martedì 10 giugno 2025

Lo stallo continua


Alessandro De Angelis
Il campo largo e l’equivoco 5Stelle
La Stampa, 10 giugno 2025 

C'è un dato, che squaderna questione non banale nel cosiddetto «campo largo». Al quesito sulla cittadinanza, il numero dei no raggiunge la cifra ragguardevole del 35%. Il che, tradotto, significa che i Cinque stelle, allineati al Pd nel congresso postumo sul renzismo (il Jobs act), hanno assunto una posizione autonoma e discordante annunciata dalle dichiarazioni in cui l’ex premier parlava dei suoi «dubbi» in materia.

Per carità, sono lontani i tempi in cui Giuseppe Conte, quando guidava il governo con Matteo Salvini, si presentava in conferenza stampa coi cartelli del decreto sicurezza. E tuttavia la sua linea, su immigrazione e integrazione, è assai più cauta rispetto a quella del Pd. Guardando in giro per l’Europa non è un caso isolato. Perché c’è tutto un pezzo di populismo di sinistra che poco ha che fare con la sinistra radicale che fu libertaria e «altermondista», accogliente e inclusiva. Non a caso in Europa proprio il leader pentastellato voleva formare un gruppo con Sahra Wagenknecht, la leader di Bsw, che si staccò dalla Linke su posizioni rossobrune: filorusse in politica estera e di chiusura dei confini in patria. 

Si ripropone cioè l’«equivoco» mai sciolto di come ci si rapporta non con una costola della sinistra ma con un pezzo del populismo italiano. E, con esso, l’elemento di fragilità tutta politica di Elly Schlein. In nome dell’unità «testarda» della coalizione, ha introdotto degli elementi di divisione nel suo partito: la linea sul lavoro l’ha appaltata a Maurizio Landini, sulla politica estera le danze le mena Giuseppe Conte. Lo vorrebbe tanto assecondare sulle pulsioni pacifiste, nel frattempo lo ha assecondato su Gaza. [...] In nome dell’unità cioè, il Pd è diventato un’altra cosa rispetto all’idea – quando nacque si disse così – di un partito con un forte ancoraggio a sinistra, ma capace di parlare a tutto il Paese e guidare una alternativa.

Tra «resistere», mobilitando ciò che c’è, e «sfidare», conquistando alle proprie ragioni chi sta dall’altra parte, ha scelto di resistere. E infatti, su una postura del genere, l’unico collante con l’alleato populista è l’essere contro, fare cioè dell’anti-melonismo il remake dell’anti-berlusconismo dei tempi d’antan. Ove, se vinci, poi è complicato governare. Difficile anche portare lo ius soli al primo Cdm, come avrebbe tanto voluto fare Pierluigi Bersani... Il referendum, al tempo stesso, appalesa le contraddizioni in un campo (sulla cittadinanza, appunto, coi Cinque stelle, con Matteo Renzi sul Jobs act) e ci dice che l’anti-melonismo non basta. Si può discettare a lungo su questo paragone delle mele con le pere, dei voti al referendum con quelli alle politiche, ma il punto è che il coinvolgimento del popolo è rimasto chiuso in un recinto, di cui non si è nemmeno fatto il pieno.

E si spiega così la baldanza, anche eccessiva, di Giorgia Meloni, che ha ritrovato un assist in un momento neanche troppo brillante, tra le intemperanze trumpiane, la commozione del Paese su Gaza e la grana del terzo mandato. [...]  Vedrete che diventerà un tormentone: la sinistra ha chiamato alla «spallata», e invece il popolo è con me. [...] Dopo tre anni di legislatura è la conferma di un rapporto col Paese ancora forte (e non sfidato).

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