venerdì 27 giugno 2025

Francesco Ciafaloni (1937-2025)


Francesco Ciafaloni tra sindacato e impegno culturale

Frammenti È stato una firma importante dei «Quaderni piacentini», di «Inchiesta», di «Una città», e redattore prima alla Boringhieri e poi per tanti anni all’Einaudi
Goffredo Fofi, "il manifesto", 21 giugno 2025
Francesco Ciafaloni, morto due giorni fa, è stato un personaggio molto notevole nella Torino culturale e sindacale dagli anni Sessanta a oggi. Abruzzese di montagna, veniva dalla scienza (laureato in ingegneria) e aveva studiato negli Usa con una borsa, lavorando poi per l’Eni di Mattei fino alla morte di quello. È stato una firma importante dei «Quaderni piacentini», di «Inchiesta», di «Una città», e redattore prima alla Boringhieri e poi per tanti anni all’Einaudi, dove fu amico di Luca Baranelli, con cui scrisse per Quodlibet Una stanza all’Einaudi, uscito dieci anni fa.
Conobbi in una manifestazione torinese lui e Carlo Donolo, un ligure che veniva dalla scuola di Francoforte, e non feci nessuna fatica a convincere Bellocchio e Cherchi ad averli come nuovi e preziosi collaboratori dei «Quaderni piacentini» di cui erano puntuali lettori. Era tra i pochi che davvero sapessero di scienza, e questo gli guadagnò l’amicizia di Italo Calvino. C’era stato il sempre attuale pamphlet Le due culture di Snow, un saggio che denunciava la distanza tra chi sapeva di scienza e chi di letteratura, e Francesco fu, all’Einaudi, un perfetto esempio del dialogo tra scienziati e letterati. Fu anche un prezioso collaboratore per le riviste della nuova sinistra, e operò attivamente all’interno del sindacato torinese, a cui si era accostato al tempo dell’inchiesta operaia dei «Quaderni rossi» di Panzieri, vicino in questo a Vittorio Rieser.
Stupiva di lui la fedeltà all’Abruzzo originario, l’amore per la montagna, il culto dell’amicizia, l’inesauribile curiosità e attenzione per i fenomeni di una società che, dopo anni di grandi movimenti, si andava di nuovo dividendo non più tra settentrionali e meridionali ma ancora e fortemente tra ricchi e poveri, tra borghesi e proletari. E fu il sindacato il suo campo d’interesse più forte. Se ci mancherà è anche perché la sua infinita curiosità e la sua conoscenza del mondo del lavoro sono oggi piuttosto trascurate dalla fiacca e banale cultura della sinistra ufficiale (di «cultura non ufficiale» ne sopravvive ben poca, rispetto al passato).
A distinguermi da lui e da Baranelli fu, rispetto all’Einaudi, soltanto la mia scarsa simpatia per Giulio, di cui mi sembrava difficile vedere il buono che pure aveva, per esserne stato in qualche modo vittima al tempo della mia inchiesta sugli immigrati a Torino. Tra tanti saggi universitari che ogni giorno si sfornano, è difficile trovare degli studi su Raniero Panzieri, che con Foa, e spesso in contrasto con lui, è stato uno degli ultimi grandi esponenti di una cultura politica non legata (e condizionata) dal Pci di Togliatti e di Cantimori.
Figura insolita di letterato e scienziato (e di tradizione contadina), Ciafaloni avrebbe avuto ancora molto da insegnarci se la sorte non si fosse accanita su di lui qualche anno fa ma solo in parte strappandolo alla sua vitalità polemica e alla sua intelligenza delle cose – come testimoniano gli articoli scritti per «Una città» (e altrove), che meriterebbero di venir raccolti in volume.


Addio a Francesco Ciafaloni, al suo sguardo accorto sulle cose del mondo
Adriano Sofri, Piccola posta, Il Foglio, 20 giugno 2025
Mercoledì Luca Baranelli mi ha detto che era morto Francesco Ciafaloni. Loro due, quasi coetanei, sono stati molto amici. Avevano occupato dal 1970 al 1983 una stanza della Einaudi, che gli altri chiamavano "l'Ufficio politico". Francesco era addetto alle scienze, "umane e disumane". Lo ricordarono nel 2012 intervistati da Alberto Saibene, per l'ed. Quodlibet. Ciafaloni raccontò allora il più bello fra gli innumerevoli aneddoti su Giulio Einaudi. "Passò da Torino Joan Robinson, di cui Einaudi aveva molti libri in lista d'attesa. Bisognava spiegarle perché. Ed era ovvio che il compito toccasse, alla presenza di un benevolo Einaudi, a un redattore, cioè a me. Mentre parlavamo arrivò Gerlin, l'usciere, con una sola tazzina di caffè. Einaudi ne ordinò subito un'altra; ma intanto di chi era quel caffè che si freddava? Einaudi aveva voglia del caffè, ma Joan Robinson era ospite, era donna, ed era una dei più grandi economisti al mondo. Einaudi mi guardava ed esitava. Poi, mentre la Robinson parlava, e io cercavo di spiegare i ritardi, ammiccò, sorrise e bevve lui il caffè".
Abruzzese "della montagna", Ciafaloni era ingegnere, un master in Texas, aveva lavorato all'Eni fino alla morte di Mattei, quando non si potè più. Delle sue molte e concretissime competenze, quella mineraria e petrolifera gli permise di spiegare prima e meglio di chiunque il tramonto renitente del petrolio. Avevo un'ammirazione senza riserve per il suo modo circostanziato ed esatto di sapere le cose, e in qualche occasione pubblica dei primi anni '70 citai il futuro del gas e dell'olio di scisti che avevo sentito nominare da lui: mi guardarono come se stessi millantando chissà che fesseria. Fui vendicato quando lo shale-gas fece la fortuna dei produttori americani, e la sfortuna dell'America.
Vicino ai movimenti che precedettero e seguirono il '68, l'età maggiore e la formazione scientifica - e anti-scientista - lo immunizzarono dai furori ideologici. Ne sono testimoni i fitti interventi di quegli anni sui Quaderni Piacentini. Pensava che i sindacati, anche quando erano lenti e sordi ai nuovi protagonisti sociali e ne venivano scavalcati, restassero i mediatori dei cambiamenti possibili. Continuò a pensarlo dopo la risacca dei movimenti, e ad avvertire del "Buon uso degli elefanti" (2018): "Le organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti e dei pensionati sono le maggiori organizzazioni di massa in Italia, forse le uniche rimaste. Sono gli elefanti del sistema sociale. ... Non possiamo essere indifferenti a ciò che fanno gli elefanti; neppure dare per scontato che ci saranno sempre, anche se non ce ne curiamo. Anche gli elefanti muoiono. La natura non lascia vuoti e ci sono grossi animali in circolazione assai peggiori degli elefanti. Ci sono i monopoli mondiali: Google, Amazon, Uber, Airbnb... Ci sono le grandi finanziarie, le grandi banche". Un'analoga misura riservava all'Europa: "I governanti della costruzione europea hanno sbagliato molto, quasi tutto. Ma qui siamo, e senza Europa e senza euro non andiamo da nessuna parte". Quanto a sè, preferiva annoverarsi fra gli asini. "L’asino è un animale notoriamente ostinato, disobbediente. Non esegue gli ordini che non gli piacciono, recalcitra. Qualche volta, oltre a recalcitrare, scalcia contro chi lo tormenta. Non si lascia condurre al macello senza resistere. Ma non carica in gruppo giù per un vallone come qualche volta fanno i montoni". Scriveva così, nel 2019, a proposito dei gilet gialli che, negli autonominati portavoce, gli sembravano una versione dei nostri 5 stelle, appena votati dagli italiani, "un’azienda di sondaggi in rete, proprietaria di un partito".
E' stato autore di libri importanti e sempre legati all'esperienza, a una pratica dell'inchiesta, soprattutto sugli immigrati ("Il tasso di occupazione degli stranieri nel 2008 era dieci punti più alto di quello dei cittadini italiani. Il sistema Italia non ha accolto nessuno ma solo usato lavoro a basso costo"), sulla demografia ("Nessuno ha inventato un modo di avere dei ventenni senza aver avuto dei neonati venti anni prima; o senza lasciarli arrivare dai Paesi dove sono nati"), sulla sanità... Italo Calvino si stupiva che fosse abbonato a bollettini statistici dell'Istat, di Eurostat, dell'Onu, del FMI: "Leggi davvero tutti quei numeri?" "Eh, sì" "Bel matto che sei!".
Suoi contributi si trovano pressoché in tutte le riviste "militanti", frequentate senza far caso al prestigio accademico o mondano. Diceva di aver imparato dai più vecchi, gente come Bruno Trentin, come i razzismi siano più antichi e profondi delle congiunture economiche e della competizione per le risorse fatte scarse. "Non possiamo illuderci che il razzismo risparmi i lavoratori, gli operai, i poveri. Anzi, sappiamo che i più istruiti, almeno fino a quando lo richiedono le buone maniere, si nasconderanno, fingeranno di essere universalisti, mentre disprezzano gli stranieri appena arrivati, che sono anche i più poveri, i meno istruiti: brutti, sporchi e cattivi. I meno istruiti invece si schierano esplicitamente a difesa dell’unico vantaggio che hanno: essere simili alla maggioranza di quelli nati qui".
Non c'è suo scritto che non sia esemplificato da storie di persone e di fatti, e ricordi proprii. Era stato amico di Primo Levi, avevano in comune le camminate di mezza montagna, il piacere di raccontare. "Parlavamo di chiavi a stella, di storie naturali; qualche volta del passato che ritorna, come non ha mancato di fare... Mai dei problemi personali suoi". L'aveva intervistato, per "una rivistina della Cgil, Ex machina", nel 1986, a ridosso del bombardamento della Libia, dopo l'attentato alla discoteca di Berlino. Levi, che sarebbe morto l'anno dopo, gli disse una cosa dalla risonanza attuale: "Gli americani hanno detto apertamente che volevano proprio uccidere lui. Gheddafi non mi piace, però non mi pare che si debbano ammazzare le persone che non ci piacciono. Eliminarlo politicamente è un conto, eliminarlo fisicamente è un altro conto".
Di sé, Ciafaloni, che era di una sincerità, lealtà e onestà rare, diceva: "Personalmente, non credo in Dio, ma vengo da una famiglia contadina e quindi cattolica. Mio padre e mia madre quel 18 aprile, quando avevo 11 anni, dieci di meno della maggiore età di allora, le elezioni le hanno vinte. A 64 anni di distanza, da laico e socialista, in senso lato, non li accuserei di aver tradito la patria".
Di Donald Trump aveva scritto: "Non è una novità, ma non possiamo fare a meno di una politica di difesa europea. Non possiamo andare avanti a deprecare le sparate di Trump, e continuare ad ospitare le sue basi perché non abbiamo alternativa. Svegliamoci". Era però il primo Trump, 2017. Non è una novità, infatti.


Fausto Fabbri Fb, 19 giugno 2025

A molti degli amici qui su FB il nome di Francesco Ciafaloni non dirà niente. Altri ricorderanno più puntualmente la grandezza della sua mente e della sua storia e di quello che ha scritto, io vorrei solo dire qui qualcosa su quello che mi ha lasciato. L’ho conosciuto durante la sua lunga collaborazione affettuosa e preziosa con la rivista Una Città, nelle riunioni nazionali, nel loro prima e dopo e nei suoi scritti, bellissimi, che ha pubblicato. Lo ricorderò come uno dei pochi che riuscisse a dare un senso alla parola “politica”, una parola che, visti i massimi interpreti, nazionali e mondiali, sembra ora quasi una bestemmia. Era un ingegnere di formazione, aveva lavorato per l’Eni e questa sua formazione scientifica era sposata a quella umanistica, in una unità della cultura che lo teneva lontano dal pensiero assoluto. Lo spazio della politica nasceva da questo sguardo indagatore sui cambiamenti della tecnica e dalla necessità che un’altra scienza di controllo, la politica, proteggesse la comunità umana dalle sue ingiustizie, i suoi eccessi, i suoi guasti. La sua introduzione al libro di Norbert Wiener ( un libro del 1966, Wiener è il padre della cibernetica, la tecnologia dell’informazione) è, dopo 60 anni, perfetta per confrontarsi, oggi, con i pericoli e vantaggi dell’intelligenza artificiale. La politica, Francesco, te la faceva toccare. Leggeva una statistica della dissoluzione della classe operaia e vi vedeva una curva gaussiana, descrizione grafica che gli era famigliare come ingegnere petrolifero, per poi tornare alle persone le cui vite conosceva nel suo impegno quotidiano e nella sua vita curiosa. La conversazione con il ragazzo al mercato di Chieri, la ragazza rumena che lava i capelli… Da questo instabile miscuglio nascevano le idee, che lui raccontava con la passione di un ragazzino con parole che frullavano nell’aria insieme alle sue mani.
Ricordo un suo “appunto” su Una Città, per me indimenticabile, in cui raccontava come funziona la trasformazione del mondo attraverso l’inesorabile trasformazione di piccole cose nel suo piccolo paese del chierese, in Piemonte. Piccole cose, i contadini invecchiano, i negozi chiudono, le strade rifatte male, le scelte di giunte comunali, i vicini che cambiano e rapporti usuali che si rarefanno. L’ambiente cambia, il pensiero anche e c’è la necessità di avere un intervento adeguato. Senza la nostalgia del tempo andato e con l’ingegneria positiva sul tempo che viene. La politica appunto.
Ma adesso, che è il momento dei ricordi, quello più forte, quello che è Francesco, è lui che ride divertito e ti parla roteando le mani nell’aria.


Centro Studi Sereno Regis, 19 giugno 2025

In memoria di Francesco Ciafaloni. Gli lasciamo la parola riprendendo un suo commento scritto per l’uscita di Autobiografia di una Repubblica, di Guido Crainz (Donzelli, 2009).

È scomparso ieri, mercoledì 18 giugno 2025, Francesco Ciafaloni. Nato nel 1937 a San Pietro ad Lacum, vicino Teramo, in Abruzzo. Si era laureato in ingegneria elettronica a Roma, vivendo negli studentati universitari, e, dopo un master in ingegneria del petrolio nella Texas University, un’università pubblica, si impiegò all’AGIP nel 1961.

Dopo brevi esperienze lavorative e di studio nel campo dell’estrazione petrolifera seguendo la traccia dell’ENI di Enrico Mattei negli Stati Uniti e in Sicilia, si trasferì definitivamente nel capoluogo piemontese divenuto sua città adottiva e di lavoro, svolto prima per la casa editrice di Paolo Boringhieri e poi come redattore per Einaudi con amici e compagni come Luca Baranelli, Italo Calvino, Primo Levi, Norberto Bobbio, Renato Panzieri, Renato Solmi.

Svolse un’infinità di incarichi e inchieste nel sociale, all’IRES CGIL, in Oltre il razzismo, e con le più importanti riviste italiane del Novecento, dai Quaderni piacentini di Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi a Una Città di Forlì, fino a Linea D’OmbraLa terra vista dalla lunaLo straniero e Gli Asini di Goffredo Fofi.

Di cultura umanista e scientifica raffinatissima, formatasi anche in lunghi anni di letture attente come correttore di bozze per le principali case editrici italiane, Francesco Ciafaloni è stato uno dei più importanti interpreti e anima del pensiero social-democratico nella nostra città e in Italia. Un maestro e fratello maggiore, riferimento imprescindibile di tanti attivisti e scrittori, politici, sociologi formatisi negli ultimi decenni a Torino e non solo.

Gli lasciamo la parola riprendendo un suo commento scritto per l’uscita di Autobiografia di una Repubblica, di Guido Crainz (Donzelli, 2009).

Enzo Ferrara


Autobiografia di una Repubblica

Il nostro regime di governo si basava sulla partecipazione delle masse. Orbene, che cosa abbiamo fatto perché questo popolo al quale erano in tal modo affidati i nostri destini e che, secondo me, non era in sé affatto incapace di scegliere la via giusta – che cosa abbiamo fatto per fornirgli quel minimo di informazioni chiare e sicure, la cui mancanza rende impossibile qualsiasi comportamento razionale?

Marc Bloch: La strana disfatta.

Non è inconcepibile, in via di principio, che un giorno la nostra (civiltà) si allontani dalla storia. Gli storici farebbero bene a riflettervi. La storia mal compresa potrebbe, se non vi si pone attenzione, trascinare nel proprio discredito la storia meglio intesa.

Marc Bloch: Apologia della storia.

Nel disastro culturale, politico e pratico in cui siamo, servono a qualcosa gli storici? Direi proprio di si. Anzi direi che di loro c’è assoluto bisogno; che un mancato lavoro di ricostruzione e interpretazione storica, con straordinarie eccezioni naturalmente, è una parte non piccola del disastro. In certo senso è l’altra faccia della convergenza nel pensiero unico neoliberista e imperiale di quasi tutti gli economisti e commentatori politici.

Da lettore di storia, da utente di una produzione culturale che secondo me non ci ha dato abbastanza analisi e strumenti, vorrei chiarire che le citazioni in exergo non sono messe lì per nessun autore in particolare. Anche nell’originale le due frasi non riguardano singoli autori; riguardano una cultura, una civiltà. Nessuno in particolare, ma nessuno escluso; inclusi i lettori di storia, cioè anche me. “Non chiedere mai per chi suona la campana. Essa suona per te.” Che cosa abbiamo fatto?

Marc Bloch scriveva durante una crisi terribile dell’Europa, della Francia, della cultura europea e francese, dopo la sconfitta, mentre il trasformismo dilagava e “per quello che non verrà si cominciava a morire”. Noi, forse, pensiamo che la nostra condizione sia migliore; ma forse si tratta solo di un dettaglio geografico e temporale: non qui, non ancora, si muore di fame e di bombe. Ma il disastro culturale, il trasformismo, la destra che viene da sinistra, la destra eversiva e la residua sinistra evanescente, liquida, leggera, per stare, alle definizioni accettate, è forse anche peggiore, perché ci siamo convinti che nulla più dipende da noi, e perciò ci lasciamo andare.

Che cosa ci è mancato, mi è mancato, per non attribuirmi rappresentanze che non ho, negli ultimi due decenni?

Una ricostruzione complessiva della resistenza, non mitologica e apologetica come è stata quella dei movimenti e dei gruppi degli anni ’70; una analisi ampia del Comunismo, in particolare di quello italiano ed europeo, dei suoi rapporti, somiglianze differenze e supplenze, con la socialdemocrazia e con i liberali, da un lato, con le ideologie totalitarie dall’altro, prima della caduta del muro e dopo; una analisi dell’Italia nell’Impero, delle sudditanze, delle necessità, delle possibili vie di uscita; soprattutto una analisi seria della destra, della sua cultura, storicamente molto forte, egemone, in Italia, ritornata in primo piano per vie dirette e per vie sotterranee e, congiuntamente, una analisi delle debolezze storiche della cultura liberale, sempre pronta in Italia a scivolare a ridosso della destra estrema tanto da poter salvare, in sostanza, i soli radicali. O associazioni “Giustizia e libertà”, siti “Eguaglianza e libertà”, che mi piacciono molto ma sono molto deboli.

Si può obbiettare all’elenco delle mie necessità. L’obbiezione più radicale è quella che può riguardare persino il Marc Bloch de La strana disfatta. Chi sono io, chi siamo noi, per assegnare compiti alla storiografia? Gli storici fanno ricerca per passione, o per allegria, e in spirito di verità, seguendo regole, come sostiene l’alto, intrecciato, concluso, ragionamento di Apologia della storia. Non hanno compiti storici, come non li ha nessun altro. La storia va dove vuole, e così la storiografia, di cui stiamo parlando.

Ma, in un momento di crisi, potrò dire, potremo dire, che nel vuoto in cui ci muoviamo c’è anche un vuoto di ricerca e di consapevolezza storica e che senza un’idea del nostro passato, anche recente, non andremo lontano?

La seconda obbiezione è che le librerie e le biblioteche ospitano molte opere che hanno affrontato valorosamente alcuni dei temi che ho citato ed altri, importanti, che ho trascurato. Molti amici, molto più bravi di me, possono dirmi: perché non leggi di più?

In effetti alcuni dei libri importanti che si possono citare li ho letti, a cominciare dal fondamentale Una guerra civile di Claudio Pavone, per proseguire con Guerra totale di Gabriella Gribaudi, che mi sembra ottimo anche se riguarda, ovviamente, una piccola parte della guerra, quella intorno a Cassino. Per non parlare dei libri e degli articoli del gruppo che si raccoglie intorno all’Istituto Basso, anche sulla cultura fascista. E, naturalmente ci sono i libri e gli articoli di Guido Crainz, che è tra i più attivi. Il paese mancato è stato un contributo importante, anche perché, per gli anni ’70 includeva una riflessione sui gruppi, ad uno dei quali l’autore aveva partecipato da protagonista.

Ma è importante anche Il dolore e l’esilio, che ha contribuito a fornire, insieme con le ricerche sulle migrazioni forzate alle frontiere orientali dell’Europa e dell’Italia, coordinate anche da Crainz, le “informazioni chiare e sicure”, come dice Bloch, sulla guerra civile al confine istriano. E sono importanti L’ombra della guerra, il risvolto letterario, si potrebbe dire, di Guerra totale, Autobiografia di una Repubblica, di cui vorrei parlare in particolare, appena finita l’esposizione dei miei turbamenti.

Resta il fatto che il vuoto esiste, in particolare quello sulla cultura liberale, di cui ci proclamiamo oggi tutti figli, ma che non è stata tutta combattente e irriducibile; e, specularmente, quello sulla cultura della destra. Dopo il Gabriele Turi di Il fascismo e il consenso degli intellettuali, che per me è stato una vera sveglia per la parte riguardante la Casa editrice Einaudi, per cui allora lavoravo, non si è letto molto. Ma l’unica rivoluzione italiana riuscita, quella fascista, è stata di destra. E i milioni di comunisti, la sinistra nazional-popolare, i dirigenti, gli intellettuali, sono quasi tutti evaporati. Non c’erano e se c’erano dormivano, facevano finta. Per quarant’anni. Qualche informazione “chiara e sicura” in più vorremmo averla.

L’Autobiografia: una lettura

Autobiografia di una RepubblicaIl titolo Autobiografia di una Repubblica, giustamente, non ci rassicura. Il fascismo autobiografia della nazione, il fascismo inveramento è la tesi di Gobetti, di Salvatorelli, contro quella più rassicurante di Croce, di Bobbio, del fascismo invasione degli Hyksos, del fascismo parentesi, del fascismo senza cultura. Quindi non solo stiamo parlando di un disastro di grandi proporzioni, analogo a quello lì, ma stiamo parlando di un disastro che ci riguarda, di cui siamo stati, in qualche misura anche in parte complici. La malattia ha colpito largamente. In qualche luogo più e meno altrove naturalmente, ma non solo i politici di mestiere, i ricchi, i potenti; non i potenti di una sola parte, che si identifica con lo stato di cose presente e lo esalta. Anche gli altri hanno dato una mano.

Ridurre a uno schema un libro fatto di citazioni, che parte con Meneghello e Calvino e chiude con Sereni, Saba, Caproni, vuol dire ammazzarlo. Non lo si legge solo per le tesi. Ma dato che non tutto è poesia nel testo, e ci sono anche Galli della Loggia, Scalfari, Rusconi, Pansa, ecc., una sintesi provo a farla, facendola seguire da qualche cenno critico e da una sorta di ragionamento parallelo, considerazioni fuori recensione ma legati alla lettura del libro, ai miei turbamenti.

Il libro comincia con le angosce dell’oggi, constata la complessità delle cause remote, prende le distanze da un eccesso di enfasi sulle continuità, sull’Italia eterna, o sugli eterni italiani, sottolinea i reali elementi di novità introdotti dal movimento operaio e socialista, da intellettuali di valore, dalle discontinuità della industrializzazione e della emigrazione, e invita perciò a non esagerare con le continuità sociali e antropologiche senza tempo, cercando invece in contiguità sgradevoli e vicine, non analogie o coazioni a ripetere ma cause, le radici del disastro presente.

Il nodo della interpretazione del resto già trattato molto più ampiamente in Un paese mancato, è la continuità nella Repubblica fondata sul lavoro del partito stato, delle forme organizzative, dei codici, delle persone, del Fascismo. Accanto allo Stato della Costituzione si costituisce, o resiste, un doppio stato, come titolava Fraenkel, in cui il potere si esercita attraverso organismi economici pubblici, ma usati a fini diversi da quelli prescritti; attraverso i finanziamenti illeciti a partiti e organizzazioni; attraverso accordi con la malavita, attraverso infinite nomine concordate e lottizzate. Dal mio punto di vista questi, qui condensati ma più ampiamente presenti ne Il paese mancato, restano i punti centrali e più solidi della interpretazione.

I capitoli centrali sono Dalla “grande trasformazione” ai “funerali della Repubblica”, quando le caratteristiche virtuose dello sviluppo si trasformano in conflitti tra opposti egoismi; I lunghi anni ottanta, quando la corruzione si fa pervasiva, la finanza pubblica, in deficit, viene usata e soprattutto abusata a fini di partito, per arricchire gli amici potenti e accontentare quelli deboli; L’approdo, che è il disastro svelato da tangentopoli.

Il capitolo sugli anni ‘70, già trattati nel lavoro più ampio, resta centrale, in particolare per le considerazioni sui limiti e gli errori dei movimenti e dei gruppi, sulla violenza, sulla mancanza di cultura delle istituzioni. Si sente un po’ la mancanza di riferimenti al contesto internazionale, agli infiltrati, all’impero, alla provata falsità della ricostruzione dei brigatisti dei modi della uccisione di Aldo Moro. Non sappiamo come è andata, ma non come hanno detto loro.

Sono nuovi, cioè riguardano un periodo non già trattato, i capitoli sugli anni ’80 e ’90, cioè, per non ripetere i titoli, l’edonismo reaganiano e Tangentopoli.

Per gli anni ’80, tra articoli di giornale, cantautori e trasmissioni televisive, in particolare Drive in, si racconta come cambia l’intero sistema della informazione. La nascita, in barba alle norme, delle televisioni private e del monopolio berlusconiano, che contribuisce a spiegare perché i comuni cittadini non abbiano accesso alle informazioni chiare e sicure, anche quando esistono, perché la rapidità, piacevolezza e pervasività della televisione, le cose implicite, date per scontate che fanno aggio sulle verità esplicite e controverse, sono molto più efficaci. Non è una novità. Alcuni della generazione di Crainz lo hanno capito benissimo, in tempo reale, che ciò che si dice e si fa, se “non va in televisione”, non esiste. Ma il racconto è ben costruito, giustamente accompagnato dalla documentata connessione con la malavita, con la finanza vaticana e non, con i conflitti per la proprietà delle testate importanti e dei canali importanti.

C’è la spesa in deficit, che porta rapidamente al moltiplicarsi del passivo dei conti pubblici e alla perdita di credito.

Ci sono le discontinuità ma, soprattutto, i cambiamenti per non cambiare nulla, i mutamenti di senso delle parole, gli schieramenti ribaltati, i veri e propri complotti, con programmi ben formulati e poi realizzati, come quello di Licio Gelli.

L’approdo è la corruzione generale di tangentopoli, il pieno realizzarsi della partitocrazia: la convergenza e la collusione delle burocrazie di partito al di là delle differenze presunte, la lottizzazione, il monopartitismo imperfetto, come continua a dire Pannella. Su tangentopoli quelli di una certa età hanno memorie troppo recenti per sorprendersi, ma qualche particolare, qualche violenza, qualche suicidio, può tornare a far sobbalzare.

Le conclusioni sono affidate ai versi di Sereni e Caproni, come già ricordato: Saba che girava dicendo “porca, porca” – Italia – dopo il 18 aprile. Caproni che scriveva Ora che più forte sento / stridere il freno, vi lascio / davvero, amici: Addio. / Di questo son certo: io / son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento. / Scendo. Buon proseguimento.

L’Autobiografia: qualche osservazione.

Le fonti usate, soprattutto i maggiori quotidiani, sono per forza svianti. Portano a una autobiografia di “la Repubblica” – e del Corriere e della Stampa – piuttosto che della Repubblica fondata sul lavoro, che è stata portata a fondarsi sulla pubblicità.

Bloch diceva che più che i testimoni volontari contano quelli involontari; che dalle vite dei santi non bisogna prendere le agiografie, scontate, ma quello che raccontano, senza rendersene conto, della società in cui i santi vivevano. Personalmente del Giorgio Bocca degli anni ’80, quando era sicuro di aver vinto, trovo più importante la ammirazione implicita per il decisionismo e la vitalità di Benito Mussolini di un suo libretto di storia di tutte le, ovvie, e vere, e legittime, riaffermazioni della importanza e della verità della Resistenza. Come di Galli della Loggia trovo importante la esplicita affermazione della necessità di un ordine gerarchico mondiale perché le società liberali possano esistere. Prima bisogna decidere chi comanda, poi si può giocare alla democrazia.

Usare i commenti dei giornali maggiori, che difficilmente parlano di classi sociali, di statistiche, di minoranze, porta a sottovalutare la società, l’economia e i gruppi politici  e sociali che non finiscono di frequente sulle prime pagine.

Perciò mancano, in sostanza, dal quadro, da due versanti molto diversi, i radicali, la sinistra sociale cattolica, i giornali, anche diffusissimi, cattolici: più vescovili, come “Avvenire” e più sociali come “Famiglia cristiana”. E manca, perché non ne parlavano i giornali, certo, la rinascita di una destra culturale.

Perciò, negli anni dell’edonismo reaganiano, quando le masse non vanno di moda, manca il declino operaio, la divaricazione delle differenze, la notte in cui ci giocammo la lira, gli immigrati. Insomma, se un giovane vuole farsi un’idea di quegli anni, fa bene a leggere l’Autobiografia in parallelo con Ricchi per sempre? di Ciocca e Italy and its discontents. 1980-2001, di Paul Ginsborg. Certo, il primo dei due lavori ha la rilevante caratteristica di essere scritto da un esponente importante dell’Ufficio studi della Banca d’Italia. “Questo è uno strano paese in cui la Banca d’Italia non solo fa la politica economica, ma studia gli effetti della sua politica economica e ne fa anche la storia. Ma tant’è: se gli altri non fanno né la ricerca né la storia è giusto che le faccia lei”, bofonchiava Marcello de Cecco presentando il volume a Torino insieme con l’autore.

In quanto a Paul Ginsborg si può dire che perpetua una tradizione per cui i migliori libri sulla guerra civile spagnola sono stati scritti a suo tempo da inglesi. Solo lo straniero è imparziale e nobile; anche se Ginsborg tanto straniero non lo è e si è mosso, anche politicamente, negli ultimi anni, più di molti di noi.

Manca una minoranza che è diventata significativa dagli anni ’80, che cresce anche nella crisi, che svolge una funzione importantissima per gli equilibri sociali e produttivi del paese: i lavoratori stranieri. Senza stranieri non reggerebbe il sistema assistenziale; non reggerebbe l’agricoltura; non reggerebbe l’edilizia; non troverebbero operai le aziende siderurgiche e metalmeccaniche del nordest. E se quei lavoratori fossero cittadini e potessero votare gli equilibri politici sarebbero diversi.

Non necessariamente più spostati a sinistra; ma diversi. Sul piano dell’opinione pubblica, il successo della Lega è anche fondato sulla xenofobia. Buona parte del dibattito culturale italiano, dal pacchetto sicurezza, alla scuola, ai respingimenti, ruota intorno alla xenofobia, che finisce per rappresentare il centro della destra eversiva. Mentre, d’altra parte, tra i politici di primaria importanza, il più articolato nel proporre un passaggio allo jus soli è Gianfranco Fini. Un nazionalismo culturale è molto meglio di uno razziale. E’ una speranza per la Repubblica.

Stupisce che non si approfondisca nell’ultimo capitolo il tema del mutamento di linguaggio e di forme della comunicazione così ben descritto per gli anni ’80.

Non solo la televisione ha sostituito i giornali, ma la pubblicità ha sostituito la propaganda come strumento per costruire il consenso, per formare l’opinione pubblica. È questa, insieme al trionfo profondo del linguaggio dei talk shaw, la forma culturale di quello che Pasolini chiamava il mutamento antropologico.

È vero che anche la propaganda politica può essere puramente percettiva, meccanicamente visiva; che può usare elementi puramente grafici che passano solo per gli occhi, non per la testa. Un vecchio libro degli anni Trenta, La tecnica della propaganda politica insegnava a rovesciare i W in abbasso con pochi segni sul muro: niente idee; niente riferimento alla realtà.

Ma oggi ogni cosa scritta o detta viene considerata una opinione, anche se empiricamente controllabile. Si può affermare tutto, anche l’assolutamente falso; si può dire della società ciò che si vuole, come per l’acqua minerale o i deodoranti.

Qualche considerazione parallela

Temo che la storia di questo paese, ovviamente connessa al mondo da sempre, sia diventata decisamente più dipendente da ciò che accade altrove senza che ce ne rendiamo conto a sufficienza. Non si tratta solo dell’integrazione europea, che è ottima, di cui non ci occupiamo abbastanza, ma che fa parte delle idee della sinistra, di una sinistra, dai tempi di Ventotene. Non è solo il dominio delle potenze vincitrici, e liberatrici dal fascismo, sulla politica estera e su quella economica italiana, spesso non adeguatamente espressa nel discorso pubblico, ma presentissima. Ricordiamoci di Clara Luce, di Enrico Mattei; e, perché no, di Aldo Moro.

Si tratta della inevitabile ascesa dei poveri di ieri, che lavorano, a casa loro e qui, cui dovremmo aprire le porte, praticamente e culturalmente, ma che invece non riusciamo a considerare né concittadini né parte dello stesso mondo culturale ed economico. Si tratta della accettazione passiva del dominio culturale dell’America, che resta il paese centrale, ma di cui abbiamo copiato i vizi senza le virtù.

In questo, come per le liberalizzazioni, le privatizzazioni, la politica, la sinistra è stata anche più subalterna della destra. Vorrei essere chiaro: io amo almeno una America, quella dei movimenti e della vitalità culturale; ma accetto senza esitazioni anche quella del realismo, della capacità di far fronte, di accogliere, non senza conflitti, chi è nato altrove.

Ma passare dal diritto romano e napoleonico a quello consuetudinario, per giunta senza accettare il costituzionalismo rigido, non è come cambiare una giacca. E dimenticare i meriti dei sistemi europei di sicurezza sociale non è come scordarsi l’ombrello. Una volta, a Bologna, ho sentito un relatore dire: “Il modello emiliano è morto quando abbiamo cominciato a ragionare in termini di confronto con ciò che gli altri facevano anziché partire dai nostri bisogni, come avevamo fatto sempre.” La dimensione comparata è importantissima, ma bisogna confrontare le totalità, non singoli aspetti, altrimenti si rischia di uscire in mutande perché ci sono alcuni, altrove, che i pantaloni non li portano, dimenticando che portano camicioni lunghi fino a terra.

Non siamo più al centro del mondo perché l’Europa non lo è più. Ma, in larga misura, ciò che diventeremo dipende da noi – e dai nuovi che arrivano a vivere con noi da di là delle Alpi o del mare.

Non avremo la vita facile e bisogna ripartire da ciò che quelli di noi che ancora lavorano pienamente sono capaci di fare, da quello che tutti noi siamo capaci di pensare. Nessuno ci regalerà nulla.

Altrimenti ci può capitare che non aspettino lo stridere del freno e la fermata, come diceva Caproni, e ci buttino direttamente fuori dal treno.


Ciafaloni, ingegnere e intellettuale maestro del pensiero socialdemocratico
Gianluca Sartori, Corriere della Sera, Corriere Torino, 26 giugno 2025

Si è spento Francesco Ciafaloni, uno dei più importanti interpreti e anima del pensiero socialdemocratico a Torino e in Italia. Sono tanti gli scrittori, politici, sociologi formatisi negli ultimi decenni in città e non solo ad averlo ritenuto un punto di riferimento, se non un maestro. Classe 1937, Francesco era originario delle montagne abruzzesi — territorio a cui è rimasto affezionato per tutta la vita — e si è laureato a Roma in Ingegneria Elettronica, per poi trasferirsi in Texas e ottenere un Master in Ingegneria del petrolio. Dopo alcune esperienze lavorative e di studio nel campo dell’estrazione petrolifera, che lo videro lavorare anche all’Eni di Enrico Mattei negli Stati Uniti e in Sicilia, si trasferì a Torino per lavorare presso l’editore Boringhieri e poi come redattore per la casa editrice Einaudi. In questa parentesi lavorativa, durata dal 1970 al 1984, conobbe e divenne amico di alcuni dei più importanti pensatori italiani del Novecento, tra cui Italo Calvino, Primo Levi e Norberto Bobbio. Soprattutto con Levi ebbe un bel rapporto: i due avevano in comune la passione per le camminate in montagna e il piacere di raccontare. Numerose sono state poi le sue collaborazioni e pubblicazioni. Ad esempio, ha scritto l’editoriale del primo numero della rivista Inchiesta, con la quale ha intrattenuto una proficua collaborazione nel corso di parecchi anni. Tra i libri da lui firmati ci sono stati Kant e i pastori. Il mondo e il paese (Linea d’ombra, 1991), I diritti degli altri (Minimum fax, 1998) e Il destino della classe operaia (Edizioni dell’Asino, 2011). Ciafaloni è stato un intellettuale capace di svolgere numerose inchieste nel campo del sociale. Tra i temi di cui si è a più a lungo occupato ci sono quelli relativi ai migranti e all’operato dei sindacati. Aveva una cultura raffinatissima, che spaziava dalle scienze alla letteratura, e sapeva colpire per la sua capacità di conoscere in maniera esatta e circostanziata le cose di cui parlava. La vitalità polemica che lo animava mancherà a molti.


📚 Libri e saggi


📰 Articoli e contributi periodici

È stato una firma costante su riviste quali Quaderni piacentini, Linea d’ombra, Lo straniero, Inchiesta, Una città, Gli Asini e L’ospite ingrato inchiestaonline.it+4quodlibet.it+4unacitta.it+4.
Tra gli articoli degni di nota:


🔬 Contributi scientifici (fisica teorica — particelle e interazioni ad alta energia)

Negli anni '80–'90 ha contribuito, insieme a Catani, Fiorani, Marchesini e altri, allo sviluppo del formalismo CCFM e della calcolistica di getti:







Nessun commento:

Posta un commento