione della storia. I nodi geostrategici di un mondo fuori controllo (Tallandier, 2024) e Ambizioni non confessate. Ciò che le grandi potenze stanno preparando (Taillandier, 2023). In un'intervista a Le Monde , discute del bombardamento americano dei siti nucleari iraniani al fianco di Israele e del successivo cessate il fuoco che Washington sta cercando di imporre.

Con l'operazione Midnight Hammer, gli Stati Uniti hanno ripristinato la credibilità del loro deterrente, come affermano di avere fatto?

A Donald Trump va riconosciuto un innegabile senso del contropiede. Nell'estate del 2021, Joe Biden ha ritirato in fretta le truppe americane dall'Afghanistan, innescando una ritirata strategica occidentale sfruttata in particolare dall'Iran e dal suo "asse della resistenza", nonché dalla Russia e dalla sua "operazione militare speciale" in Ucraina [avviata nel febbraio 2022] . Quattro anni dopo, Donald Trump ha colpito l'Iran sulla scia di Israele, contro ogni aspettativa. Così facendo, il discorso MAGA ["Make America Great Again"] di intervento non militare si è diramato in quello dei neoconservatori, per i quali l'uso preventivo della forza è il mezzo più sicuro di dominio. La deterrenza riguarda il discorso e le capacità, ma soprattutto la volontà di agire. In questo senso, Donald Trump riafferma la centralità strategica degli Stati Uniti.

Si tratta del ritorno di una superpotenza americana in Medio Oriente e oltre, oppure è solo una cortina fumogena?

Vorrei precisare questo, perché Donald Trump è anche l'uomo che non è riuscito a imporre le sue idee a Gaza o in Ucraina. Il 23 giugno ha annunciato un cessate il fuoco in Iran, ma sarà in grado di imporlo nel tempo? A mio parere, il vero protagonista delle trasformazioni in Medio Oriente è Benjamin Netanyahu. Qualunque cosa si pensi del Primo Ministro israeliano, bisogna riconoscere la sua eccezionale abilità nel far sì che il Presidente degli Stati Uniti facesse esattamente l'opposto di ciò che intendeva fare: bombardare invece di negoziare. Dal 1979, la Repubblica Islamica dell'Iran ha commesso un grave errore di analisi strategica, quello di affermare di competere indirettamente con gli Stati Uniti, pur rimanendo fondamentalmente una potenza regionale. Sperava di sfuggire al suo status attraverso le armi nucleari. Sta pagando a caro prezzo le sue pretese e la sclerosi del suo regime.

Quale messaggio si vuole inviare questo al presidente russo Vladimir Putin?

Barack Obama ha umiliato la Russia definendola una "potenza regionale". È esattamente l'opposto con Donald Trump, che ha allineato la sua retorica a quella del Cremlino abbandonando l'Ucraina. Tuttavia, invia il seguente messaggio: l'efficacia militare americano-israeliana in Iran non ha nulla a che fare con l'inefficacia russo-iraniana in Ucraina. Il controllo degli spazi comuni (il cielo e la capacità di puntare) riporta la Russia al suo arcaismo operativo e alle sue perdite umane.

E che dire del presidente cinese Xi Jinping?

La Cina, a differenza degli Stati Uniti, rimane dipendente dalle forniture energetiche della regione. Il messaggio è quindi quello di una dimostrazione di forza. Pechino aveva anche compiuto sforzi significativi per raggiungere la normalizzazione delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita entro il 2023. Di fronte a un presidente statunitense che sta prendendo iniziative commerciali e militari, Xi Jinping deve costantemente ricalcolare l'equilibrio di potere, sottolineando al contempo la sua mancanza di rispetto per il diritto internazionale.

Donald Trump vuole essere allo stesso tempo un leader di guerra e un costruttore di pace?

Donald Trump vuole principalmente diventare il premio Nobel per la pace e l'uomo più ricco del mondo. Sul fronte finanziario, gli Stati Uniti stanno mostrando segni di disimpegno militare strutturale, in particolare dall'Europa. Donald Trump ha ripetutamente espresso il suo rifiuto della guerra, una mossa ampiamente auspicata dalla sua base elettorale. Se ha dichiarato un cessate il fuoco così rapidamente, è stato per rimanere nell'ambito di un'operazione che avrebbe voluto definitiva. Ma se sappiamo quando una guerra inizia, non sappiamo quando finisce. Ricordiamo che George W. Bush dichiarò che la missione era stata compiuta nel maggio 2003, sei settimane dopo l'inizio degli attacchi contro l'Iraq di Saddam Hussein. Il resto lo sappiamo.

Quali potrebbero essere le conseguenze per gli europei?

Sono in prima linea, ma emarginati. Le loro società sono sempre più sottoposte a un processo di trasformazione, persino divise dall'estensione del conflitto israelo-palestinese. Alcuni di loro sono stati vittime, anche di recente, della storica ostilità della Repubblica Islamica dell'Iran [due ostaggi francesi rimangono detenuti in Iran, Cécile Kohler e Jacques Paris] . Inoltre, Teheran sostiene la Russia nel suo sforzo bellico in Ucraina, che rimane il centro di gravità della sicurezza europea. Tuttavia, quest'ultima sembra scegliere l'impreparazione industriale, militare e civile di fronte alla Russia, nonostante il cambio di rotta di Donald Trump e la situazione sul campo.

A febbraio, Israele, Stati Uniti e Ungheria hanno votato insieme alla Russia contro la risoluzione presentata dall'Ucraina all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ciò rappresenta una rottura diplomatica da cui gli europei non riescono a trarre la conclusione logica: di fronte a Mosca, potrebbero ritrovarsi soli prima del previsto. Lasciare l'Ucraina al suo destino accelera questo sviluppo. Mentre Israele bombarda l'Iran, la Russia bombarda l'Ucraina. Donald Trump fornisce armi a Gerusalemme, ma non più a Kiev. Gli europei stanno soffrendo.

Questa nuova situazione pesa sulla NATO?

L'atteggiamento di Donald Trump all'ultimo G7 [a metà giugno] ha paralizzato gli europei, che cercano di non contrariarlo al vertice dell'Aia [il 24 e 25 giugno] . Per farlo, annunceranno aumenti delle spese militari, sapendo bene che alcuni di loro sono incapaci di assumerseli a livello di bilancio. La politica europea consiste nell'arroccarsi nel tentativo di mantenere, a tutti i costi, una presenza militare americana sufficientemente dissuasiva. Ricordiamo, allo stesso tempo, che Russia, Germania e Francia si sono opposte congiuntamente all'intervento anglo-americano in Iraq nel 2003, che aveva profondamente diviso un'Unione europea alla vigilia di un allargamento a paesi allineati con Washington. Questo episodio del 2003 è diventato il super-ego della diplomazia francese, che non può riprendersi dall'aver avuto ragione senza essere stata in grado di cambiare il corso delle cose.

Da allora, Parigi ha utilizzato la questione iraniana per dare concretezza alla politica europea attraverso il formato E3 (Parigi, Londra e Berlino) e per avvicinarsi a Washington fino alla prima elezione di Donald Trump. Ricordiamo il vertice del G7 a Biarritz nel 2019 e il tentativo europeo di mediazione tra il presidente americano e l'Iran.

Tuttavia, questo riferimento al 2003 è fuorviante, poiché la Francia è intervenuta in Libia nel 2011. Oltre all'Iran, la Russia ha sostenuto Bashar al-Assad in Siria senza impedirne la caduta. Per quanto riguarda la Germania, la guerra in Ucraina ha rivelato la sua dipendenza energetica da Mosca e lo stato dei suoi assetti militari. Gli europei sperano nella continua protezione americana contro la Russia e nella fine della guerra in Ucraina per tornare a una qualche forma di normalità strategica. Potrebbero benissimo non avere né l'una né l'altra.

I paesi europei, e in particolare la Francia, fortemente impegnati dal 2003 nella ricerca di un accordo sul nucleare iraniano, possono ancora svolgere un ruolo?

Gli europei hanno sempre sostenuto il principio dei negoziati con l'Iran che coinvolgono Stati Uniti, Cina e Russia. Hanno maturato una competenza unica su questo tema e hanno raggiunto l'Accordo di Vienna nel 2015, un risultato diplomatico notevole. Retrospettivamente, vediamo le conseguenze della decisione di Donald Trump di ritirarsi dall'accordo durante il suo primo mandato, incoraggiato da Benjamin Netanyahu, da sempre ostile ai negoziati. Nicolas Sarkozy dichiarò nel 2008 di voler evitare "l'alternativa catastrofica": "La bomba iraniana o il bombardamento dell'Iran". Diciassette anni dopo, non è certo che il bombardamento dell'Iran significherà la fine della bomba iraniana.

Questo atto di forza americano allargherà ulteriormente il divario tra l'Occidente e il resto del mondo?

Questa opposizione mi sembra schematica e fuorviante. L'Occidente di Trump rappresenta il disprezzo per gli europei e la condiscendenza verso gli israeliani. Quanto al Sud del mondo, anch'esso , come l'Occidente, si abbandona a doppi standard: è un "Sud transazionale" ancora in gran parte ancorato a una logica unilaterale. Nel 2024, l'Iran è entrato a far parte dei BRICS+, da cui la Cina mantiene le distanze. L'India sta emergendo dal suo confronto con il Pakistan quattro anni dopo gli scontri con la Cina. La Russia sta cercando di sottomettere l'Ucraina. Brasile e Sudafrica non stanno emergendo strategicamente. Immensamente ricchi, Arabia Saudita ed Emirati non possono garantire da soli la propria sicurezza. Egitto ed Etiopia si stanno indebolendo. L'Iran si trova in una situazione di estrema solitudine. Il suo "asse di resistenza" è dislocato. In realtà, l'azione militare congiunta israelo-americana sta ulteriormente frammentando la scena internazionale.

https://www.lemonde.fr/idees/article/2025/06/26/thomas-gomart-historien-donald-trump-reaffirme-la-centralite-strategique-des-etats-unis_6615929_3232.html