Marco Aime
Orbán e i discriminati, a che cosa si è ridotta la vecchia democrazia
Domani, 29 giugno 2025
Ci siamo adagiati su una certezza che si è rivelata fasulla, e ora tutto ci sta scappando di mano. Abitudine, pigrizia, scarsa conoscenza ci hanno portato ad associare quasi inconsciamente la parola “democrazia” al riconoscimento dei diritti umani, al loro riconoscimento e alla pace. Non è così, o meglio non sempre è così. A volte la democrazia si riduce a un semplice e puro meccanismo elettorale, neppure troppo democratico. Basti pensare alle sempre più ridotte percentuali di votanti, per dedurne che non governa chi ha una reale maggioranza di voti, ma chi ha la percentuale maggiore tra i votanti, che a volte sono meno della metà.
Il paradosso democratico è che può arrivare a governare chi democratico non è affatto: Trump, Netanyahu, Putin, Orbán, Modi, Milei sono tutti stati “eletti”, come lo fu Adolf Hitler nel 1933. A questo punto dovremmo chiederci se è democratico un governo in cui i cittadini sono discriminati sulla base del colore della pelle, della religione, dell’etnia o delle idee politiche. È una democrazia quella in cui la libertà di espressione è repressa e l’informazione nelle mani di pochi, che per interesse personale supportano il governo? È democratico un paese che non riconosce i diritti umani e che espelle, rinchiude, deporta donne, uomini, bambini che cercano un rifugio dalla miseria, solo per sopravvivere?
L'illusione postbellica (forse questo termine andrebbe rivisto, in effetti) della metà del Novecento, dopo la sbornia dittatoriale e feroce, sta svanendo. L’equivalenza democrazia uguale giustizia non è più scontata. Se in precedenza poteva accadere che una maggioranza reale poteva ignorare le istanze di una minoranza, dando vita a quella che Gabriel García Márquez chiamava la «dittatura della maggioranza», oggi assistiamo a una dittatura di una percentuale neppure maggioritaria. Spesso le minoranze, cioè quelle il cui rispetto dovrebbe essere l’elemento fondante di una vera democrazia, vengono totalmente escluse da ogni percorso decisionale. Basta notare come tanto a livello europeo quanto a quello italiano il parlamento venga ridotto a mero organo di ratifica delle decisioni della Commissione o del governo.
Nessuna discussione, tempi ridotti, cavilli organizzativi, strategie opportunistiche impediscono ogni confronto. Le decisioni sono state già prese a monte. Vediamo sempre più spesso rappresentanti delle opposizioni parlare, mentre gli esponenti del governo nel migliore dei casi li ignorano, in altri li deridono, li sbeffeggiano.
La vittoria elettorale garantisce l’annullamento dell’altro, questo è il risultato di uno slittamento democratico i cui colpevoli siamo noi cittadini. La nostra indifferenza, l’aver creduto che una cosa conquistata sia garantita per sempre, la scomparsa della memoria che ha ormai perso tutti i testimoni delle tragedie passate, ci ha ridotti a meri osservatori. Le passioni politiche si sono spente nel momento in cui nessuno più guarda al futuro. Inutile stupirsi, se i giovani dimostrano scarsa attenzione verso la politica: primo, nessuno parla di loro e dei loro problemi; secondo, hanno come riferimento genitori che a loro volta si disinteressano sempre di più alla vita pubblica. Inutile rimpiangere le belle bandiere del passato, se le abbiamo ripiegate nel cassetto o appese al muro dei ricordi.
La politica è slancio, è immaginare il cambiamento, lavorare per una società diversa, migliore, seguire un principio in cui si crede, non l’umore giornaliero, condizionato dall’informazione. Non è facile, soprattutto per i giovani, entusiasmarsi per passioni deboli come quelle espresse dalla politica attuale. Servono giganti, non nani per smuovere coscienze in subbuglio e in cerca di punti di riferimento solidi. Così la delusione e l’apatia degli adulti, lo sconforto e il vuoto attorno ai giovani, ci hanno allontanato dalla politica. «La libertà è partecipazione», cantava il mai troppo compianto Giorgio Gaber, e anche la democrazia, quella vera, lo è. È faticosa, forse, sì, ma ne vale la pena.
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